La campagna mediatica pro-Charles Leclerc che ha investito l’Italia motoristica nell’ultimo anno nient’altro è che l’ennesimo anello di una catena lunghissima, fatta di eroi poi diventati agnelli sacrificali per la causa di turno.
Indipendentemente dai risultati del monegasco, che ne hanno mostrato le grandi capacità – ma questo già si sapeva almeno dalla GP3 – la Febbre Leclerc e la contemporanea volontaria e sistematica detronizzazione di Sebastian Vettel – favorita dai suoi errori, meglio ricordarlo sempre – è atteggiamento che negli anni ha regalato grandi perle di incoerenza in quello che dovrebbe essere un mestiere, il giornalismo, “fatto di fatti” prima di tutto e, soprattutto, di sentenze assolute.
Nell’esaltare eccessivamente e, successivamente, bocciare pesantemente questo o quel pilota c’è tutta l’incoerenza di questo mondo. Tornando indietro al tedesco ricordo con un po’ di imbarazzo i festeggiamenti per il suo arrivo in Rosso dopo anni da nemico di Fernando Alonso, con l’aggravante di due mondiali (2010, 2012) conquistati in faccia allo spagnolo. Il primo test ferrarista a Fiorano, con tanto di casco speciale, era stato seguito dalla consueta conversione di massa che non guarda in faccia il pilota ma solo il colore della tuta. Nel caso di Vettel, poi, c’è stata da raccontare durante l’inverno del suo arrivo la meravigliosa favola dell’eredità germanica, del rapporto con Schumi (che c’era e, seppur a distanza, c’è ancora) esaltato per questioni romantiche e tutta una fila di storiette commoventi che, alla prima vittoria in Malesia nel 2015, sono esplose nelle grida per l’arrivo del Messia.
Vedi anche: F1 | GP Brasile, lo scontro Vettel-Leclerc al microscopio. Colpe per entrambi, ma…
Alonso, dicevo. Lo spagnolo ha combattuto per cinque anni nelle file della Rossa tra alti e bassi, sfiorando appunto il titolo in un paio di occasioni. Appena arrivato a Maranello la conversione di turno fu assoluta. Da nemico innominabile ai tempi della Renault, quando contendeva il titolo a Schumi e le polemiche dei giorni più croccanti l’avevano portato ad accuse di favoritismi della FIA nei confronti della Rossa, Fernando – appoggiato dal big sponsor Santander – è diventato il punto di riferimento della Ferrari con Raikkonen ritirato in anticipo sui tempi. Il punto più alto (o più basso, in quanto tremendo portasfiga) fu un libro pubblicato quando ancora Fernando non aveva corso nemmeno una gara con la sua nuova squadra. In men che non si dica l’asturiano è passato dall’essere la luce per Dracula al “Principe di Maranello”. La contemporaneità del ritorno in F1 dello stesso Schumi fu quasi cinematografica, pensando al riguardo dei media nei confronti di chi aveva vinto 5 mondiali e 72 gare con la Rossa. A colpi di “traditore” e “vecchio” le tre stagioni in Mercedes furono la perfetta cartina di tornasole del movimento giornalistico di questo paese.
Ovviamente, una volta andato via dalla Ferrari in direzione McLaren, Alonso è tornato ad essere, in parte, quello di prima. Lui di certo non ha fatto molto per non attirare su di sé commenti negativi (“mi ero stancato di arrivare secondo”, come se a Woking le cose andassero meglio), ma una volta lasciata la casacca rossa parecchia protezione è, ovviamente, venuta meno.
Lo stesso Schumi, prima di arrivare in Ferrari nel 1996, non era certo acclamato dai ferraristi nonostante i suoi due titoli con la Benetton. Il caso dello striscione “Meglio un Alesi oggi di 100 Schumacher domani” esposto a Monza fu indicativo. Detto questo, con i risultati (e non senza momenti terribili in almeno un paio di occasioni) il tedesco riuscì poi a guadagnare la stima dei media. D’altronde il periodo Schumacher, in Italia, è indiscutibilmente quello più propizio dal punto di vista degli ascolti televisivi e del ritorno mediatico, molto più di quanto succeda ora nonostante internet e i social. Fa sorridere, per far capire quanto il sistema sia strano, ricordare le polemiche per l’incapacità di Michael di parlare italiano in pubblico. Che poi fosse, per lo più, una volontà, è un altro discorso.
Una nota anche per Kimi Raikkonen, probabilmente il campione del mondo Ferrari più snobbato perché appartenente ad un mondo tutto suo. Il fatto che la sua permanenza in rosso sia ricordata più per il cornetto del GP della Malesia 2009 che per l’essere l’ultimo titolato di Maranello è abbastanza assurdo.
Siamo arrivati a Charles Leclerc. Il monegasco gode forse della protezione mediatica più forte che un pilota della Ferrari abbia mai avuto a suo favore da decine di anni a questa parte. A ragione, sia chiaro. Si tratta del primo vero fenomeno allevato dalla squadra di Maranello in proprio. Sin dalla GP3 si sapeva che il suo arrivo in Formula 1 con la Rossa sarebbe stato solo una questione di tempo. Induscutibili le doti, il coraggio, il fuoco negli occhi. I risultati in pista sono a suo favore, con pole e vittorie già al primo anno. Anche se, su questo, abbiamo già indagato nelle scorse settimane. In ogni caso la prima stagione di Charles è da considerarsi anche oltre le aspettative di molti, con una fame invidiabile e simile a quella del coetaneo Max Verstappen, col quale ha avuto modo di scambiare le prime sportellate anche in F1 dopo quelle degli albori della loro carriera.
La protezione in favore del giovane fenomeno della Ferrari ed i contemporanei problemi di Vettel con la macchina, se stesso, i tifosi ed i media hanno creato una forbice di giudizio che ha ancora di più esasperato l’esaltazione nei confronti del primo e lo scarico nei confronti del secondo. Il quale, si vocifera non si sa con quanta affidabilità, potrebbe addirittura salutare tutti con un anno di anticipo in favore, magari, di un Hulkenberg ancora sul mercato. Scelta, eventualmente, migliore possibile perché un altro anno consumato come questo sarebbe solo e soltanto deleterio per il quattro volte titolato, ormai rinchiuso in una sorta di bolla nonostante una seconda parte di stagione più vivace. Solo anche perché colpevolmente nullo dal punto di vista mediatico in un mondo dove l’immagine conta quanto il piede.
Nessuno, però, è al riparo dal carro dei trombati. Neanche Charles Leclerc. La storia è lì a parlare per sé. Se il grande movimento giornalistico-sportivo di questo paese è riuscito per tre anni a togliere riconoscenza a chi ha vinto praticamente un terzo del totale delle gare della Ferrari in settant’anni, viene molto facile pensare che chiunque possa essere messo sotto accusa in un batter d’occhi. Non subito, non dopo un mese e magari nemmeno dopo un anno, ma i grandi esempi degli ultimi due decenni sono lì a dimostrare che avere il supporto è facile così come il dietrofront. Come toccato a Schumacher, Raikkonen, Alonso, Vettel, potrà arrivare il turno del monegasco. L’inizio è sempre condito da affetto incondizionato. Se però le vittorie importanti non arrivano il rischio è sempre dietro l’angolo. E, appunto, a volte non è nemmeno garantito restare sul piedistallo pur vincendo. Immaginate cosa succederà tra un anno o due se Mick Schumacher dovesse salire in Formula 1. Una raffica di miele, anche da parte di chi sputa ancora sangue per Adelaide 1994, tanto dolce da sperare per il bene dello stesso Mick che si dedichi ad altro, magari alle ruote coperte.
Ecco perché è indispensabile la coerenza di giudizio. Capire che i piloti sono sempre gli stessi indipendentemente dal colore della tuta è fondamentale. Non si diverta più forti o più deboli, più simpatici oppure antipatici cambiando colore di tuta o solo perché ce lo dice o impone qualcuno. Ecco perché, in questi anni, dalle pagine di questo blog ho quasi sempre preferito le difese agli attacchi. Vettel, Verstappen, Bottas, Gasly, anche quel Ricciardo ora snobbato da tutti solo perché non più inquadrato. Nei momenti negativi, di polemiche aspre e facili ironie ho sempre scelto di mettermi dalla loro parte perché la critica è sacrosanta quando argomentata, non quando imposta o predefinita per dettame o linea editoriale. Credo nel rispetto nei confronti dei piloti e credo sia giusto cercare di mettersi dalla loro parte soprattutto quando le cose non vanno per il verso giusto. Credo lo meritino perché, in fondo, sono il motivo per cui tutti siamo qui. E credo soprattutto che, così come il tiro al piccione, anche l’eccessiva esaltazione sia una grave, enorme mancanza di rispetto nei confronti di un pilota. Perché spesso è falsa, accomodante, conveniente, palese. Si capisce, sempre.
Quindi, quando leggiamo le più aspre bocciature o le più dolci smielate, impariamo sempre a filtrare le opinioni e, soprattutto, ad appellarci al nostro senso critico prima di qualsiasi altra cosa. Facciamoci la nostra idea prima che arrivino quelle degli altri e non permettiamo loro di cambiare il nostro pensiero. Non facciamo sì che un pilota diventi più bello o brutto se passa dalla squadra che sosteniamo e trattiamo i piloti per quello che sono: ragazzi con un qualcosa di speciale.
Nessuno è e sarà al riparo dal carro dei trombati finché non inizieremo a dargli meno importanza, con la forza delle nostre idee e non di quelle che ci vengono imposte.
È vietata la riproduzione, anche se parziale, dei contenuti pubblicati su P300.it senza autorizzazione scritta da richiedere a info@p300.it.