Australia, 1986. Una F1 distante anni luce

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Tempo di lettura: 14 minuti
di Alessandro Secchi @alexsecchi83
18 Novembre 2017 - 17:15
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Le novità per il 2018 tra cui l’introduzione di Halo, la riduzione delle Power Unit a tre unità utilizzabili durante l’arco della stagione e le sei mescole da asciutto che Pirelli produrrà mi hanno riportato alla mente un Gran Premio che ho rivisto qualche giorno da: il Gran Premio d’Australia 1986.

Ho deciso di prenderlo come esempio per ricordare un periodo d’oro della F1 che, per popolarità ed intensità, resta ancora tra i migliori di tutti i tempi. Un esempio di una Formula 1 lontanissima da quella attuale, e non di certo peggiore solo perché antica.

L’evento si svolge sul tracciato cittadino di Adelaide, che ospita la seconda edizione dopo essere entrato in calendario un anno prima per restarci fino al 1995. È il sedicesimo appuntamento dell’anno e si tratta anche dell’ultimo rispetto alle venti gare che abbiamo ora. Il mondiale non è ancora deciso, sono infatti ancora tre piloti in lizza per la vittoria del titolo mondiale:

Ma non è tanto questo il motivo di questo ricordo, quanto la constatazione di quello che la Formula 1 proponeva ai tempi e di quanto fosse infinitamente diversa da quella odierna, ben più rispetto ai 31 anni trascorsi.

Le monoposto sono spinte da motori turbo da 1.500cc di cilindrata, e sono ovviamente prive di tutta la parte elettrica che conosciamo ora. Niente batterie, niente MGU-H, MGU-K, zero. Il cambio al volante arriverà solo nel 1989 sulla Ferrari: i piloti sono costretti a lavorare di pedali e leva per cambiare marcia. Siamo lontani dell’anno zero, il 1994. Niente protezioni ai lati della testa, niente strutture deformabili. Il casco dei piloti è bene in vista, in alcuni casi anche le spalle sporgono dall’abitacolo. Le vetture sono tutte diverse una dall’altra. Tanto da essere riconoscibili chiaramente a vista dipingendole tutte di nero. La libertà progettuale è ancora vasta.

Partiamo dalle qualifiche: per comodità (e dopo aver controllato la veridicità dei dati) segue la classifica delle qualifiche da Wikipedia. Si tratta, ovviamente, di qualifiche vere, su due giorni, con giri liberi. Niente Q1, Q2, Q3. 

Le Williams sono in prima fila con Nigel Mansell davanti a Piquet: dietro di loro i futuri duellanti Senna, ottimo terzo con la Lotus, ed Alain Prost con la Mclaren. In terza fila René Arnoux con la Ligier e la Benetton di Gerhard Berger. La quarta fila è aperta da Keke Rosberg, compagno di Prost in Mclaren, alla sua ultima gara in F1. Il finlandese è affiancato da Philippe Alliot con l’altra Ligier. La prima Ferrari in griglia è quella di Michele Alboreto, nono davanti a Philippe Streiff con la Tyrrell. 

Tornando alla classifica: notate qualcosa di particolare, a parte le ventisei vetture presenti contro le venti di oggi? Se non vi viene in mente nulla, ecco la classifica della Q1 dell’ultimo Gran Premio del Brasile. 

Da quanto tempo sentiamo lamenti sulla lentezza delle cenerentole odierne? Eppure Marcus Ericsson, l’ultimo in questa classifica (19°), ha rimediato solamente un secondo e mezzo (+1.470) dal primo tempo di Valtteri Bottas. Il mito dei distacchi si può sfatare solo confrontando queste due classifiche. Riccardo Patrese, 19° con la Brabham, si prende quasi cinque secondi (+4.827) da quello che sarà il suo futuro compagno Mansell. Se i primi tre sono distanziati da distacchi che potremmo vedere anche oggi, con Piquet secondo a tre decimi e Senna terzo a mezzo secondo, da Prost in poi (quarto e già oltre il secondo) la forbice si allarga a dismisura fino ai sei secondi e otto decimi di Ghinzani, penultimo in classifica con la Osella con il 25° tempo.

Interessanti sono anche i distacchi tra compagni di squadra, in un’era nella quale la differenza si poteva fare molto più di oggi: tre decimi tra Mansell e Piquet in Williams, ben tre secondi e sette decimi tra Senna e Dumfries in Lotus, un secondo e un decimo tra Prost e Rosberg, uno tra Arnoux e Streiff in Ligier, 1.6 tra Berger e Fabi in Benetton. Tornando al Brasile ed esclusa la coppia Mercedes con Hamilton subito fuori dai giochi, abbiamo due decimi tra Raikkonen e Vettel, otto millesimi tra Verstappen e Ricciardo, due decimi ancora tra Hulkenberg e Sainz, 23 millesimi tra Perez e Ocon. Il dato più ampio è quello tra Massa e Stroll, con quest’ultimo in palese difficoltà e distante un secondo dal compagno. Si tratta, però, di un caso raro. Come vedete, la forbice si è ristretta tantissimo: fare la differenza ora è molto, molto più difficile perché il pilota conta meno rispetto al passato.

Non si tratta dell’unica differenza: come da prassi di questi ultimi anni, dopo alcune gare la griglia di partenza viene disegnata dai tempi in qualifica e poi stravolta dalle odiosissime penalità in griglia, dovute al raggiungimento e al superamento del limite di Power Unit o di componenti utilizzate sulla monoposto. In alcuni casi i piloti iniziano il weekend con la coscienza che il loro lavoro in qualifica sarà comunque penalizzato dalla sostituzione di un pezzo. Questo, inevitabilmente, porta il team a lavorare sacrificando in parte la qualifica per avvantaggiare il pilota in ottica gara visto che (altra differenza in negativo) il Parco Chiuso castra gli assetti al sabato pomeriggio. E così, sempre portando ad esempio l’ultima gara in Brasile, si trova un Ricciardo che da quinto parte 14° ed altri quattro piloti condizionati dalle penalità: Ericsson, Gasly, Stroll, Hartley. Niente a che vedere con il periodo storico che si sta analizzando: in qualifica si spingeva sempre e comunque per due giorni, servendosi di motori spinti appositamente per la qualifica e treni di gomme ultramorbide da giro secco. Non si impiegavano certo gomme da gara come oggi, in cui si impiegano in Q2 le stesse quattro coperture con cui si inizia il Gran Premio. Il tempo finale, con la relativa posizione in griglia, non veniva ritoccato da nessuna penalità assurda.

Arriviamo a domenica 26 ottobre 1986: le monoposto in griglia montano gomme… nere. Tutte nere. Nel 1986 la Pirelli affianca la Goodyear come fornitore di pneumatici, ma nel complesso il loro ruolo è quello corretto. Le gomme sono una componente, non LA componente. Non ci sono mille mescole, non ci sono mille colori, ci sono solo quattro gomme nere, segnate solo dal marchio del costruttore, montate sulle monoposto. La loro importanza è relativa al ruolo, e infatti in telecronaca si parla di strategie tra chi tenterà di andare in fondo senza cambiare e chi invece potrebbe essere più aggressivo e prevedere una sosta.

Arriviamo alla gara: in barba al DRS dopo sette giri il leader della corsa è… Keke Rosberg. Partito dalla settima posizione, il finlandese si trova subito a ridosso dei primi e al settimo passaggio sorpassa Piquet per il primo posto, scappando via. Mansell ha perso qualche posizione al via, Prost è guardingo alle spalle. dei piloti Williams e di Senna, mentre il compagno allunga in testa.

Se non si trattasse di una corsa decisiva per il titolo potremmo definirla “noiosa”. E qui sfatiamo un altro mito, ovvero quello delle gare super spettacolari degli anni ’80. Non è vero! Anche nel passato ci sono state gare poco avvincenti, in cui i distacchi tra le monoposto erano talmente marcati da non dare il via a lotte, sorpassi e controsorpassi. Il concetto secondo il quale le gare devono essere per forza movimentate è un’invenzione degli ultimi quindici anni, nei quali si è tentato di tutto per ribaltare gli equilibri fino, appunto, all’introduzione di genialate come il DRS.

Per quanto però quelle gare potessero non essere esaltanti, bastava un cameracar (ai tempi già presente) a rendere l’idea visiva ed uditiva dell’epicità del ruolo del pilota di quel tempo. Sono strabilianti i due che vengono mostrati durante la corsa dei Adelaide, quello di Patrick Tambay a bordo della Lola e quello di Johnny Dumfries con la Lotus. Abitacoli che sembrano preistorici rispetto a quelli odierni. I monitor con duecento informazioni live lasciano spazio a quadranti (se ne vendono distintamente quattro nel caso di Tambay), lancette e piccolissimi display LCD ad una sola riga, sullo sfondo di tondissimi volanti (altro che quelli alla Batman) che di bottoni è già tanto se ne hanno due. Altro che manettini e manettoni: negli anni ’80 non c’erano per evidenti motivi di evoluzione tecnologica, ma anche se ci fossero stati i piloti non avrebbero mai avuto il tempo per giocarci, perché nel 1986 la guida era la cosa più importante, anche più del farsi suggerire dall’ingegnere di pista quale manettino mettere in quale posizione. Le ginocchia dei piloti sono bene in vista: si possono intuire il gioco di gambe e l’armonia dei movimenti tra queste e il braccio destro sul cambio per salire o scalare marcia durante il giro tra monoposto che strillano, volanti semi incontrollabili, reazioni improvvise, fuorigiri sfiorati in scalata. Tenere in pista la vettura tra mille sollecitazioni è cosa da duri, anche se ti chiami Dumfries e i tre punti che ottieni nella tua unica stagione vengono offuscati dai 55 del fenomeno Senna.

Dopo dieci giri di gara la regia manda in onda i distacchi: Rosberg comanda con 3.3 secondi su Piquet superato da appena tre giri, dieci secondi su Mansell seguito da vicino da Prost, 17 su Senna e 25 su Berger. Distacchi importanti dopo un solo ottavo di gara. Pochi secondi dopo la sovrimpressione lascia spazio alla Minardi di Alessandro Nannini semidistrutta a cavallo di un cordolo. Il pilota è già sceso, i commissari arrivano per spostare la monoposto che non viene fatta sparire celermente come siamo abituati ai giorni nostri, ma semplicemente spostata in modo da non intralciare il traffico. Resterà lì, inquadrata mentre gli altri piloti ci girano attorno, per i restanti 72 giri. Lo stesso varrà per le altre monoposto abbandonate dopo il ritiro ai lati della pista. Niente Safety Car, niente VSC. Normale prassi, ai tempi.

Venticinque giri percorsi e, al di là dei quattro ritirati, i distacchi sono aumentati clamorosamente tanto da sembrare quelli di un fine gara attuale. Rosberg comanda infatti con la Mclaren la sua ultima corsa iridata davanti al compagno Prost, con 17 secondi di vantaggio. Seguono le Williams con Mansell a 24 e Piquet che, fresco di testacoda, ha perso una posizione ed ora è dietro l’inglese a 28 secondi dalla testa. Senna è quinto a 51 secondi e Stefan Johansson, con la Ferrari superstite dopo l’incidente che ha messo fuori gioco Alboreto allo start, è sesto (ultimo dei piloti a punti) a quasi un minuto e dieci secondi di ritardo. Non siamo nemmeno ad un terzo di gara, e dopo dieci giri lo svedese sarà già doppiato.

Come detto, la strategia sulle gomme è basata sul fatto di riuscire a far durare le coperture o meno fino al termine. Alain Prost è il primo a dover rinunciare all’opzione dovendo cambiare gomme a seguito di una foratura pochi giri dopo il testacoda di Piquet, rimanendo apparentemente attardato per poter lottare per il titolo. La corsa prosegue apparentemente liscia nonostante continuino i ritiri. Mentre Keke Rosberg continua a guidare il gruppo in pochi giri tocca Berger, de Cesaris e Senna devono abbandonare la corsa portando a otto il numero delle monoposto ferme a metà giri completati.  

Piquet recupera dopo il suo testacoda e piano piano si riavvicina a Mansell. Allo stesso tempo Prost, con gomme nuove, si avvicina alla coppia Williams. Il brasiliano ne ha più dell’inglese e lo passa portandosi in seconda posizione, pur non scappando dal compagno. Chi è tranquillo in testa è sempre Rosberg, che dopo 51 giri è in testa con mezzo minuto di vantaggio sulla coppia Piquet-Mansell. Prost, a 38 secondi, è l’ultimo pilota a pieni giri. Da Patrese in poi sono tutti doppiati, mentre i ritirati sono saliti a nove su ventisei partenti. 

Le posizioni restano invariate per oltre dieci giri, fino a quando non avviene l’impensabile. Al 63° passaggio Rosberg è vittima di una foratura e deve abbandonare la corsa, lasciando al comando i tre contendenti al titolo. La carriera del finlandese si chiude qui. Non è però finita perché basta un altro giro ed arriva il colpo di scena decisivo per il titolo: la gomma posteriore sinistra di Nigel Mansell esplode sul rettilineo più lungo di Adelaide, durante il doppiaggio della Ligier di Alliot. È l’immagine più significativa di quella stagione. L’inglese riesce miracolosamente a controllare la sua Williams senza impattare da nessuna parte, ma l’esplosione ha danneggiato pesantemente anche la sospensione ed il Leone non può fare altro che ritirarsi abbandonando la monoposto. Ai box decidono, dopo il problema avuto da Mansell, di richiamare Piquet ai box per un cambio gomme preventivo, forse nella speranza di poter recuperare su Prost nel finale di gara. Il francese, con gomme già cambiate, si trova ora in testa e con la concreta possibilità di diventare iridato per la seconda volta di fila. 

Il recupero del brasiliano è lodevole, ma per il titolo non c’è nulla da fare. Prost taglia il traguardo con 4 secondi di vantaggio sulla Williams e diventa bicampione. Appena dopo il traguardo si ferma a bordo pista scendendo dalla monoposto esultando per aver confermato il titolo dell’anno precedente.

Sul podio va Stefan Johansson, che giunge al traguardo da primo dei doppiati: succedesse adesso si scatenerebbe il finimondo. Su ventisei monoposto partite solo dieci giungono al traguardo, con la Tyrrell di Martin Brundle quarta e doppiata nello stesso giro della Ferrari e il resto dei superstiti a distanze siderali: Streiff e Dumfries giungono staccati di due giri, Arnoux e Alliot di tre, Jonathan Palmer e Teo Fabi di cinque. Da Tambay, undicedimo, in giù, sono tutti ritirati con problemi di varia natura: rottura del motore per la gran parte ma anche forature, problemi elettrici, alla trasmissione o ai freni. I nostri Alboreto e Nannini sono gli unici ritirati per incidente. 

Guardando la classifica è degno di nota il fatto che due piloti staccati di due giri possano prendere punti, considerato che questi erano destinati, ai tempi, solo ai primi sei classificati. A volte il tempo annebbia i ricordi: se pensiamo ai distacchi odierni e ai budget dei team minori rispetto ai top, quel secondo e mezzo di Ericsson rimediato in Q1 assume i contorni del mezzo miracolo. Possiamo andare tranquillamente a rivedere altre classifiche degli anni ’80 (ma anche ’90…) rendendoci conto di quanto le differenze fossero ampie tra le monoposto in quella Formula 1 rispetto a questa.

Si tratta, di fatto, di due sport completamente diversi uniti da un filo storico. Ci sono aspetti cambiati in meglio come la sicurezza e la copertura mediatica degli eventi, ma al tempo stesso l’aumento della popolarità e del bacino di utenza ha portato a voler aumentare lo spettacolo artificialmente (sappiamo come), mentre ai tempi si rimaneva a bocca aperta solo nel veder guidare al limite queste vetture. I cameracar parlano da soli. Cercateli su Youtube e godeteveli.

L’affidabilità giocava un ruolo chiave. Si rompeva molto di più rispetto ad ora e finire le gare non era assolutamente scontato. Adesso i ritiri per guasti si contano sulle dita di una mano, e si chiamano in causa come motivi per la perdita di un titolo. Negli anni ’80 rompere era normale, contemplato. Era parte del gioco.

Ogni era ha i suoi pregi e difetti, sia chiaro. Ma riguardando questo Gran Premio ho avuto l’impressione di una F1 sì più spartana ma anche molto, molto più genuina di quella attuale. Una F1 difficile, affascinante, senza fronzoli mediatici per renderla più attraente a chi è colpito più dal contenitore che dal contenuto. Viviamo un periodo storico importante, in cui la F1 sta valutando come affrontare il suo futuro. Forse dare un’occhiata a gare come queste potrebbe aiutare a capire cosa dovrebbe essere davvero importante in quella che chiamiamo la massima espressione dell’automobilismo ma che, nell’ultimo decennio, si è specchiata chiedendosi quanto fosse bella invece di ascoltare il malumore generale. 

Chissà che Liberty Media, per opera di Ross Brawn, sappia fare i giusti passi. Guardare al passato per progettare il futuro non sempre significa essere conservatori.

Immagine: f1espn.com

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