Come nella stragrande maggioranza degli sport competitivi, il lavoro del singolo soggetto in solitario non basta per arrivare al traguardo finale, cioè la vittoria. Questo vale per il calcio, il basket, il baseball, il football e tanti altri, e gli sport motoristici non fanno eccezione. E quando si parla di tattiche di squadra negli sport motoristici, di solito la prima disciplina che viene in mente è proprio la Formula 1. Di certo per la sua altissima popolarità, ma anche per i particolari avvenimenti che hanno coinvolto alcune coppie di piloti, fino alla rottura del rapporto sereno e all’inizio di forti rivalità. Ma prima di sguazzare nel passato, rimaniamo ancora un po’ nel presente, a osservare ciò che è successo durante il Gran Premio d’Ungheria.
Come detto ironicamente da Ivan Capelli ai microfoni Rai, questa gara è stata la corsa delle “rivalità tra compagni” in una maniera o nell’altra, risolte poi al meglio o al peggio che si poteva. Le tre big del campionato, Ferrari, Mercedes e Red Bull, hanno tutte dovuto far fronte alle competizioni interne tra le loro file, non solo durante il corso del Gran Premio ma anche durante le sessioni del weekend; non si contano poi gli avvenimenti nei round precedenti, quindi osserveremo anche quelli ad ampio raggio.
Procederemo squadra per squadra e con un’analisi delle scelte fatte durante la corsa.
Ferrari | La doppietta Ferrari Vettel-Raikkonen di certo è una risposta importantissima per il campionato ma secondo me lo è ancora di più la gestione del muretto box per quanto concerne il comportamento dei piloti. Il Cavallino Rampante oggi ha azzeccato tutto su questo piano, invitando più volte Vettel a spingere e lasciando Raikkonen come scudiero del suo compagno “ferito” (nel mezzo che guidava, afflitto dai problemi di sterzo). La gara di entrambi, oltre a esser stata fantastica, mette in preoccupazione la Mercedes, perché se è vero che la Ferrari in certi attimi ha danneggiato e persino ignorato il lavoro della seconda guida, oggi l’ha sfruttata nella miglior maniera possibile, dando uno sguardo a entrambe le classifiche mondiali. Se sarà così anche nelle restanti nove gare, per Wolff e Lauda saranno dolori.
Mercedes | La batosta presa dalla Casa di Stoccarda è dura tanto quanto quella Ferrari dopo Silverstone, ma se vogliamo è ancora più dura per il loro tre volte campione del mondo. Hamilton, il maestro del tracciato ungherese, si è trovato in una situazione a dir poco grottesca: lui, comunque leader del team rispetto al compagno Bottas e in una posizione più forte in campionato, ha dovuto, o forse persino voluto, cedere la posizione in campionato al finlandese, facendolo anche in una maniera non proprio priva di rischi (all’ultima curva e con l’avvoltoio Verstappen subito lì). La colpevole di questa situazione ingarbugliata è proprio la Mercedes, che in realtà fino a venti tornate dal termine aveva fatto tutto bene e secondo i piani, lasciando sfuriare l’inglese davanti e tenendo Bottas dietro. Poi si è cominciato a menarla con la scelta di dare cinque giri di tempo a Lewis per superare le Rosse (che poi son diventati dieci e forse pure quindici) prima di riportare tutto alla situazione precedente. Se volete sapere la mia, secondo me avrebbero dovuto lasciare l’inglese davanti al finlandese.
E’ vero, le prestazioni di Bottas fin qui son state eccellenti ed è ancora in corsa per il primo titolo, ma è pur sempre in una posizione di svantaggio nella generale rispetto al più blasonato compagno e nell’ultimo terzo del GP è stato nettamente più lento dei tre che comandavano la corsa. E per carità, io sono un forte sostenitore delle prestazioni di Valtteri di questo 2017, ma se l’obiettivo della Stella a Tre Punte è anche il titolo piloti, queste scelte stupide andrebbero evitate.
C’è però un altro fattore fondamentale, che mi è balzato in testa appena il GP è terminato: e se questa scelta (poi ritirata dal team stesso, ma comunque proveniente da loro) sia un preludio a una preferenza verso Bottas, attuale pupillo di Toto Wolff? I problemi che Lewis ha avuto con la squadra nel 2016 son stati sotto gli occhi di tutti, e per quanto io possa credere che Lewis non lascerà mai il team più forte di sua volontà, potrebbero sempre scaricarlo…
Intanto la Ferrari ringrazia.
Red Bull | Ok, chiaramente non ci son stati ordini di squadra, ma si tratta pur sempre di una situazione che potrebbe farsi rovente nei paddock dei bibitari. Il rapporto tra Max e Daniel non è mai stato difficile e fino a oggi gli screzi tra i due, dentro e fuori dalla pista, sono stati a zero; però c’è una prima volta per tutto, e lo sguardo mogio di Ricciardo dopo la speronata di Verstappen vale più di mille parole. Chris Horner sa di avere due pupilli veramente forti e che i risultati stanno mancando non per loro incompetenza, ma per inefficienza del motore Renault-Tag Heuer. Certo è che demolire una possibile buona gara del compagno di squadra per un attacco al primo giro non è cosa che fa bene all’ambiente Red Bull e nemmeno all’immagine di Verstappen, già pesantemente condizionata (anche ingiustamente). Horner stesso si è raccomandato coi due per tenere a freno la loro rivalità, ma da qui in poi, se la faccenda si dovesse ripetere, servirà ben altro per convincere i due giovani rampanti a non sfociare in una lotta fratricida.
Chiusa la parentesi Ungheria 2017, proviamo a fare un salto indietro nel tempo e a osservare esempi particolari di giochi di squadra, magari anche esterni al mondo della F1. Prima però, facciamoci una domanda apparentemente semplice: che cos’è un gioco di squadra nel motorsport?
Se dovessi dare una definizione, potrebbe essere una scelta presa dal team, e più raramente da uno dei propri piloti autonomamente, a vantaggio del proprio compagno in modo da far ottenere alla squadra il massimo risultato possibile, sia in ottica gara che in ottica campionati.
Una scelta sensata deve quindi avere questo scopo ultimo, a dispetto del fatto che poi essa si riveli utile o meno, fondamentale o persino sbagliata a fine campionato. Per fare un esempio di scelta sensata, basti pensare a Massa che lascia passare durante la sosta Raikkonen a Interlagos nel 2007, permettendogli di battere le McLaren e vincere il campionato per un solo punto sui due favoriti di Woking. Purtroppo però, come detto, la scelta a prima vista sensata può portare a risultati catastrofici: Irvine che fu costretto a rimanere dietro a Schumacher a Magny-Cours nel ’99 nonostante la Ferrari #3 fosse rallentata da problemi di affidabilità fu, a prima vista, una scelta saggia; nessuno però si sarebbe aspettato l’incidente alla Stowe a Silverstone due settimane dopo del “Kaiser” e l’inaspettata rincorsa di Eddie per tutto il resto della stagione.
Non dimentichiamoci, chiaramente, che un pilota è dotato di coscienza e sentimenti e che non sempre accetta di buon grado questi “colpi duri” dai propri capisquadra: Carlos Reutemann si tenne dietro il suo compagno e campione del mondo Alan Jones fino alla bandiera a scacchi in Brasile nell’81, e in tempi recenti la testa calda Verstappen si rifiutò categoricamente di far passare il compagno Sainz Jr. a Singapore, non fidandosi delle scelte del team su chi dovesse star davanti. C’è anche chi accetta, ma di certo non di buon grado (Barrichello in Austria nel 2001) e infine chi addirittura, spinto forse dall’amicizia e dalla consapevolezza verso il proprio partner, cede la propria posizione volontariamente senza ordini di squadra vari. Come dimenticare Ayrton Senna che cede di sua volontà la vittoria a Berger a Suzuka nel ’91, quando aveva già il terzo titolo in tasca? Ma nessuno, a livello di spontaneità e generosità, eguaglierà Peter Collins e il suo gesto a Monza nel 1956, quando cedette persino la sua macchina, la sua Ferrari, alla leggenda Fangio permettendogli di ottenere i punti necessari per battere il grande ma eterno secondo Stirling Moss. Alla faccia di chi dice che i campioni debbano per forza essere egoisti.
Non sempre però gli ordini di scuderia hanno un senso logico, né sul momento né a posteriori. L’esempio più lampante è chiaramente il Gran Premio d’Austria del 2002 e lo scandalo di Todt che, come in una sorta di dejà-vu, comunica a Barrichello lo stesso ordine dell’anno precedente: cedere la posizione a Michael per il campionato. Peccato che se nel 2001 fino proprio a Zeltweg la minaccia della McLaren di Coulthard era ancora concreta in campionato, nel 2002 non vi era nessuna scusante per sacrificare il povero Rubinho vista l’assoluta superiorità della F2002 quell’anno. Tra l’altro la doppietta sarebbe arrivata comunque, quindi la faccenda, a mio modo di vedere, è ancora più grave e anche per questo tutti gli strascichi successivi furono, tutto sommato, meritati. Una macchia che persiste ancora oggi nel ruolino da schiacciasassi che la Ferrari ha avuto in quegli anni. E proprio dall’anno successivo fino al 2011, questi giochi di squadra sarebbero stati vietati… ma non troppo.
Il peso di alcuni piloti all’interno della squadra spesso si rivela il vero bandolo della matassa in queste decisioni, e a volte è il pilota stesso a richiedere l’ordine. E guarda caso, anche stavolta nell’esempio si parla di un avvenimento con protagoniste le Ferrari: anno 2010, Hockenheim, Massa davanti per tutta la gara a comandare dallo splendido start, quando da dietro appare la vettura gemella di Fernando Alonso. Bastano pochi giri, sia effettivi sia di parole, di Nando per far diventare la lotta tra i due un semplice scambio di posizioni. Un semplice “I’m much quicker” bastò allo spagnolo per vincere in scioltezza il GP tedesco.
Ed è questo uno dei motivi per cui io non sopporto l’Alonso “persona”: questi atteggiamenti di costante superiorità (e in alcuni casi nemmeno così netta) rispetto ai suoi compagni di squadra, ma anche rispetto alla squadra stessa o persino rispetto agli avversari, lo dipingono ai miei occhi come un tipo… semplicemente antipatico. Poi i sorrisi non mancano quando fa le sue battutine costanti sul motore (GP2) della Honda, però non può nemmeno lamentarsi se le grosse squadre non gli offrono un sedile degno per il futuro. E la sua frase di circostanza, “I’m much quicker” la usò anche in Renault con Fisichella in più occasioni, come a Montreal nel 2005. Nessuno può scappare dal suo giudizio, nessuno.
Quando invece una squadra vuole lasciare la situazione più neutra possibile, nella maggior parte delle occasioni scattano i problemi: la mitica rivalità Senna-Prost fu più volte minata da accordi pre-via non rispettati (Imola ’89, quando Senna infilò Prost ignorando l’impegno reciproco a non attaccarsi durante il primo giro), sorpassi al limite e infine vere e proprie scorrettezze, poi prolungatesi anche nel ’90 quando Prost andò in Ferrari; anche il duello di casa Williams negli anni ’80, Piquet vs. Mansell, ebbe carta bianca in pista tra i due piloti, e ciò portò al disastro dell’86 col titolo perso per entrambi, a vantaggio del solito “Professore”, oltre a tantissime battaglie tra il carioca e il “Leone d’Inghilterra”. In assenza di estrema superiorità, quindi, lasciare carta bianca ai propri alfieri non è mai un bene. Non per la squadra almeno, anche se per i tifosi ciò può portare solo vantaggi e adrenalina.
Nella MotoGP, e nel motociclismo, è molto più probabile vedere lo scontro fratricida tra i piloti che condividono la stessa casacca piuttosto che osservare “gesti di signorilità”. Pedrosa di certo si ricorderà il suo strike su Hayden all’Estoril, anche a costo di tenere viva una minima speranza per il mondiale.
Questa listona di situazioni si può riassumere in breve così: il mondo degli aiuti di squadra non è così semplice e sminuibile come potrebbe sembrare, perché a fronte di categorie, piloti, squadre e mezzi, la situazione può essere in continuo cambiamento ed è quasi impossibile prevedere a cosa ciò porterà. Il fatto che le tattiche di squadra esistano non è, a mio parere, né la morte né il male del motorsport, ma anzi può essere una parte chiave di esso, che può portare gioia e vittorie ma anche grosse delusioni e sconfitte.
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