Un anno fa, a Spa, ci lasciava Hubert. Un pilota, un racer. Prima di tutto, un ragazzo
Ogni volta che c’è da affrontare quell’argomento lì, quella parola di cinque lettere nella passione che ti accompagna da trent’anni è un colpo al cuore. Perché non dovrebbe essere così. Nelle cose belle non dovrebbe esserci spazio per il negativo, per l’opposto di ciò che ti fa felice.
La morte fa parte della vita e, nello specifico delle corse, è parte del motorsport. Una parte che abbiamo inconsciamente disimparato a conoscere grazie a ciò che la sicurezza ha fatto dalle 14.17 del 1° maggio 1994, Imola, Gran Premio di San Marino; il nuovo Day 1 della Formula 1. Eppure, nonostante tutti gli sforzi fatti, non è bastato, non basterà mai. Per quante vite si potranno salvare – e ne sono state salvate parecchie – il rischio sarà sempre e comunque parte di questo mondo. Niente e nessuno potrà mai eliminarlo del tutto: fino a quando dei ragazzi si infileranno all’interno di un abitacolo a due centimetri da terra, lanciandosi a 300 orari su curve, rettilinei, salite e discese, nessuno potrà mai garantire loro al 100% che andrà tutto bene.
Anthoine Hubert era uno di loro, uno di quei folli ragazzi che hanno scelto come mestiere della vita quello di sfidare il cronometro, la sorte, la velocità, le leggi della fisica. Il desiderio di primeggiare, di avere campo libero davanti a sé e tutto il resto, tutti gli altri, alle spalle. I piloti hanno l’abilità di trasmettere qualcosa di difficile come se fosse la cosa più facile del mondo. Nessuno, tra chi non abbia mai corso, sa cosa voglia dire stare lì dentro. Sta al buon senso di ognuno di noi cercare di immedesimarci e provare a capire un decimo di quello che si può provare, stretti tra le cinture, chiusi dentro al casco senza quasi possibilità di muoversi. Non è come stare su un pullman. A volte bisognerebbe capirlo di più.
E poi c’è la fortuna, il fato, chiamatelo come volete. Quello che risparmia Valentino Rossi e Maverick Vinales per un misero decimo di secondo. Quello che un anno fa, il 31 agosto, ha portato via Hubert. Una di quelle carambole in cui tutto è perfettamente allineato per far sì che lo scenario peggiore si avveri. Questione di centimetri, come al solito, come sempre. Poco più in qua, poco più in là e parleremmo di altro, in questo come in tantissimi altri casi.
Anthoine Hubert doveva compiere 23 anni. Era il campione in carica della GP3, faceva parte dell’Academy Renault. E potrei continuare a raccontare cosa faceva e cosa non faceva, immaginare cosa avrebbe potuto fare, quale futuro gli sarebbe stato riservato. Ma poco importa. Anthoine Hubert, prima di tutto, era un ragazzo che aveva scelto, come tanti altri, di entrare a far parte del mondo che da trent’anni in qualche modo mi accompagna; un mondo che ho imparato a conoscere un pochino di più da quando ho iniziato a scrivere.
Un mondo nel quale loro, i piloti, dal più al meno veloce, dal più al meno talentuoso, hanno diritto al rispetto massimo per quello che fanno ogni volta che salgono in macchina, sia una sessione di prove libere o la partenza di un Gran Premio.
È per questo che un pensiero speciale, doveroso, in questo weekend andrà a lui ma anche alla sua famiglia, ai suoi amici, a tutti coloro gli sono sempre stati vicini, assecondandolo nel suo personale sogno: quello di diventare il più veloce di tutti. Nel loro cuore sarà così, per sempre.
Salut, Anthoine.
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