Vettel, tramonto su un pesce fuor d’acqua | Parte 2. Gli errori in pista e la review del 2018

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Tempo di lettura: 18 minuti
di Alessandro Secchi @alexsecchi83
22 Maggio 2020 - 08:30
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Nella prima parte di questa trilogia su Sebastian Vettel ho preso in esame gli errori che, secondo me, ne hanno condizionato l’avventura ferrarista fuori dalla pista. Alcuni dei quali possono essere, volendo, ampliati a tutta la carriera, soprattutto per quanto riguarda la gestione del suo personaggio. Passo, ora, al secondo capitolo.

Quello degli errori in pista è argomento delicato e spesso condizionato dal nome del pilota, dal colore della tuta, dal tifo e dai media. Insomma, non c’è mai una linea comune quando si deve parlare di questo genere di eventi. Negli ultimi anni, ad esempio, ho sempre difeso l’esuberanza di Verstappen, reo di aver avuto contatti contro le Ferrari, a costo di prendermi gli insulti. Il “più grande pacco della Formula 1”, così era stato anche definito, è stato massacrato all’inizio del 2018 ed era stato proprio in quel periodo che ne avevo preso le difese, perché mi piace mettermi nei panni del pilota e cercare di capire le ragioni che portano a sbagliare oltre ai semplici ed inflazionati “è scarso” o “non vale nulla”. Con la Mercedes imprendibile e solitaria era, d’altronde, difficile trovare altre macchine con cui lottare a parte la Ferrari. Ma questo conta sempre poco e, soprattutto, quando vai a toccare il rosso c’è sempre qualcuno pronto a dirtene dietro di tutti i colori.

È abbastanza palese che l’avventura del Vettel ferrarista sia stata condizionata da errori abbastanza incomprensibili per l’esperienza e lo status di campione del tedesco. Appurato che nel 2015, 2016 e 2019 le parole “Campionato” e “Ferrari” non potessero stare vicine neanche nel cuore del più coriaceo e fedele tifoso di Maranello e che qualsiasi stagione perfetta, da parte di qualsiasi pilota, non sarebbe servita comunque a vincere il mondiale contro la Mercedes (che poi è quello che conta), le stagioni 2017 e 2018 sono quelle in cui, almeno fino a metà anno, la lotta è stata a tratti entusiasmante; per quanto questo aggettivo si possa affiancare a mondiali persi rispettivamente per 46 ed 88 punti.


Se nel 2017 l’affidabilità di fine anno ha dato la mazzata finale tra Malesia (in qualifica) e Giappone, dopo quanto successo in quel di Singapore, il 2018 è l’anno che, secondo il parere generale, ha sancito la fine de facto dei sogni mondiali del tedesco agli occhi di molti e, per certi versi, della sua esperienza in rosso.

Sono generalmente del parere che, quando perdi un mondiale di 88 punti, è difficile pensare che quel titolo sarebbe stato portato a casa anche senza errori. Visto che, però, l’opinione abbastanza unanime nel caso del 2018 è quella di un mondiale perso per esclusive colpe del pilota, sono andato a rivedere cosa è successo. Si tratta di un’operazione che porta a molti “se” e “ma” che, solitamente, c’entrano poco con il mondo delle corse, altrimenti potremmo rivedere la storia di quasi tutti i mondiali. Non è neanche un genere di argomento che mi piace trattare, ma il lockdown ha fornito anche del tempo in più. Detto questo, l’analisi farà un po’ di luce sul come sarebbero potute andate le cose con i risultati che molti – anzi, quasi tutti – si sarebbero aspettati dal tedesco durante l’arco della stagione nelle gare in cui, invece, sono stati persi punti importanti.


La stagione inizia in Australia, dove Sebastian Vettel coglie la prima vittoria dell’anno grazie ad una Virtual Safety Car. Con Hamilton e Raikkonen già fermati per la loro sosta il tedesco, precedentemente in terza posizione, si trova in testa. Quando Grosjean ferma la sua Haas per una ruota non fissata al pit, la gara viene neutralizzata con l’attivazione della VSC. Vettel rientra ai box sfruttando il momento e si trova così in testa, andando a vincere la corsa. Potevano essere 15 punti, diventano 25.

In Bahrain il caos al box Ferrari per l’incidente durante il pit di Raikkonen, con l’infortunio al meccanico Francesco Cigarini, manda in confusione anche la strategia. Vettel si trova quindi a non dover effettuare una seconda sosta probabilmente prevista e, per vincere la corsa, deve rimediare a tutte le sue risorse mentre Valtteri Bottas risale alle spalle a colpi di giri veloci. La gara termina con il tedesco che vince per 7 decimi. Anche un giro in più sarebbe stato fatale.

In Cina arrivano i primi guai: Vettel viene centrato da Verstappen quando è terzo. Il tedesco finisce ottavo al traguardo. 11 punti persi.

A Baku, quarto appuntamento, la Ferrari richiama Vettel per una seconda sosta durante il periodo di Safety Car dovuto allo scontro tra le due Red Bull di Verstappen e Ricciardo. Il tedesco ha già effettuato una sosta – doveva essere l’unica – ed era in attesa del pit di Bottas per tornare in testa. La Safety stravolge tutto ed il finlandese ne approfitta per effettuare il suo pit, guadagnando secondi preziosi oltre ai 12 secondi di vantaggio che aveva sul tedesco. Al muretto della Rossa si decide di effettuare un nuovo cambio gomme alla #5 per mettersi in pari con la Mercedes in quanto a freschezza delle coperture. Vettel perde così la testa della corsa in favore del finlandese, trovandosi costretto a porre rimedio in pista. Alla ripartenza dalla Safety Car il tedesco tenta di riprendersi subito la leadership ma sbaglia la prima frenata nel tentativo di passare il #77, che poi forerà lasciando la vittoria a Hamilton. L’inglese chiude quindi primo davanti a Raikkonen, Perez e Vettel, superato anche dal messicano nel finale. Questi sono i primi punti pesanti persi, che possiamo quantificare nelle migliori delle ipotesi in 13 (dal 4° al 1° posto) più i 7 guadagnati da Hamilton per un totale di 20. Come sarebbe andata, invece, senza la decisiva Safety Car? Vettel aveva effettuato quella che doveva essere la sua unica sosta dopo 30 giri, passando da supersoft a soft. Bottas aveva percorso invece ben 40 giri con le supersoft di inizio gara. Gli ultimi passaggi, se le due Red Bull non si fossero eliminate, avrebbero visto il finlandese della Mercedes andare alla rincorsa della Ferrari con gomme più fresche di almeno dieci giri e con due mescole di vantaggio, da soft a ultrasoft. Come sarebbe finita? Mistero.

Dopo un quarto posto in Spagna, un secondo a Monaco e la vittoria in Canada, si arriva al Paul Ricard per il GP di Francia. In partenza, il tedesco centra Bottas mandando entrambi sul fondo. Risultato: Hamilton vincitore, Verstappen a 7 secondi, Raikkonen a 26, Ricciardo a 34 e Vettel a un minuto. Come sarebbe andata senza quella toccata? Considerati i quattro decimi rimediati in qualifica e i 26 di ritardo di Raikkonen a fine gara, viene difficile immaginare che il tedesco avrebbe vinto. Si potrebbe immaginare un secondo posto dopo aver lottato, però, con Bottas (se non fosse stato colpito) e Verstappen, il che non assicura una certezza di seconda piazza soprattutto visto l’olandese. Hamilton – partito in solitaria e nelle migliori condizioni possibili – sarebbe stato impossibile da prendere. Diamo comunque per buoni, ancora nelle migliori delle possibilità, 8 punti persi tra quinto e secondo posto.

Nella vittoria di Verstappen in Austria Raikkonen giunge secondo davanti a Vettel, distante un secondo e mezzo dal compagno con, sulle spalle, la penalità di tre posizioni in griglia (definita da più parti ridicola) per aver ostacolato Sainz in qualifica. Là dove nel 2002 la Ferrari aveva lasciato tutti di stucco, con Barrichello costretto a lasciare la vittoria a Schumacher nel finale, non si pensa a fare gioco di squadra in una gara dove entrambe le Mercedes sono ritirate. Con tre punti persi, di fatto, ai 28 di competenza del tedesco e agli 11 persi a causa di Verstappen in Cina se ne aggiungono 3 per il “non” gioco di squadra a Zeltweg.

La vittoria di Vettel a Silverstone è sì ricordata per il bel sorpasso nel finale ai danni di Bottas ma, è giusto sottolinearlo, anche agevolata dal colpo di Raikkonen su Hamilton al via. Ricorderete le illazioni di Toto Wolff sulla volontarietà del gesto… L’inglese giunge incredibilmente secondo ed è facile pensare che, senza toccata iniziale, la gara sarebbe stata sua. I 14 punti guadagnati da Vettel grazie al compagno si sommano ai 17 piovuti dal cielo in Australia.

Il castello crolla nell’indimenticabile, decidete voi in che termini, Hockenheim, tregenda televisiva nel weekend precedente alla scomparsa del presidente Marchionne. Da quel Gran Premio di Germania 2018, infatti, la situazione peggiorerà drammaticamente, con i dubbi partiti da Singapore dell’anno prima diventati certezze inossidabili e decisioni al limite del concepibile.

Sull’uscita di pista del tedesco in quel di Germania, della quale lo stesso pilota si è assunto la responsabilità, in realtà ho sempre avuto dubbi e continuo ad averne… Due giorni dopo il fattaccio avevamo ipotizzato il problema al V6 di Sirotkin, passato dalla Sachs qualche decina di secondi prima, come possibile concausa dell’uscita.

L’insabbiata crucca ci dà una certezza, ovvero che Sebastian ha sempre privilegiato quelle tre vie di fuga in erba/ghiaia rimaste in tutto il mondiale. Un’altra certezza ripetuta in questi due anni è che, senza quell’uscita di pista, il tedesco avrebbe sicuramente vinto la gara. L’inerzia della corsa, a 15 giri dal termine, era però passata tutta dalla parte di Lewis Hamilton. L’inglese, nei sei giri precedenti al fattaccio, era arrivato a 12 secondi di ritardo dalla Ferrari dopo averne recuperati oltre 8 negli ultimi sei giri (come da report) grazie a gomme ultrasoft contro le soft della Ferrari. Detta in parole povere, stava volando. Con quel ritmo è facile pensare che il campione in carica avrebbe raggiunto il suo avversario, ma non sappiamo come sarebbe finita. Rimanendo nel campo dell’ipotesi migliore, anche in questo caso prevediamo 25 punti persi per il tedesco e sette in meno per l’inglese ipotizzandolo al secondo posto, che sommati fanno 32 di differenza, un’enormità.

Con l’Ungheria vinta anch’essa da Hamilton ed il ritorno dalle vacanze estive a Spa-Francorchamps con Vettel vittorioso, si arriva in Italia.

La settimana che precede la nostra gara di casa, dopo il successo del Belgio, trasforma la zona attorno l’Autodromo Nazionale in una specie di polveriera. Liberty organizza un festival della F1 a Milano ed i tifosi della rossa sono semplicemente carichi a pallettoni. Il minimo sindacale atteso è una doppietta con Vettel 1°, Raikkonen 2° e Hamilton 3° se non più indietro. L’attesa è spasmodica e l’ambiente è esplosivo.

Ed è proprio qui che si consuma l’errore più grave del 2018 da parte del team che, orfano di Sergio Marchionne, ha nel frattempo messo la sua carica nelle mani di John Elkann. La tempistica varia tra chi dice al martedì tra le due gare e chi sostiene addirittura poche ore prima delle qualifiche di Monza; fatto sta che Kimi Raikkonen viene informato che non sarà rinnovato per il 2019, con l’annuncio dell’ingaggio di Charles Leclerc che arriverà due giorni dopo il disastroso weekend di Monza.

Il finlandese, ancora più libero del solito da necessità di sopporto nei confronti di Vettel e grazie anche ad una scia poco comprensibile al sabato, conquista la pole position davanti al suo compagno di squadra, con i tifosi in visibilio e ignari di quello che li avrebbe aspettati il giorno dopo.

Al via, infatti, il finlandese tira la staccata in prima variante con Vettel, inizialmente portatosi all’esterno, costretto ad accodarsi. Ad approfittare della situazione è Hamilton in versione squalo, che prende la scia della Ferrari #5 e alla Roggia gira all’esterno della Rossa. Una minima toccata manda Vettel in testacoda e lo spedisce in fondo al gruppo, con parte dei tifosi che inizia letteralmente ad abbandonare l’Autodromo quando non è ancora terminato il primo giro.

La piroetta della Roggia fa dimenticare tutto quello che è successo nei giorni precedenti, con la straordinaria capacità di Vettel di anteporre ad un errore grave dal punto di vista gestionale un altro errore (il suo) ancora più eclatante, in quanto pilota e punta di un iceberg che non vede nessuno.

Sarebbe ingiusto non considerare che gli errori possono essere commessi da tutte le parti in gioco; puntare il dito solo verso una di queste è sempre sintomo di linea editoriale ben precisa. Scegliere un momento del genere per una comunicazione del genere e pretendere o sperare nell’aiuto da gregario – dopo aver agevolato scia e pole in qualifica nel caso di Kimi, altra tattica folle – è come spararsi sui piedi e tentare di correre i 100 metri sotto i 10 secondi.

La gara prosegue con Raikkonen che, nel finale, soffre tremendamente di problemi di consumo alle gomme posteriori. La Mercedes, invece, riesce a conservare meglio le mescole e questo permette ad Hamilton di recuperare facilmente sul finlandese, fino al sorpasso decisivo. Vettel, da parte sua, rimonta bene fino alla quarta posizione, ma l’atmosfera è ormai completamente rovinata, così come la sua immagine. Dopo la Germania si tocca un altro punto basso: anche in questo caso diamo per buono il punteggio che tutti attendevano da Vettel, ovvero 25 punti invece di 12, togliendone 7 all’inglese. Altri 20 totali.

Questo è lo stato delle gomme di Raikkonen al termine della corsa. Considerata la fama dal finlandese di pilota gentile con le coperture, dare per certo che il tedesco avrebbe vinto lascia, per lo meno, qualche dubbio.


Apro e chiudo parentesi con una domanda. Non è strana una medaglia in cui, da una parte, si danno per scontati determinati risultati mentre, dall’altra, non si ha nessuna fiducia in quello stesso pilota? Riassumo: non è strano sentire dire che Vettel è scarso ma che, contemporaneamente, certe gare le avrebbe sicuramente vinte?


Hamilton guadagna altri 20 punti su Vettel tra Singapore e Sochi, dove vince con il tedesco terzo. Passiamo quindi alla piroetta di Suzuka di Vettel dopo l’entrata forzata su Verstappen. Le cose si mettono già male al sabato quando la Ferrari, dopo una Q2 finita con pista umida, manda in pista per primi i suoi due piloti con gomme intermedie in Q3 mentre tutti gli altri escono su supersoft. Raikkonen e Vettel buttano il primo giro per rientrare e cambiare su slick, mentre il resto del gruppo riesce a segnare un tempo buono. Le Mercedes e Verstappen prendono le prime tre posizioni, Raikkonen artiglia il quarto posto mentre Vettel, con un errore alla Spoon mentre la pioggia torna sul tracciato, finisce nono scalando poi ottavo per una penalità ad Ocon.

Alla domenica il tedesco parte bene, trovandosi quarto dopo il primo giro: la fretta di passare Verstappen alla Spoon per andare a prendere le Mercedes gli costa una toccata durante l’ottavo giro, che lo fa girare e lo spedisce in fondo costringendolo all’ennesima rimonta. Ecco il risultato di gara. Hamilton vincitore, Bottas a 13 secondi, Verstappen a 14, Ricciardo a 20, Raikkonen a 50 e Vettel a 70. Visto il risultato del finlandese è difficile pensare che il tedesco sarebbe potuto arrivare, comunque, molto più avanti. Con benevolenza di Raikkonen, Vettel al massimo avrebbe potuto ottenere due punti in più scambiando la quinta posizione con la sesta. Anche se, visto com’è andata in Austria e viste le comunicazioni di Monza, è parecchio improbabile.

Di piroetta in piroetta arriviamo ad Austin. Dopo aver ricevuto una penalità di tre posizioni per non aver rallentato a sufficienza sotto bandiera rossa in FP1 per un’uscita di pista di Charles Leclerc (corsi e ricorsi…), allora in Alfa Romeo, Vettel parte quinto e la leggerissima toccata con Ricciardo nel corso del primo passaggio causa un’altra ulcera ai ferraristi già rassegnati. Ad alleviare i dolori ci pensa Raikkonen, che vince la sua ultima gara in carriera seguito da Verstappen, Hamilton e lo stesso Vettel, risalito al quarto posto. Con i primi tre racchiusi in due secondi e tre decimi è difficile ipotizzare un piazzamento per il tedesco. Difficilmente Raikkonen si sarebbe lasciato scappare l’ultima vittoria con la Ferrari, quindi mettiamo nel piatto una seconda posizione e, quindi, sei punti in più per Vettel, con tre in meno per Hamilton.


Con il mondiale vinto a città del Messico da parte di Hamilton e le ultime due gare (Brasile, Abu Dhabi) che hanno allargato ancora di più la forbice in classifica con due successi dell’inglese, il campionato si è chiuso con 408 punti per il campione in carica contro i 320 del tedesco.

Questo è il grafico del mondiale così come si è sviluppato, con il divario che inizia a delinearsi dalla Germania per aumentare sempre più nel corso dell’anno.

Questo è invece quello che sarebbe successo tenendo in considerazione le valutazioni fatte gara per gara: 20 punti in più per Vettel a Baku, 8 in Francia, 32 in Germania, 20 a Monza, 9 negli Stati Uniti. Questa rivisitazione porta Vettel un punto sopra Hamilton a fine campionato.

Si tratta ovviamente di un gioco basato sul concetto di “se” e “ma” che, come detto all’inizio, lascia un po’ il tempo che trova. Quello che emerge in primis, ovviamente, è la serie di errori che sono costati punti carissimi a Vettel ed alla Ferrari. Ma ci sono anche altre considerazioni interessanti da fare.

Per arrivare a questo risultato abbiamo dovuto “annullare” tutti gli errori di Vettel riparametrando quando necessario i punteggi di Hamilton ed immaginando vittorie che, per gli andamenti delle gare sottoposte a “modifica”, non possono in realtà essere date completamente per scontate. Non si può dare per certa quella di Hockenheim, con Hamilton che stava ritornando con gomme di due mescole più morbide, così come non possiamo dare per scontata quella di Monza visto lo stato delle gomme di Raikkonen.

A proposito del finlandese, abbiamo accennato ai tre punti persi da Vettel per il mancato gioco di squadra in Austria. A questi potremmo aggiungere i due mancati in Giappone per lo switch tra quinta e sesta posizione e, se volessimo togliere la vittoria di Austin di Kimi (lo vogliamo veramente?!) i sette degli USA che porterebbero il vantaggio finale di Vettel su Hamilton a quota 13. Si tratterebbe comunque di una differenza risicata e basterebbe una sola gara di quelle “modificate” con prima e seconda posizione invertite tra i due contendenti al titolo per ribaltare la situazione a favore dell’inglese di un punto.

Altra considerazione: al tedesco mancano i punti persi per la tamponata in Cina da parte di Verstappen. Abbiamo valutato una perdita di 11 punti. Immaginiamo che Vettel abbia avuto una stagione perfetta, che Raikkonen sia stato un altrettanto perfetto scudiero e che Verstappen non l’abbia tamponato in Cina. Andremmo a 24 punti di vantaggio su Hamilton. A questo punto un tifoso di Lewis potrebbe venire a dirmi “Bene, allora togliamo i punti vinti grazie alla Virtual Safety Car in Australia e quelli che Lewis ha perso per essere stato tamponato da Raikkonen a Silverstone”. A Melbourne Hamilton stava vincendo con Vettel terzo, in Gran Bretagna avrebbe probabilmente vinto. Il conteggio è di 31 punti (17+14) e riporterebbe Vettel a -7.

Il tutto si può riassumere così: gli errori di Vettel nel corso del 2018 sono stati pesantissimi, tanto da convincere tutti che senza questi il mondiale sarebbe stato vinto sicuramente e con largo margine (più volte si sente dire “con Tizio, Caio o Sempronio il mondiale sarebbe arrivato”), anche per il fattore psicologico che avrebbe visto la Mercedes nel ruolo di inseguitrice. Eppure, analizzando i dati e immaginando scenari completamente forzati a favore del tedesco, non si delinea una situazione di netta superiorità.

È corretto, quindi, dire che il mondiale 2018 è stato perso esclusivamente da Vettel? Rivedendo le gare senza fare conti sì, l’impressione è questa. Eppure, come mostrano i dati, anche una stagione perfetta avrebbe portato ad una differenza risicata, in cui un singolo risultato diverso non avrebbe garantito la vittoria finale.

Domanda provocatoria: gli stessi ferraristi che hanno accusato / accusano Vettel di aver vinto due titoli di fortuna nel 2010 e 2012, come avrebbero accolto un mondiale vinto per i punti regalati, magari, dalla Virtual Safety Car a Melbourne o dalla tamponata di Raikkonen a Hamilton di Silverstone? Con gioia, coerenza o sdegno?


Altra considerazione riguardante il 2018. Le cinque vittorie di Vettel sono arrivate per una VSC (Australia), con 7 decimi di vantaggio (Bahrain) e 7 secondi (Canada) su Bottas, grazie a Raikkonen (Silverstone) e con 11 secondi su un Hamilton remissivo e con problemi di gomme a Spa. A Baku Vettel aveva un potenziale vantaggio di circa 10 secondi sul finlandese, il quale senza Safety Car avrebbe avuto però almeno dieci giri a disposizione con gomme più fresche di dieci giri e con due mescole di vantaggio. In definitiva solo a Montreal la Ferrari ha corso da prima forza meritando pienamente la vittoria.

Le undici vittorie di Hamilton, invece, sono arrivate con distacchi anche pesanti sulle prime monoposto non Mercedes: 27 secondi su Verstappen (Spagna), 17 su Vettel (Ungheria), 14 su Max (Giappone) oltre a medie di almeno 8/9 secondi negli altri casi di gare senza interruzioni. Di fatto, al netto degli errori del tedesco, la Mercedes quando ha vinto senza agevolazioni (Baku, Germania) l’ha sempre fatto convincendo e con dimostrazioni di forza mai viste da parte della Rossa.

Paradossalmente, tornando indietro di una stagione, la SF70-H del 2017 si era dimostrata più forte in gara almeno nella prima metà dell’anno, vincendo di strategia la prima gara in Australia, convincendo in Bahrain, dominando a Montecarlo con una doppietta così come a Budapest (con lo sterzo rotto per Vettel), arrivando seconda per pochi decimi in Russia ed Austria e lottando in Spagna e Belgio alla pari con la Mercedes. Il vero punto debole di quella monoposto era la carenza di motore. Per questo, almeno personalmente, credo che la vera occasione sia stata più quella del 2017 che non quella del 2018.

Con le opinioni, però, non si fa la storia, mentre con i dati si può riflettere un po’ di più.

Vai alla terza parte.

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