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SBK / MotoE | Intervista esclusiva a Chaz Davies, riders’ coach di Ducati Aruba Racing: “Metà del lavoro è fornire informazioni corrette al momento giusto, è qualcosa che adoro fare”

di Alyoska Costantino
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Pubblicato il 6 Novembre 2024 - 16:00
Tempo di lettura: 19 minuti
SBK / MotoE | Intervista esclusiva a Chaz Davies, riders’ coach di Ducati Aruba Racing: “Metà del lavoro è fornire informazioni corrette al momento giusto, è qualcosa che adoro fare”
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Il pilota gallese, in passato top rider in SBK e impegnato anche nella MotoE del 2024, ha concesso un’intervista a P300.it.


Durante lo scorso decennio la scuola britannica, in SBK, ha messo in campo un numero di talenti considerevole: Leon Camier, Leon Haslam, Cal Crutchlow, Eugene Laverty e i fratelli Lowes, Alex e Sam. Alcuni di questi nomi sono riusciti anche a centrare l’obiettivo massimo del campionato del mondo, come Tom Sykes e Jonathan Rea.

Tuttavia, un altro grosso nome in quegli anni si è ritagliato uno spazietto nel cuore degli appassionati delle derivate di serie. Si tratta di Chaz Davies, pilota gallese che, nel corso della sua carriera, ha gareggiato per diverse squadre e marchi, debuttando nella massima categoria delle derivate in Aprilia, proseguendo in BMW e giungendo infine in Ducati, dove ha ottenuto i propri traguardi più importanti.

Con la Casa di Borgo Panigale ed il team Aruba.it Racing di Stefano Cecconi, Davies ha ottenuto 28 delle sue 32 vittorie in SBK, diventando per tre volte vicecampione del mondo e rappresentando, nel periodo tra il 2015 ed il 2018, il più grande avversario del fenomeno Rea, nel pieno del suo periodo di assoluta dominanza con Kawasaki.

Le doti che hanno reso il pilota di Knighton così amato sono sicuramente la generosità e l’attitudine a non mollare mai, nonché l’esser stato uno dei migliori staccatori nella storia della Superbike. Ai giorni nostri, invece, Chaz ricopre il ruolo di riders’ coach per la squadra Aruba.it, dando supporto sul campo e sul piano tecnico agli attuali titolari del team (Nicolò Bulega ed Álvaro Bautista).

Davies ci ha gentilmente concesso un’intervista, durante la quale ha risposto ad alcune nostre domande. Buona lettura.


Ciao Chaz, grazie per aver accettato di compiere quest’intervista con P300.it. Le prime domande sono: come ti sei appassionato al mondo delle due ruote? E qual è il primo ricordo che hai inerente le moto?

“E’ stato grazie a mio padre, era super appassionato di motociclette e di corse. Correva a sua volta, ma non ha mai avuto una carriera agonistica; però era molto appassionato di gare e voleva trasmettere la cosa a me e a mia sorella. La sua spinta è stata fondamentale. Si è preso anche un grosso rischio nel costruire un circuito di go-kart in Gran Bretagna, che iniziò come un tracciato per buggy in realtà. Erano ammessi solo buggy fuoristrada e solo dopo un certo numero di anni è riuscito a mettere da parte i soldi sufficienti per porre un primo strato d’asfalto”.

“E così abbiamo avuto un circuito con cui allenarci con le minimoto. Il campionato minimoto è venuto a correre a casa nostra e poi, si sa, il resto è venuto da sé. E’ stata sicuramente la passione di mio padre a far cominciare tutto quanto. Il mio primo ricordo risale probabilmente a quando stavo nel giardino della mia vecchia casa, precedentemente alla costruzione del nostro circuito di go-kart: mio ​​padre mi spingeva a zonzo per il cortile, tutto qui”.

Qual è la tua pista preferita?

“Il mio tracciato preferito è probabilmente Laguna Seca in California, per una serie di ragioni: non solo per il circuito in sé ma per l’atmosfera, le sensazioni alla Laguna sono sempre fantastiche, e la pista mi si addice. Naturalmente ho ottenuto tanti successi lì e penso che ogni pilota preferisca i circuiti dove va più veloce; per me era relativamente facile andarci veloce. Non è mai realmente una passeggiata, ma è stato più facile essere davvero veloce alla Laguna in appena pochi giri, perciò per me le caratteristiche di questa pista sono tutto. Il modo in cui il layout è stato realizzato è realmente unico, non si potrebbe mai più ricreare qualcosa del genere di questi tempi. E’ posizionato sul fianco della collina, ha delle curve incredibili e molto, molto difficili da raccordare insieme. Sono piuttosto tecniche e bisogna essere parecchio coraggiosi in quei punti, e quando tutti questi elementi si uniscono ciò rende una pista davvero fantastica per me”.

“Inoltre, a parte l’aspetto della guida in sé i fan americani sono sempre fantastici come ho detto, sprigionano molta passione e la California è un posto fantastico in cui andare. Lì mi sono sempre divertito un bel po’, ho sempre avuto la giusta carica dai tifosi per il solo fatto di essere lì e questo mi dava una motivazione in più quando ci gareggiavo”.

I ricordi più belli che i tuoi fan hanno di te risalgono al periodo nel paddock Superbike. Nel campionato Supersport hai vinto il titolo del mondo con la Yamaha R6, moto che sta per essere accantonata a favore della R9. Che ricordo hai della stagione 2011 corsa in sella a questo modello?

“Penso che quella moto abbia resistito alla prova del tempo. È rimasta relativamente invariata per molti anni, ma è sempre stata una sorta di riferimento nella categoria Supersport. Era una moto fantastica. Quella stagione penso sia stata per me la prima volta, nella mia carriera, in cui ho sentito di avere tutto a mia disposizione per vincere un campionato del mondo. Quindi mi sono detto ‘Okay, adesso o mai più. Sei abbastanza bravo? Dimostra a te stesso di esserlo’. E per me quella è stata la prima volta in cui ho compreso che la moto era competitiva, perché essenzialmente era il modello di Cal Crutchlow del 2009; nel 2010 nessuno l’aveva usato. In pratica era rimasta sotto un telo in qualche officina in Germania”.

“Poi il team Parkin​​Go l’ha presa per il 2011, l’ha spolverata e ha cambiato le sospensioni scegliendo un altro marchio, probabilmente una delle sfide più importanti all’inizio della stagione. Ma una volta che ci siamo abituati e abbiamo capito cosa dovevamo fare per renderla su misura per me, è stata la prima volta che ho iniziato a pensare di poter fare qualcosa di davvero significativo in questo sport. E’ stata una stagione molto importante per me”.

Nel 2012 sei poi passato in SBK con Aprilia e nel 2013 sei diventato pilota ufficiale BMW, seppur per una sola stagione. Cosa pensi dei passi avanti compiuti dalla Casa tedesca da allora, specie adesso che sono diventati campioni del mondo?

“Sono salito in Superbike con l’Aprilia e sempre col team ParkinGo, poi nel 2013 sono diventato pilota BMW. In realtà era lo stesso gruppo di persone con cui lavoro oggi: si trattava di Feel Racing, che aveva preso in mano il progetto BMW quando passò dalla divisione tedesca nella mani di quella italiana da quell’anno, con Feel Racing nel mezzo ad organizzare il tutto. In quel momento è stato interessante lavorare per loro, ma penso che il tutto fosse un po’ disunito allora, perché fondamentalmente le decisioni che arrivavano provenivano dall’alto ed in quel momento la direzione tedesca del reparto Motorrad non era così entusiasta delle gare in Superbike, perché le disputavano da alcuni anni e non erano riusciti a conquistare un titolo, inoltre la persona alle redini del progetto in quel momento non era proprio appassionatissimo di corse. E’ stato un periodo un po’ strano, eravamo mezzi dentro e mezzi fuori, ma abbiamo comunque ottenuto qualche buon risultato. Penso di aver vinto tre gare, tra cui l’ultima vittoria sull’asciutto e in una manche completa fino ai successi di Toprak [Razgatlıoğlu, n.d.r.] quest’anno”.

“Abbiamo fatto buone cose in sostanza, poi ovviamente BMW è stata in quella posizione per molti anni, in cui erano sì sufficientemente competitivi ma senza mai realmente raggiungere i massimi livelli. Ma quest’anno si sono davvero giocati il tutto per tutto e hanno fatto un passo avanti in modo abbastanza impressionante, al punto che hanno completato le trattative con Toprak e hanno creduto abbastanza nel loro progetto da dire ‘Okay, prendiamo Toprak, che sappiamo tutti essere uno dei migliori piloti al mondo’, e ce l’hanno fatta; praticamente hanno investito i loro soldi su di lui e ne hanno investiti parecchi. Penso che, almeno dall’esterno, abbiano compiuto uno sforzo per vincere a tutti i costi e ci sono riusciti. Alla fine hanno raggiunto l’obiettivo”.

Negli anni successivi sei diventato pilota ufficiale Ducati e sei stato il principale avversario di Jonathan Rea in quel periodo. Qual è il tuo rapporto con “Jonny” di questi tempi e qual è stata, secondo te, la vostra sfida più bella?

“La rivalità con ‘Jonny’ è stata sicuramente piuttosto intensa per molti anni, sin dal 2000 e anche dal 2015 fino alla fine del 2020. Fondamentalmente in quel periodo, soprattutto quando avevamo sedici, diciassette o diciotto anni, eravamo io e lui a vincere le gare e di sicuro eravamo i principali contendenti. Quindi è abbastanza normale che, in situazioni simili, la relazione non sia mai fantastica. Di questi tempi, sicuramente, va un po’ meglio. Quando gareggi contro qualcuno settimana dopo settimana e con un ardente desiderio di batterlo, quando si tratta di salire in sella sulla moto ci si sente piuttosto elettrizzati nel compiere molte cose. Ora sono in un ruolo diverso da allora, ma se fossi ancora in pista contro di lui vorrei ancora batterlo. Tra noi il rapporto è buono, non siamo migliori amici ma di sicuro è cordiale. Possiamo fare benissimo una chiacchierata e sono sicuro che un giorno trasformeremo la cosa in qualcosa di più serio, davanti ad una birra a discutere di un paio di belle battaglie”.

“Per me quella che risalta maggiormente è Sepang 2015, prima che la nostra rivalità raggiungesse davvero il suo picco; la cito specialmente per il contatto che abbiamo avuto all’ultima curva. Io preferisco quella gara perché l’ho vinta ovviamente, giocammo un po’ i ruoli del gatto e del topo e sapevo che mi sarebbe arrivato addosso, inoltre nelle prove libere e nelle qualifiche avevamo un ritmo pessimo: non eravamo vicini a ‘Jonny’. In effetti sembravamo molto staccati, ma abbiamo compiuto un enorme cambiamento sulla moto per la domenica. Le cose sono andate molto meglio e sono stato in grado di fare un passo avanti: non riuscivo a credere che stavo davvero lottando per la vittoria”.

Nel corso degli anni la SBK è mutata moltissimo e anche quest’anno ci sono stati cambiamenti che hanno fatto discutere. Tu che hai vissuto l’ultimo periodo d’oro del mondiale (tra il 2007 ed il 2012), che modifiche apporteresti al campionato?

“All’inizio si ha la sensazione che tutti siano sempre un po’ prevenuti: a nessuno piace il cambiamento, ma, in generale, le regole negli ultimi anni sono state abbastanza buone. Le gare sono state interessanti, soprattutto nel 2022 e nel 2023: penso a quando Álvaro [Bautista, n.d.r.], Toprak e Jonathan hanno regalato, in quasi tutti i fine settimana, manche molto, molto buone. Si rimaneva incollati allo schermo: sorpassi ad ogni curva da parte di tre piloti del loro calibro, è difficile fare di meglio e non sono situazioni che accadono molto spesso. Quindi, per me, quelle sono state due annate d’oro di sfide tra loro tre e, sfortunatamente, quest’anno questa dinamica è venuta meno. In termini di bilanciamento ‘Jonny’ ha un pacchetto con il quale non si sente a suo agio, Toprak ne ha uno più competitivo quindi è migliorato, mentre Álvaro è stato penalizzato un po’ per il fattore peso e basta poco, per qualcuno che guida ai livelli più alti in assoluto, per cambiare le carte in tavola e gli equilibri. Ma, fondamentalmente, è stato il salto in avanti di Toprak e anche di Nicolò [Bulega, n.d.r.], che è riuscito a tenergli testa, a cambiare davvero l’equilibrio della Superbike quest’anno”.

“Non faccio le regole e queste sono decisioni molto difficili, perché loro [la FIM, n.d.r.] devono, in primis, mantenere alto l’interesse del campionato; quindi, a volte, bisogna attuare dei cambiamenti. Dal punto di vista sportivo questa è la chiave di tutto, perché è quello che i tifosi vogliono vedere, ma c’è in ballo anche il delicato equilibrio di dover soddisfare tutti i marchi e, attraverso il sistema delle Superconcessioni, molti di questi ricevono un aiuto, il che è corretto perché hanno una filosofia della moto di serie diversa da quella di Ducati o di BMW. Ma il sistema delle Superconcessioni è forse un po’ troppo aperto in questo momento. Penso che un’analisi più attenta sarà necessaria, dopo un altro anno o due di Superconcessioni. Dorna e FIM dovranno stare abbastanza attenti da quel punto di vista, anche per quanto riguarda il peso di piloti come Álvaro. Questa è una cosa con cui non vado proprio d’accordo: sì, ha una moto veloce, ma fa anche fatica nei cambi di direzione, quindi io non ritengo corretto far guidare ad un pilota più piccolo un mezzo più pesante. Siamo nel 2024 e penso che questa sia una soluzione molto vecchia scuola per bilanciare le prestazioni, ma in realtà apre più problematiche in altre aree. Penso che ci si sia spinti troppo oltre con l’aumento del peso sulle moto nel 2024 e, infatti, Dorna sta lavorando per implementare i flussometri del carburante per il prossimo anno, in modo da avere parametri più precisi dato che il peso sulla moto non è sicuramente un metro di paragone affidabile; semplicemente non è corretto, non può funzionare”.

“Ciò penalizza in maniera diretta, ma alla fine apre molti altri problemi in termini anche di sicurezza. Svantaggiare il pilota più piccolo facendogli guidare una moto più pesante semplicemente non è corretto. È come contrapporre un peso leggero contro un peso massimo nel pugilato: il primo avrebbe i suoi vantaggi perché potrebbe muoversi velocemente sul ring, ma quando proverebbe a sferrare un pugno non provocherebbe alcun tipo di danno. Ma è solo la mia opinione”.

Da qualche anno sei diventato riders’ coach. Nello specifico, qual è la mansione della tua figura?

“Una volta che ho smesso di correre non sapevo davvero cosa fare, non avevo piani e Aruba.it Racing mi ha contattato chiedendomi di fare questo lavoro. Sanno che in fondo sono un po’ uno stramboide ed un nerd, quindi probabilmente pensavano che, conoscendo tutti nella squadra nonché la moto, la mentalità del pilota e avendo lavorato con questi ingegneri per molti anni, ovviamente sarebbe stato un vantaggio per tutti. Non sapevo davvero che fosse qualcosa che mi sarebbe piaciuto fare finché non ho iniziato a svolgerlo come lavoro e, da allora, l’ho trovato davvero interessante. E’ fantastico, sono molto fortunato a lavorare con le persone che conosco e con grandi piloti quali Álvaro, Nicolò, Adrián Huertas o Rinaldi. E’ stato fantastico anche ottenere quattro titoli mondiali negli ultimi due anni (due con Álvaro, uno con Nicolò, uno con Adrián) e tanti, tantissimi successi. Ovviamente il ruolo di riders’ coach è una figura abbastanza nuova nel nostro sport e penso che sia davvero utile avere qualcuno dotato di una conoscenza approfondita della guida, degli stili di guida e di tutto quanto il resto”.

“Sono cose piuttosto fondamentali in questo lavoro e aiuta anche conoscere la moto. Questo non è essenziale ma utile, quindi ogni piccola cosa può dare una mano. La base del ruolo lavorativo è l’essere un po’ il collante tra molti elementi: il pilota e la sua moto, sempre il pilota e la squadra, i tecnici e la motocicletta; in sostanza sono un po’ un uomo nel mezzo, ma non mi sento una presenza ingombrante nel box. Preferisco dire una parola di meno che un parola di troppo, in genere lascio che i piloti facciano il loro lavoro e gli ingegneri facciano quello che sanno fare meglio senza essere forzati dalle mie opinioni, ma se sono fortemente convinto riguardo a qualcosa ovviamente la comunicherò, pur lasciando che le cose si sviluppino in modo organico durante il weekend e dando piccole informazioni nei momenti critici, perché è questo ciò che avrei voluto come pilota. Non ho mai avuto una figura del genere al mio fianco, ho avuto persone che mi aiutavano osservando da bordo pista, ma in termini di video analisi e tutto quello che faccio in questo ruolo sono tutte cose con cui, a dire il vero, mi sarebbe piaciuto avere a che fare. Mi sarebbe piaciuto avere questo vantaggio, ma ora ho l’opportunità di compierlo a favore del team Aruba.it Racing. Metà del lavoro è fornire informazioni corrette al momento giusto, senza risultare troppo pesante. Di certo molte persone nello stesso ruolo proverebbero a giustificare quello che fanno, tentando di esporre dieci soluzioni diverse affinché il pilota possa cercare di assimilarle e provare ad implementarle per il futuro nella sessione successiva, ma alla fine della giornata bisogna sempre ricordarsi che si sta lavorando coi migliori piloti al mondo e il 99% di quello che fanno è già molto buono”.

“Devi capire come funzionano i loro stili di guida, la loro strategia di gara, come gestiscono le gomme ed è tutto una sorta di equazione per me, in cui dare le informazioni giuste al momento giusto può aiutare, ma senza essere troppo assillante per i piloti. Vorrei solo che non ci pensino troppo ed aggiungo dettagli solo durante il fine settimana, piccole cose che possono fare una grande differenza. Quindi sì, è qualcosa che adoro, è tutto ciò che amo combinato in un’unica mansione: la parte video, l’analisi dei dati, le corse, il confronto coi piloti. E’ un lavoro molto gratificante in ogni sua parte, soprattutto quando i risultati sono come quelli degli ultimi anni, quindi sono molto grato per l’opportunità e continueremo a muoverci nel verso giusto”.

Sei stato compagno di squadra di Álvaro Bautista ed ora sei il suo rider’s coach. Che effetto ti fa essere ancora all’interno della squadra ma non più da pilota al suo fianco a pari moto, bensì come figura di supporto?

“All’inizio è stato un po’ strano, adesso sono passati tre anni e di sicuro non è lo più. Quando si gareggia fino all’anno precedente con tale persona in qualità di avversario e si passa poi lì al suo fianco per aiutarlo, è sicuramente una dinamica diversa. Ma con Álvaro, a dire il vero, è facile lavorare: rende le cose abbastanza semplici, lavora molto su sé stesso, e come ho detto prima io cerco solo di aggiungere dettagli nei momenti importanti e di lasciargli sfruttare le sue capacità ed esperienza come sa fare meglio. Quindi è semplice, come lo è con Nicolò”.

“Penso che quest’anno il team ufficiale sia fortunato, perché entrambi i piloti non solo sono estremamente talentuosi e veloci, ma rendono le cose piuttosto semplici. A loro non piace complicare eccessivamente alcunché e io sono lì come supporto per tutto ciò che fanno. Seguo la loro linea di pensiero per capire di cosa hanno bisogno, cosa vogliono migliorare. Fondamentalmente sono lì solo per supportarli. Ma ora mi sento più vicino alla figura dell’ingegnere dal punto di vista dell’analisi, di quanto mi senta vicino a quello del pilota. Anche se ho corso quest’anno, mi vedo meno come un pilota e più come un altro membro della squadra”.

Ti sei avvicendato, dopo la tua esperienza in SBK, anche nelle gare endurance dell’EWC. Com’è stato l’approccio a questa categoria?

“Quell’opportunità è arrivata perché un pilota si è infortunato e l’ho sostituito per appena un fine settimana, dopodiché quest’esperienza si è trasformata in una sella su cui corso per un anno e mezzo, seppur facendo solo poche gare. Non ho disputato l’intero campionato, ma ho corso delle gare occasionali ed è stata un’esperienza fantastica; mi è piaciuta davvero. E’ molto diverso dal mondiale Superbike, che è ovviamente estremamente intenso con tre gare a fine settimana da correre al massimo e in cui ogni giro, praticamente dalle prime prove libere di venerdì mattina fino all’ultimo passaggio dell’ultima gara, compi il massimo sforzo, mentre nell’ECW è più un cercare di dosare le forze del corpo, della mente e di lavorare con la squadra e coi propri compagni d’equipaggio. Bisogna ottenere davvero ciò che è meglio per tutti, non necessariamente per sé stessi come individui, lavorando in un modo diverso. E mi è davvero piaciuta questa cosa, era il momento giusto per tentarla. E’ stata un’esperienza meravigliosa, anche se sfortunatamente non siamo riusciti nemmeno a salire sul podio, ma a volte siamo stati molto competitivi. Purtroppo abbiamo avuto dei problemi tecnici, che fanno parte del gioco e specialmente nelle gare di durata, dove il tutto è molto impegnativo per il pilota ed il mezzo, ma è rimasta un’esperienza davvero divertente e con di sicuro molte potenzialità, se si ha il giusto tempismo per affrontarla”.

Si parla tanto di un debutto di Ducati in questa categoria con una struttura factory: ritieni sia possibile un assalto contro le Case giapponesi anche nell’EWC, magari addirittura alla 8 Ore di Suzuka?

“Certo, penso che guardando ciò che Ducati ha ottenuto negli ultimi anni, questa sia una delle storie che restano da raccontare e sono stato molto chiaro anche con loro in questo, l’ultimo obiettivo che resta loro da raggiungere è sapere quanto possano essere competitivi nelle gare di durata. Penso ancora che ci sia in programma una 24 Ore, la moto non è stata provata ma penso che nelle mani giuste possa essere molto competitiva. Ovviamente i giapponesi hanno molta più esperienza in quel tipo di gare, ma sicuramente la moto ha il potenziale per fare molto bene ed è qualcosa che ho potuto saggiare quando ero lì”.

“Ho provato, per un po’, a rendere più unita la squadra tedesca per cui ho corso [ERC Endurance, n.d.r.], ma non è stato facile convincere tutti a seguire la stessa linea di pensiero, perciò alla fine mi sono concentrato solo sul mio lavoro, ma sento che manchi ancora l’opportunità per poter raccogliere dei frutti, non solo in MotoGP, in Superbike o nelle massime categorie delle corse, ma anche nel mondo Endurance. Vedremo in futuro cosa decideranno di fare, ma se s’impegneranno a fondo non c’è dubbio che saranno molto competitivi”.

Quest’anno hai debuttato anche nella MotoE, ma la stagione purtroppo non è andata nel modo migliore. Com’è stato guidare la V21L? Tenterai di correre in questa categoria anche nel 2025?

“No, non è andata nel migliore dei modi. Sicuramente mi aspettavo di meglio. Quando ho testato e sviluppato la moto due anni fa, mi ero davvero divertito. È stata un’esperienza davvero divertente ed ero competitivo. Ecco perché ho accettato di togliere il casco dal chiodo e di ricominciare a correre, qualcosa che non avevo intenzione di fare. Ma con Aruba.it Racing abbiamo un rapporto davvero buono, perciò è stato un punto di partenza logico, sia per me che per loro. Ero interessato anche perché ero stato veloce due anni fa e le gare, ovviamente, non sono impegnative allo stesso livello di un weekend del mondiale Superbike, perciò per me c’erano tutti i presupposti per dire ‘Perché no?'”.

“Purtroppo non è andata molto bene, perché ho faticato a trovare il feeling col posteriore della moto e mi sentivo come se stesse mancando qualcosa rispetto a quando l’avevo provata la prima volta. Alla fine ho fatto quello che potevo, però non è stata una bella stagione. Spero che il progetto, andando avanti, sarà in una condizione migliore e che il prossimo anno Aruba.it possa iniziare a ritagliarsi il proprio spazio anche in quel campionato. Non ho dubbi che andranno avanti e avranno successo pure lì, come l’hanno avuto in ogni altro campionato. Vediamo come andranno le cose in futuro”.


Concludiamo ringraziando Chaz e Federico Cappelli, addetto stampa di Aruba.it Racing, per averci concesso quest’intervista.

Fonti immagini: Instagram / Chaz Davies, arubaracing.it, worldsbk.com, Facebook / ERC Endurance-DUCATI, Twitter / MotoE


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