Semplicità, un’arma tanto potente quanto sottovalutata

BlogParola di Corsaro
Tempo di lettura: 10 minuti
di Alyoska Costantino @AlyxF1
27 Gennaio 2020 - 19:43

Continuando la mia ricerca alla scoperta di nuove categorie per riempire dei weekend altrimenti noiosi, ho deciso di cominciare a visionare anche un po’ di due ruote tassellate. Tra la fine delle festività e il mese di marzo, nel quale ci saranno gli avvii dei campionati più degni di nota, passa difatti un lungo periodo di due mesi dove si rimane un po’ a bocca asciutta; un’attesa verso la fine dell’inverno riempita però da eventi di una certa importanza storica, come la Dakar, il Rally di Montecarlo per il WRC e anche quello di Svezia, in programma tra il 13 e il 16 febbraio. Per chi poi è interessato all’Endurance, un appuntamento immancabile è quello della 24 Ore di Daytona, disputatasi proprio nel weekend appena conclusosi, e aggiungiamoci anche la Formula E che ha corso l’E-Prix di Santiago del Cile.

Le quattro ruote, quindi, rimangono tutto sommato ben coperte in termini di eventi, ma le due ruote? Non ho nascosto come, negli ultimi anni, il mio focus si sia spostato dalle auto alle moto, sia per l’impegno che ho deciso di prendere con Passione a 300 all’ora, sia per un disinnamoramento per la Formula 1, i cui tanti cambiamenti dell’ultimo decennio mi hanno allontanato (forse definitivamente, forse no) dal rimanere incollato allo schermo ogni volta che vi era la possibilità di vederla.

Dall’altra parte, qualcosa che riesco a perdermi in merito alle due ruote c’è, o forse è il caso di dire c’era. Non saprei spiegare cosa mi abbia sempre trattenuto dal guardare il Motocross: di quando ero piccolo ricordo qualche sprazzo di gare della MX1 e della MX2 trasmesse da Sportitalia, e a mente non posso di certo dire che mi annoiava. Forse però l’assenza di quelli che ai tempi consideravo miei idoli, Valentino Rossi per le due ruote o Michael Schumacher e la Ferrari per le quattro, non mi spinse a proseguire nella visione in maniera perpetua. Qualche sprazzo d’informazione arrivava alle mie orecchie durante il periodo della dominanza di Cairoli, in MX2 prima e MX1/MXGP poi, ma non si può parlare di vero e proprio interesse. Più mera curiosità e un filo di patriottismo nel sentire di un altro italiano trionfante nel mondo del motorsport.

Poi arriva il 2015. Per il mio rapporto con il Motocross, è un anno cruciale, inizialmente nel bene ma ben presto nel male: Mediaset, in sostituzione del Motomondiale passato nelle mani di Sky, manda per il secondo anno di fila il campionato MXGP in diretta sulle proprie reti, e la pubblicità che viene fatta alla serie è massiccia, con la presentazione di uno “scontro tra due mondi”. Tony Cairoli, campione della MXGP e dominatore della massima categoria mondiale degli ultimi sei anni, contro Ryan Villopoto, quattro volte campione del Supercross americano nella categoria 450SX. E’ l’occasione giusta, se non perfetta personalmente, per provare a dare una chance al Motocross e al mondo del fango, delle buche e delle ruote tassellate.

All’inizio sembra quasi di percepire una scintilla: l’inizio del campionato MXGP 2015 è incerto, appassionante, come nessuno se lo sarebbe potuto immaginare alla vigilia. Il primo round nella notte del Qatar è nettamente del tedesco Maximilian Nagl sulla Husqvarna, ma lo scontro tanto atteso tra i due campioni in carica è rimandato alla settimana successiva in Thailandia, dove Villopoto e Cairoli si aggiudicano una manche a testa, con la vittoria che va all’americano per il miglior risultato ottenuto in gara-2. Ma il loro dualismo dura pochissimo, nemmeno il tempo di esplodere realmente: alla quarta gara, in Trentino, Villopoto si rende protagonista di una caduta tanto buffa quanto dolorosa. Una manata di gas troppo violenta sulla sua Kawasaki (che all’inizio mi aveva fatto insospettire su un possibile guasto) lo fa andare con schiena e fondoschiena a terra, procurandogli un infortunio che non solo lo metterà fuori gioco per i successivi round, non solo terminerà anticipatamente la sua prima (e unica) stagione di MXGP, ma porrà addirittura la parola fine alla sua carriera agonistica.

Il fattore di maggior interesse della stagione è andato perso, ma non mi do per rassegnato: gli spunti comunque non mancano, i protagonisti in grado d’impensierire Cairoli sono tanti, tra Desalle, Nagl e il debuttante Febvre, e anche la competizione tra le varie case (Suzuki, KTM e Yamaha sono solo alcune) continua a suscitarmi interesse. Ma come una serie di schiaffi in faccia, ecco arrivare una concatenazione di eventi che semplicemente disintegra il mio interesse a vedere il resto della stagione: Cairoli subisce due infortuni, uno a Valkenswaard e uno in Francia a Villars-sous-Écot, che lo relegherà al settimo posto nella graduatoria dopo sei anni di dominio; Desalle, sempre in Francia, paga anche lui un infortunio alla spalla in gara-1 e la sua stagione finisce lì; termina questo tris di disgrazie Nagl, che pare avere strada spianata verso la conquista del titolo e che invece si fa male proprio davanti al pubblico di casa a Teutschenthal, infortunandosi alla caviglia. I cocci di uno dei mondiali più sfortunati e con più defezioni di sempre vengono raccolti da Romain Febvre, ma nonostante ai tempi sia stato contento del lavoro fatto dal pilota Yamaha debuttante, a posteriori posso dire che quel mondiale pare quasi un rigore a porta vuota, con tutti gli avversari principali fuori da metà stagione circa in poi. Un mondiale su cui è anche difficile ipotizzare o fantasticare degli esiti, ma che di certo rimarrà una grossa occasione sprecata per vedere un campionato combattutissimo.

La delusione è troppo cocente e ciò, unito al fatto che Mediaset rinuncia alle dirette dopo appena due anni di contratto per una più parsimoniosa trasmissione in differita (una piaga di cui si spera in una fine al più presto), mi allontana dal mondo della MXGP e affini. Lo spettatore che è in me ed il Motocross si separano, ma non definitivamente. Torniamo più o meno ai giorni nostri, nel quale ricomincio a percepire voglia di qualcosa di nuovo: l’abbandono per la Formula 1 l’ho sentito forte e chiaro e si tratta di un vuoto da colmare. Uno dei possibili candidati è il Supercross, di cui Andrea Ettori e Federico Benedusi, nei vari podcast “Stop&Go” su Radio 5.9, mi parlano tanto bene. In qualche modo, è anche grazie a loro che oggi mi ritrovo a parlare di Motocross.

Mi documento un po’, cerco di capire le differenze tra MXGP e AMA Supercross, tra outdoor e indoor, studio la divisione del calendario e comincio a guardicchiare qualcosina tra highlights su Youtube e siti ufficiali. Cerco anche di osservare i vari piloti con più attenzione: essendo cresciuto non ho più la necessità di trovare un pilota punto di riferimento come da piccolo, sia per la poca conoscenza della serie, sia nella speranza che egli salti fuori da sé. Comincio poi a guardare le gare attivamente, scoprendo finalmente, senza intoppi e senza rammarichi, la bellezza delle gare del Supercross: i Main Event, preceduti dalle Batterie di Qualificazione, sono della durata di venti minuti scarsi, ma sono più che sufficienti per far entrare lo spettatore nel vivo dell’azione, nello spettacolo della categoria. Anche la durezza delle battaglie è da brividi: niente sconti per nessuno, niente investigazioni per manovre che nel motorsport si dovrebbero vedere e che sono una parte fondamentale. Il tutto viene condito con qualche fissa in puro stile U.S.A., in modo da attirare più pubblico possibile.

Il punto però di maggior forza che il Supercross ha, almeno da quanto ho visto, è la semplicità: nessun tipo di regola che si dimostra più una forzatura, nessun obbligo “artificiale” dato ai piloti, ma solo puro spettacolo e adrenalina. Vince il più forte, il più bravo, quello che fa meno errori, stop. Il tutto rafforzato da una cornice di protagonisti di assoluto livello: dai fenomeni riconosciuti come Eli Tomac, Ken Roczen e Marvin Musquin, passando per piloti capaci di sorprendere come Jason Anderson o Justin Barcia, fino ad arrivare a debuttanti da tenere d’occhio come per esempio Adam Cianciarulo, già vincitore della Monster Energy Cup dello scorso anno. E poi c’è Cooper Webb, che è già entrato nelle mie grazie diventando campione in un 2019 straordinario, nel quale ha sovvertito un pronostico che lo dava come seconda guida KTM dietro Musquin e che invece l’ha visto addirittura campione a fine anno. Il numero 2 che diventa un numero 1 indiscusso.

L’attenzione non è però riservata solo alla 450SX, la categoria maggiore. C’è anche la 250SX Costa Ovest, che in questo inizio 2020 ha probabilmente regalato le manche più combattute (prima fra tutte quella di Anaheim 2). Justin Cooper, Dylan Ferrandis, Austin Forkner e Jett Lawrence sono solo alcuni dei nomi che hanno fatto tanto parlare di sé all’alba della nuova stagione agonistica, nomi che magari un giorno vedremo battagliare anche tra i “grandi”.

Non bisogna però pensare che tutto sia perfetto nel Supercross, anzi: un po’ come la Indycar e i suoi doppi punti all’ultima gara, qualcosa stona nel Supercross e prende il nome di Triple Crown, una formula a tre Main Event più brevi per un singolo evento, che vengono sommati insieme per creare la classifica dell’evento stesso. Chi ottiene i risultati migliori nel complesso vince l’evento, cosa che va a svantaggiare chi magari è stato più veloce durante il weekend e vincitore di più gare (ma a cui verrà conteggiata sempre e solo una vittoria totalitaria) e va invece ad aiutare chi ha commesso degli errori in una di queste manche, col rischio addirittura di stravolgere il possibile risultato (cosa che tra l’altro ha rischiato di succedere anche nell’ultima Triple Crown disputata proprio sabato scorso, con Roczen vincitore di due manche ma che ha seriamente rischiato di perdere la vittoria finale per un contatto alla prima curva dopo esser rimasto intruppato al via, prima di essere salvato da una provvidenziale bandiera rossa). Come ho detto prima, la semplicità è uno dei punti forti e per me essenziali del Supercross e anche del Motocross, quindi perché sacrificarla con un format che rischia di premiare non il più meritevole ma bensì qualcun altro, oltre a essere inutilmente complesso? Qualcuno potrebbe giustificarmelo come un’“americanata” per aumentare il fattore imprevedibilità che piace tanto al pubblico americano, ma ha davvero senso considerando che il Supercross è altamente spettacolare e imprevedibile già di suo? Personalmente, no. E con questo non pretendo nemmeno la cancellazione completa del format Triple Crown, ma che magari venga rivisto.

La Triple Crown rappresenta però l’unica imperfezione rilevante di una categoria che mi ha decisamente preso in questo periodo, con un campionato intenso e combattuto con tanti temi già dopo le prime quattro gare del 2020. Da tempo non attendevo con impazienza simile un weekend di gare di una categoria appena dopo la conclusione di quello precedente, e se consideriamo che il calendario del Supercross è molto lungo ma molto ristretto nei tempi (ben diciassette gare in meno di quattro mesi, più la Monster Energy Cup di ottobre), ciò è un ulteriore segnale dell’impatto che ha avuto su di me. Il tutto proponendo semplicemente ciò che vuole realmente un appassionato di motorsport: semplicità, espressa tramite battaglie e gare combattute, nulla di più. Un concetto che si è perso e che tanti, anche figure a capo di categorie ben più risonanti, fanno fatica a ritrovare.

Non esiterò a (ri)dare una chance anche a MXGP e MX2, e ho come la sensazione che, un giorno, il Motocross per me non si limiterà a mero antipasto in attesa dei campionati di maggior spessore.

Fonte immagine: supercrosslive.com

Leggi anche

Tutte le ultime News di P300.it

È vietata la riproduzione, anche se parziale, dei contenuti pubblicati su P300.it senza autorizzazione scritta da richiedere a info@p300.it.

LE ULTIME DI CATEGORIA
Lascia un commento

Devi essere collegato per pubblicare un commento.

COLLABORIAMO CON

P300.it SOSTIENE

MENU UTENTE

REGISTRATI

CONDIVIDI L'ARTICOLO