“Schumacher” è un viaggio, nei ricordi e nel dolore

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Tempo di lettura: 6 minuti
di Alessandro Secchi @alexsecchi83
16 Settembre 2021 - 01:30
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Aspettavo questo giorno da quando “Schumacher” è stato annunciato su Netflix e mi ero preparato. Quanto meno credevo di averlo fatto.

Non aspettatevi una recensione, perché non credo lo sarà. Non mi addentrerò nei tecnicismi, nel montaggio, in quello che dovrebbe essere un resoconto asettico di un prodotto televisivo. Pensavo di essere pronto a rivivere momenti che non sapevo come sarebbero stati trattati e credevo di poter gestire il tutto con gli anni che, ormai, sono passati da un libro chiuso, quello del tifo, della passione travolgente e delle domeniche da gara. Niente di tutto questo. Sono passate ore dalla fine della visione e mi sento svuotato, rivoltato come un calzino, preso e sbattuto qua e là da un vortice. Uno straccio.

“Schumacher” è un viaggio di un’ora e 52 minuti nei ricordi e nel dolore. È un libro che si riapre davanti agli occhi e del quale vedi le pagine scorrere una dopo l’altra, come se 20 anni suoi e tuoi volassero con una rapidità che non riesci a controllare. Tante immagini sono quelle che abbiamo visto in diretta, riassaporato nel tempo e che conosciamo alla perfezione. A queste si uniscono alcuni particolari inediti e, soprattutto, quella parte di vita privata che la famiglia ha deciso di mostrare per raccontare chi era il Michael marito e papà. Ed è questa la nota di dolore che, unita ai ricordi da gara, crea un vortice interiore incontrollabile.

L’incontro tra il ricordo delle vittorie e la tristezza del presente mi ha tenuto tutto il tempo nello sforzo di mantenere un contegno che, alla fine, non c’è mai stato sin dall’inizio. Non vi dirò che è un documentario perfetto: riassumere in due ore una carriera simile è impossibile e, inevitabilmente, ci sono alcuni salti, alcune mancanze, momenti importanti che sono stati appena accennati o ignorati per dare spazio a quel privato che, per tantissimo tempo, è stato negato ai suoi tifosi. La prima immagine di papà Rolf è un colpo al cuore per la somiglianza netta, inconfondibile. Gina Maria, invece, è la reincarnazione di papà al femminile.

Ogni intervento della famiglia è un groppo in gola. Quello che non avevo previsto, benché mi fossi preparato mentalmente, è stata la mia reazione emotiva sin dai primi secondi, che mostrano subito la sfera meno conosciuta di Michael. Da padre quale sono anch’io vedere Gina e Mick felici nei loro primi anni e vederli ora parlare del loro papà, facendo ben intendere implicitamente la situazione attuale, è straziante: fa cadere qualsiasi difesa o tentativo di nascondere la commozione.

Il discorso di Mick è devastante e onestamente non so come e dove trovi il coraggio per correre con un peso simile sulle spalle. Corinna in lacrime è un coltello affilato che gira, gira e gira ancora nella carne, mostrando tutte le difficoltà di una famiglia che vive quotidianamente, da ormai otto anni, un dramma incomprensibile per chi non ha vissuto un’esperienza simile, incomprensibile nelle modalità, nella sfiga, nel cinismo di un destino di un uomo da 300 all’ora. Da questo punto di vista, mi auguro che questo documentario ponga fine definitivamente all’ossessiva ricerca del sapere, al volere informazioni, alle speculazioni e alle illazioni. Chi ha sufficiente intelligenza per capire, per leggere i volti e quello che le espressioni trasmettono, avrà inteso qual è la situazione. Non c’è nient’altro da pretendere da questa famiglia oltre alle lacrime pubbliche.

schumacher

Ascoltando Corinna parlare di lui mi sono reso conto ancor di più di quanto mi abbia influenzato. Quanto, su diversi aspetti, abbia lo stesso approccio. Dai dubbi di non essere mai all’altezza – fino a calpestarmi l’autostima – alla ricerca dei minimi dettagli per migliorare, dalla protezione della privacy alla diffidenza iniziale nei confronti delle persone, fino al non mollare mai e non darmi mai per vinto, anche quando le cose sembrano girare sempre male.

“Michael aveva un poster di Ayrton in stanza”, dice Briatore. E l’intervista post Imola ’94 (già conosciuta, ma giusto proporla ufficialmente) lo fa capire chiaramente. Le espressioni, lo sgomento, il non voler credere a quanto successo sono reazioni di chi ha perso non un avversario ma un punto di riferimento. Per certi versi la mimica, l’espressività, la negazione sono le stesse che si percepiscono quando Mick parla di suo papà.

E poi c’è la grande rincorsa. Non la cavalcata di cui tutti parlano, dal 2001 in poi. Jean Todt scandisce gli anni come se fossero maledetti: “1996, 1997, 1998, 1999…”. Eccoli gli anni della fede vera, degli errori, dei dubbi anche su di lui e dello Schumacher che non molla ma lavora, lavora e lavora ancora, trascinando con sé una squadra verso un qualcosa in cui tanti prima avevano fallito. “Dalle 8 del mattino alle 8 di sera”, dice Irvine, con un senso di ammirazione difficilmente riscontrabile in un compagno di squadra.

In mezzo una spallata difficile da ammettere a Villeneuve, un Coulthard che si fa centrare in piena traiettoria, una gamba rotta e i media spietati; non come adesso, alla ricerca della difesa a tutti i costi. Rivedere l’8 ottobre 2000 è stato l’apice della commozione per chi come me c’era, ha vissuto la fatica lunga cinque anni per giungere a quel momento. Resterà sempre l’emozione sportiva più bella della mia vita.

Rivivere quegli anni, vedendo “Schumacher”, è stato un viaggio nel viaggio: un ricordare gare, emozioni, avversari che, con gli occhi di adesso, a loro volta raccontano di quel periodo. Un ormai bianchissimo Damon Hill, che racconta con lucidità gli anni delle lotte più dure e al quale Michael forse manca più di quanto pensiamo. Così come un Mika Hakkinen da adorare ancora oggi per il suo essere gentleman. E poi David Coulthard, uno che ai tempi mi ha fatto arrabbiare come pochi ma con l’onestà di ammettere cose che altri si sognerebbero. Non fosse per i segni del tempo sui protagonisti, rivedere tutto questo sarebbe come tornare adolescente, reimmergermi in un periodo che mi piacerebbe poter rivivere ora per gustarlo ancora una volta e forse di più. Un’emozione particolare, legata ad un ragazzo tifato con forza nel periodo più complesso e non solo quando ormai dominava.

Il documentario termina ricongiungendosi con l’inizio, con un giro a Monaco dalle telecamere onboard della Ferrari. E, alla fine di questo “Schumacher”, quando il libro si è richiuso, il colpo di coda dell’emozione mi ha dato il colpo di grazia. Perché, nonostante tutto, questo viaggio di due ore è volato via come niente; e avrei voluto che non finisse, che quel giro lì andasse avanti all’infinito portandomi con sé. Per continuare ad estraniarmi come succedeva ai tempi. Io, la TV, lui. Per ripercorrere i ricordi e rivivere il Michael che tutti abbiamo conosciuto, che mai potremo dimenticare. Che manca. Mi manca. Tanto.

Immagini: ANSA, Youtube/Netflix

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