L’esperienza di vita ci rende parte dello stesso mondo: calpestiamo la stessa terra, respiriamo la stessa aria, vediamo sorgere e tramontare lo stesso sole. Ma lo facciamo ognuno a modo suo. Siamo necessariamente e fondamentalmente diversi: ogni vita è unica, vissuta in modo diverso da quelle di tutti gli altri. Ognuna delle nostre esistenze potrebbe essere rappresentata in un film, e sono sicuro che se provassimo a vedere la pellicola di persone di cui non conosciamo nulla potremmo rimanere stupiti, in un modo o nell’altro, in positivo o negativo.
Ognuno di noi sa qual è stato il suo percorso, le sue difficoltà, le sue soddisfazioni e le inevitabili cadute che ha dovuto affrontare. Sa chi è stato al suo fianco e chi no durante i momenti peggiori e quelli migliori, quelli che contano meno per capire chi davvero tiene a noi. Sarà stato deluso da chi pensava potesse dare maggior sostegno, sarà stato stupito da persone a cui non dava un centesimo e che si sono rivelate migliori di tante altre, anche di quelle più vicine.
E poi ci sono loro, gli idoli. I punti di riferimento. Persone lontane da noi, che non ci conoscono e che non conosciamo ma che hanno un’influenza speciale sulla nostra esistenza. Sono quelle persone che, senza saperlo, ci condizionano, somigliano, ispirano, spingono a migliorarci. Sono quelle che sentiamo vicine quando chi è davvero vicino fisicamente è invece lontanissimo, quelle che impariamo a seguire e quelle per le quali ci danno dei pazzi perché ne sembriamo ossessionati, ma solo noi sappiamo il perché. Solo noi sappiamo quanto ci offrono senza neppure sapere chi siamo, quanto ci fanno del bene con le loro gesta e quanto ci facciano sentire meno soli nei momenti peggiori. Gli idoli sono quelli che vorremmo diventare, quelli a cui aggrapparci quando intorno a noi è tutto nero, fanno parte di mondi nei quali vorremmo rifugiarci quando non ci sentiamo accettati e compresi. Sono il nostro angolo di felicità.
Ognuno di noi ne ha avuto, ne ha, ne avrà uno. In base alla sua esperienza di vita può essere qualsiasi tipo di persona, un’artista ad esempio: un musicista, un cantante, un attore, uno scrittore. Oppure uno sportivo: i calciatori muovono i sogni di milioni di bambini, ad esempio. E poi loro, i piloti, di moto e di auto. Nel cassetto del mio comodino c’è una piccola scatola di cartone che ho costruito in seconda media: è piena zeppa di Micromachines. Quando avevo sette, otto anni, creavo delle piste sul pavimento di casa e facevo correre le mie automobili in gare completamente inventate nelle regole e nello svolgimento. Quella che vinceva, alla fine, era sempre la stessa, sia che partisse prima che quando la piazzavo in fondo, in una corsa ad handicap che terminava sempre in trionfo. Quella piccola auto, che ora spicca tra le altre in cima a quella scatola, è rossa e sulle fiancate porta il numero 7. Lei era profetica, io troppo piccolo per capire.
Non c’è una regola per la quale uno si sceglie un idolo. Non ci svegliamo la mattina dicendo “da oggi tu sei il mio”. Non lo fissiamo sul calendario, non lo decidiamo: lo capiamo. Anzi, sono loro a colpirci con le loro azioni, con il loro modo di essere. A volte sono persone che sentiamo in qualche modo simili a noi. Riservate oppure stravaganti. Attente alle parole o sopra le righe. Decise a non mischiare il pubblico col privato o a fare della propria vita un continuo Grande Fratello. A volte il nostro idolo è invece la persona più distante da noi, quasi per compensazione. Non c’è una formula matematica che ci possa abbinare, ma solo un mezzo: le emozioni, e quelle sono personalissime.
Non saprei dire qual è stato il momento in cui Michael è diventato il mio personale idolo. Il percorso è stato progressivo. Partendo dalla prima vittoria di Spa, passando per la necessità di scrollarsi di dosso l’eredità di Ayrton e l’assurdo odio nei suoi confronti da parte di alcuni tifosi del brasiliano. Passando anche per quei giri sempre a Spa contro Damon Hill, con le slick sul bagnato per resistere alla Williams. Un crescendo che mescolato al rosso è diventato binomio di delusioni e colpi di genio, di momenti duri e di trionfi. Soprattutto dei primi, perché dietro ai numeri da record bisogna sempre ricordare che c’è stato un lustro di ceffoni, in cui non si è mai mollato per poi godere di anni di gloria.
Il mio idolo era uno di cui non si sapeva nulla fuori dalle piste, ma che dentro sgomitava come un pazzo. La domenica era sacra: lo è ancora. Per due ore non volevo sentire ragioni, parenti, telefonate, mosche, niente che potesse disturbare quel rapporto morboso tra me e la televisione, tra me e quel tubo catodico che per oltre cento minuti mi inchiodava e mi proiettava dall’altra parte del mondo, a qualsiasi ora del mattino quando si correva alle quattro in Australia o della sera quando si cenava col Gran Premio del Canada.
Il mio idolo era quello che perdeva i semiassi per strada, che rompeva nel giro di ricognizione, che perdeva la testa e i mondiali, ma era quello che tornava – sempre – più forte di prima. Ogni sconfitta era motivo per rifarsi con gli interessi. Ogni caduta un rialzarsi, ogni delusione un anticipo di vittoria. Il mio idolo ha saputo farmi urlare, godere, sbraitare più di chi mi ha sempre associato ad un volto, mi ha portato idealmente in giro per il mondo col pugno al cielo. Ed io non l’ho mai lasciato per un momento: non quando ha sbagliato, non quando è stato criticato, non quando ha perso. L’odore del carro è sempre quello, non profuma quando si vince e non puzza quando si perde.
Nel mio caso il mio idolo era in parte simile a me. Non raccontava niente di sé in pubblico, alzava un muro a protezione del privato, non si esponeva, non esagerava, lavava i panni sporchi nelle giuste sedi. Se vedeva il suo territorio minacciato lo difendeva con le buone e con le cattive. Non era social, non gli interessava: faceva il suo lavoro, al meglio, ma fuori dalla sua macchina non voleva essere protagonista. Il mio idolo ha lasciato quando gli altri potevano essere suoi figli. Faticava ma l’istinto c’era ancora. Lottava, sgomitava per un decimo posto, mordeva, non voleva cedere. Era nel suo mondo. E quel dito alzato a Montecarlo rimarrà un punto altissimo in mezzo a domeniche meno vincenti ma pur sempre significative, da cui apprendere sempre qualcosa.
Sta arrivando il periodo peggiore per chi da anni, come me, si sente derubato nel profondo del suo punto di riferimento, delle sue domeniche di gloria, della sua gioia sul podio. Un periodo di festa trasformato in tristezza per chi sente la mancanza, per chi non riceve un suo input, per chi si chiede cosa direbbe e cosa penserebbe di questo, quello, quell’altro. Leggeremo dei ciclici anniversari, quello della domenica maledetta e quello del compleanno. Leggeremo di chi lamenta il silenzio, di chi spera nel miracolo, di chi magari ne approfitterà ancora una volta per speculare. Leggeremo quasi per abitudine, come se tutto questo fosse normale dopo ormai quattro anni. I ricordi, i filmati, le immagini continueranno a girare, diventeranno una consuetudine, si ripeteranno fino a non capire il perché le ricondividiamo.
Che cos’è allora un idolo, cosa rappresenta? Me lo chiedevo quando ancora non sapevo darmi una risposta, definire un significato. Mancava un tassello per terminare il mosaico e quel tassello ha una data precisa, per tutti. Quella in cui lui il tuo punto di riferimento cade: metaforicamente, fisicamente, idealmente. Lì capisci definitivamente quanto è importante, quanto ti ha dato, quanto ti ha insegnato ed accompagnato nel tuo percorso di vita. È lì che il significato si fa chiaro, è lì che capisci quanto stai perdendo. È lì che il legame si stringe ancor di più.
E chi se ne frega se gli altri non capiscono, se non afferrano che nella vita a volte ci si deve aggrappare ad un estraneo per sentirsi parte di qualcosa. È un problema loro. Il mio, di problema, è ben più importante del non capire degli altri: perché l’assenza è quotidiana, costante, silenziosamente stordente. E non bastano certo due giorni all’anno per raccontarla.
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