NASCAR | Talladega 2002: the biggest one

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Tempo di lettura: 19 minuti
di Gabriele Dri @NascarLiveITA
25 Aprile 2020 - 15:30
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“This is Talladega”. Questo è scritto da qualche anno sui muretti, anzi sulle SAFER Barrier, dell’ovale più grande di tutta la Nascar. E si sa cosa succede sulla pista dell’Alabama: alte velocità, gruppo compatto e tanti incidenti. Eppure uno degli elementi più caratteristici, suo malgrado, della Nascar non è sempre esistito, anzi è una “invenzione” relativamente recente. Già, il big one, quell’incidente che somiglia all’accensione di un fiammifero in mezzo ad un deposito di munizioni esiste soltanto da una ventina di anni. Prima di allora gli incidenti multipli che coinvolgevano numerosissime vetture in un sol colpo erano un’eccezione dovuta a certe congiunzioni astrali.

Infatti negli anni ’70 e ’80, quando non c’erano motori con restrictor plate e tapered spacer, il divario fra grandi team e piccole squadre era molto ampio e dovuto principalmente alle differenze di investimenti messi nella ricerca e sviluppo di motori e aerodinamica. E così nei primi anni di gare Nascar a Daytona e Talladega, i luoghi principali in cui avvengono i big one, la corsa si sviluppava principalmente secondo una trama ben definita, con i piloti principali che riuscivano a mettere in fila indiana il gruppo che in poco tempo si sfilacciava riducendo così il rischio di incidente multiplo. Infatti negli anni ruggenti sugli superspeedway il numero di piloti che terminavano la corsa nello stesso giro del vincitore spesso si contavano sulle dita di una sola mano, al massimo due.

Esaminando soltanto il caso di Talladega, le eccezioni ovviamente ci sono. L’esempio più lampante è quello della “Winston 500” del 1973, l’ottava gara disputata nella storia della Cup Series sull’ovale dell’Alabama. Al nono giro il motore della Mercury di Ramo Stott esplose spargendo olio per tutta la pista; il primo a perdere il controllo fu Wendell Scott e da lì nacque un incidente di dimensioni epocali. Il fatto di essere nelle prime fasi di gara e – soprattutto – le ben 60 auto al via, fatto su cui puntò il dito Bobby Allison, fecero finire nel mucchio una ventina di vetture (secondo Wikipedia 23, secondo Racing Reference 21). Per fortuna non ci fu nessun infortunio grave, esclusa la mano fratturata di Earl Brooks, la spalla malconcia di Joe Frasson ed il ginocchio ammaccato di Slick Gardner. Dopo una caution lunga 39 giri e 1h5′ (allora non si usava la bandiera rossa come oggi) David Pearson doppiò tutti e vinse sulla #21 del Wood Brothers.

Poi la Nascar cambiò e lo sviluppo tecnologico fece impennare le velocità delle vetture fino al 1987, quando ci furono il punto più alto e il più basso della prima parte della storia degli superspeedway. Sempre a Talladega in qualifica Bill Elliott chiuse il giro alla media straordinaria di 212.809 mi/h (342.483 km/h), un record che resterà per sempre, poi alla domenica Bobby Allison forò e volò nelle reti ad oltre 200 mi/h. Per fortuna non ci furono morti però tutti capirono che la sicurezza non era più garantita e quindi, dopo una transizione con carburatori ridotti, dal 1988 fu introdotta la restrictor plate. E con le prestazioni dei motori limitate, le differenze fra primo e ultimo si ridussero notevolmente fino ad essere annullate. Nacque così il pack racing che vediamo tutt’oggi.

E nel 1991 arrivò infatti il primo incidente dopo quello del 1973 con più di 20 vetture coinvolte, ma il big one non era ancora nato. La comparsa di questo termine risale alla fine degli anni ’90, prima con la variante “big wreck”, così come Dale Earnhardt definì l’incidente a Daytona nel luglio del 1997, poi definitivamente fra 1998 e 2001, anno da cui in poi divenne il sinonimo di incidente multiplo che coinvolge la maggior parte del gruppo. Il 2002 si aprì a Daytona con un big one a tre quarti di gara nato da un contatto fra Harvick e Jeff Gordon che coinvolse in totale 18 vetture, ma tutti ne uscirono illesi e si tirò un grosso sospiro di sollievo ripensando ai fatti dell’anno precedente. Poi ad aprile si andò a Talladega ed il weekend passò alla storia.

Sabato 20 aprile, una bella giornata di sole in Alabama e in programma per la Busch Grand National (ora Xfinity) Series c’è l’ottava gara stagionale, la Aaron’s 312. Il campionato si preannuncia equilibrato e vive della lotta punto a punto fra Jack Sprague, Randy LaJoie, Scott Riggs, Greg Biffle, Jason Keller, Kenny Wallace e molti altri, ogni ritiro può essere difficile da recuperare con una concorrenza così numerosa. Tuttavia la notizia principale è l’incidente aereo subito da Jack Roush 24 ore prima proprio nel giorno del suo 60° compleanno. Il suo piccolo velivolo si è quasi inabissato in un piccolo lago e se non fosse stato per un Marine in pensione che era in barca sicuramente avrebbe perso la vita. In ogni caso le condizioni di Roush sono molto gravi e per qualche ora si teme il peggio, ma Jack si riprenderà completamente, sia per riprendere le redini del team, sia per essere vittima di un altro simile incidente nel 2010.

In pole position c’è un giovane portato in Nascar da Richard Childress di nome Johnny Sauter; al suo fianco c’è Stacy Compton (il favorito della gara) ed entrambi guidano una Chevrolet, fatto strano visto che – in una delle ultime occasioni in cui avviene questo nella storia – molti team Chevy hanno scelto di schierare le “sorelle” Pontiac considerate più aerodinamiche a Talladega. Johnny non è solo: il fratello e compagno di squadra Jay è quarto in griglia mentre l’altro fratello Tim è decimo al via.

Alla bandiera verde Johnny Sauter rimane in testa ma dietro di lui il gruppo rimane a lungo 2 o 3-wide. Le auto sono quelle dei primi anni 2000, ancora sollevate rispetto all’asfalto, che si muovono tanto sia sugli ammortizzatori sia lungo la traiettoria, quelle che solo a guardarle ti chiedi come facciano a stare in pista insieme tutte e 43 senza fare incidenti. Mentre al terzo giro Sauter riesce ad avere un attimo di calma mettendosi davanti a Nemechek, il motore di Christian Elder va in fumo e per il suo team sarà un grande “what if” quello che succederà nei minuti successivi, così come lo sarà per Brad Teague che, dopo sei tornate in cui non succede nulla di grosso, torna nel garage accusando un surriscaldamento, ma in realtà è solo una motivazione da dire ai commissari per non confessare che la #52 è solo uno start&park, tanto i 13’170$ del 42° posto sono più delle spese affrontate per quel weekend dal team di Jimmy Means.

Il più veloce nelle prime fasi però è Jason Keller che, scattato dalla 12esima posizione, guida l’inseguimento del secondo gruppetto staccato di un paio di lunghezze dai primi. Ad aiutarlo ulteriormente davanti a lui dal sesto giro in poi sulla corsia esterna è Compton che non ha mollato quella posizione dall’inizio della gara. I due avanzano e al giro 9 Stacy è di nuovo affiancato a Sauter e parte il tira e molla per capire quale delle due corsie prevarrà. Al giro 12 Compton passa per la prima volta davanti sul traguardo, al giro 13 ha il muso davanti ma non è ancora abbastanza, al giro 14 invece sia Stacy che Jason sono davanti a Sauter ma continuano a rimanere all’esterno, al giro 15 ci sono solo Compton, Keller e Kenny Wallace, gli altri non ci sono più.

Una nuvola bianca di stridore di gomme e fumo di motori e di radiatori si mescola perfettamente ad una nube marrone di terra a circa metà del rettilineo opposto di Talladega. Dentro quella nube c’è l’apocalisse fatta di auto accartocciate sparse ovunque, un buco nero in cui chiunque o quasi è stato inghiottito, un muro impossibile da evitare per chi non era nelle prime posizioni.

La dinamica dell’incidente è semplice: Kenny Wallace, terzo in quel momento, sembra perdere la linea in curva2 e Scott Riggs – che è al suo esterno – deve alzare il piede per non essere chiuso definitivamente a muro. Hmiel non può evitare Riggs e Grubb non può evitare Hmiel. Il tamponamento a catena appena nato coinvolge due, tre, cinque, dieci, quindici, venticinque vetture. Alla fine secondo Racing Reference saranno 27 le auto incidentate sulle 41 ancora in gara in quel momento. Non è il big one, è il biggest one, l’incidente con più vetture coinvolte nella storia della Nascar almeno secondo le statistiche esistenti.

Statistiche che, malgrado sia un incidente ben documentato, ha numeri diversi. Secondo Racing Reference sono 27 le auto coinvolte, secondo la voce della gara su Wikipedia sono 28, secondo il canale YouTube della Nascar 30, sempre secondo Wikipedia, ma alla voce “The Big One” 31, secondo i commenti degli utenti di Racing Reference o 29 o 32. Alla fine 31 sembra il dato più corretto visto che dal fumo emergono prima le vetture di Compton, Keller e Wallace e poi altre sette che invece erano in coda e quindi si sono fermate in tempo, o staccate, o già doppiate come Gunselman che aveva già perso due giri ai box per altri problemi.

La bandiera rossa viene ovviamente esposta e lo sarà per i seguenti 40 minuti. Qualche vettura riesce a tornare danneggiata ai box, ma una decina sono da rimorchiare in pit lane con il carro attrezzi. Per fortuna il conto da pagare è solo economico e qualcuno lo stimerà ad addirittura otto milioni di dollari. Incredibilmente c’è solo un infortunio da riportare: Mike Harmon si è morso la lingua nell’impatto ed ha avuto bisogno di qualche punto di sutura.

La conta dei superstiti parte subito. Oltre ai giù citati Compton, Keller e Wallace ci sono anche Grubb, Bodine e Purvis che sono riusciti a passare lungo il muro e sono solo leggermente ammaccati dopo essere stati sfiorati dalla #2 di Johnny Sauter che si stava ribaltando prima da un verso e poi dall’altro. Poi ci sono anche Foyt col muso più nero che giallo, Smith, Mears e il leader del campionato Sprague con una fiancata ammaccata e senza baule, poi anche Gunselman, Fedewa e Parker. 13 auto riescono a proseguire nell’immediato e si fermano dietro alla pace car, ma quelle intonse sono molte meno.

Due immagini consecutive del big one di Talladega del 2002. All’estrema sinistra lungo il muro si vedono sopra l’auto gialla #54 di Kevin Grubb e sotto la verde #37 di Purvis seguita dalla rossa #92 di Todd Bodine. Solo quest’ultimo concluderà la gara senza ulteriori problemi al 4° posto, seppur doppiato

Inizia così una doppia gara, una per quelli che possono ancora vincere, ed una forse ancora più entusiasmante nelle prime fasi fra i meccanici che in quei 40 minuti analizzano le vetture danneggiate e cercano di capire se alla fine della bandiera rossa potranno essere riparate e rimandate in pista fosse anche solo per un giro per guadagnare una manciata di punti. Alla ripartenza dopo un breve riordino con soste ai box ci sono 15 vetture in pista con Kenny Wallace al comando davanti a Compton e Keller. Le loro sono le uniche auto veloci e indenni e quindi allungano presto su Fedewa e Parker a loro volta seguiti da un gruppetto di quattro vetture, poi il resto tenta di mantenere una velocità sufficiente per restare a galla.

Wallace, che guida una Pontiac dopo il risultato non eccezionale di Daytona, resiste davanti giusto un paio di giri – nei quali Keller prova a passare Compton – poi deve cedere la prima posizione a Stacy perché la sua vettura si sta surriscaldando e quindi forza il tempo per mettersi davanti. Il trenino da lì in poi non si ostacola più perché capiscono che più viaggiano in fila e più vantaggio accumulano sugli altri che comunque cominciano ad accusare altre conseguenze del big one, come ad esempio Grubb che dopo essere risalito in settima posizione si deve fermare ai box in una nuvola di fumo che esce dal radiatore.

Al giro 30 di 117, 10 dopo la ripartenza, il trio di testa ha già 11″ di vantaggio sul quintetto di Parker, Fedewa, Purvis, Mears e Smith e il destino della gara sembra già deciso, anche perché questi cominciano a bisticciare e perdono ulteriore tempo. Fedewa però non ha il ritmo degli altri e cede una posizione alla volta, ma grazie al continuo sorpassarsi reciproco riesce a rimanere con loro e a mantenere un piccolo vantaggio sul trio formato da Todd Bodine, Kirby e Larry Foyt. Al giro 40, dopo un breve scambio in vetta fra Compton e Keller ed il doppiaggio di Chaffin, inizia la serie dei ritorni disperati in pista senza cofani, paraurti e componenti non indispensabili, scene che oggi con il tempo per le riparazioni limitato a sei minuti sono un ricordo del passato.

Anche per i leader iniziano i problemi: Compton sembra che abbia qualcosa che svolazzi sul cofano ma non si capisce cosa sia. Non è un detrito come si pensa all’inizio, bensì l’adesivo sul cofano che si sta staccando e che rischia di ostruire la presa d’aria del carburatore. Per Wallace ci sono problemi al motore, con la pressione della benzina che va su e giù ed ogni soluzione non fornisce miglioramenti al punto che Kenny inizia a credere che la cosa malfunzionante sia l’indicatore sul cruscotto; Keller invece si limita a controllare la situazione.

A metà gara il trio di testa si avvicina all’unica sosta in programma per completare la corsa con addirittura 28″ sul gruppo di Purvis, Parker e Fedewa, Mears e Smith sono gli ultimi a pieni giri ma a 36″; Bodine nono è il primo dei doppiati con Kirby e Chaffin, Kitchens è a tre giri, Foyt a quattro, Gunselman è di nuovo ai box con problemi come a inizio gara, Grubb è 15° a 11 giri, tutti gli altri almeno a 32.

Tutti capiscono che la sosta potrebbe essere decisiva e infatti accadrà proprio questo. A 51 giri dalla fine si fermano insieme Keller e Wallace lasciando Compton tutto solo in pista. Per Stacy già questa sembra una condanna ma lo è ancora di più il fatto che i due riescono a ripartire insieme formando un pacchetto di scia che è più veloce di un auto singola. E infatti l’overcut di un solo giro gli è fatale e Compton perde la prima posizione a vantaggio di Keller, ma almeno ai box gli hanno potuto togliere i resti dell’adesivo svolazzante.

Ad interrompere la folle corsa a tre arrivano in rapida successione due caution per detriti dovuti alle auto rattoppate che hanno provato a tornare in gara. Solo Wallace prova a cambiare gomme tanto ha la terza posizione in tasca e l’unica auto a pieni giri con lui è incredibilmente Fedewa (malgrado qualche problema apparentemente all’ammortizzatore), ma non sarà sufficiente per conquistare la vittoria. Per Compton invece continuano i problemi di surriscaldamento mentre è in scia e cerca in qualche modo di tornare davanti a Keller. Lo sprint finale è di 22 giri ma Stacy non riesce a trovare un varco, anzi perde un possibile alleato.

I problemi di Wallace non erano un indicatore malfunzionante bensì proprio al motore. Alla penultima ripartenza fatica tanto a rimettersi in scia ai primi due e all’ultima si deve accodare al doppiato Bodine, quinto in classifica, per sperare di riprendere i leader che sono cinque lunghezze davanti. Ai -14 Kenny li vede e decide di saltare Todd per completare la rimonta, ma il piano fallisce incredibilmente, anche perché in uscita di curva4 il motore cala di potenza vistosamente; tenterà di rimanere in pista ancora per qualche minuto ma ai -10 sarà costretto al ritiro.

Il triello si trasforma in un duello, la Ford #57 del ppc Racing, il team di Greg Pollex (padre di Sherry, la compagna di Martin Truex Jr.) che due anni prima ha fatto una incredibile doppietta in campionato, con Jeff Green campione della Busch Series e lo stesso Jason Keller secondo, contro la Chevrolet #59 dello ST Motorsports di proprietà di Ted Geschickter, l’attuale comproprietario del JTG Daugherty, con Stacy Compton al volante desideroso di rivincita dopo una campagna fallimentare in Cup Series con un Melling Racing sul viale del tramonto. La #59 si fa vedere ma non riesce mai ad uscire veramente di scia. Molti team Chevy come detto hanno optato per una più aerodinamica Pontiac per questa gara, loro no e forse se ne stanno pentendo.

I giri passano e Compton non riesce a trovare il risucchio della scia buono, anzi sembra che pensi più a far prendere aria al motore vista la distanza da Jason. Nemmeno i doppiati gli vengono in aiuto e quindi il duello diventa sempre più il monologo di Jason Keller che vince a Talladega di tre lunghezze (0.163″) su Stacy Compton mentre Fedewa è terzo a oltre 30″. Malgrado la gara pazza decisa dal big one del giro 15, questo non è il successo di un carneade. Per Keller è la settima (di 10) vittorie in carriera, a fine anno sarà ancora vicecampione e arriverà ben 10 volte nella top10 della Busch Series; da notare anche la sua longevità dato che con Kenny Wallace e Jeff Green è l’unico con oltre 500 partenze nella categoria.

Una gara di auto è diventata così una gara di auto, piloti e storie. Come quella di Tim Fedewa, l’attuale spotter di Kevin Harvick, che con la #07 stava per rientrare ai box prima dell’incidente in quanto il suo era un tentativo start&park (e infatti lo si vede nell’inquadratura frontale dell’incidente davanti al gruppo e quasi doppiato) in una vettura che in realtà è il muletto del team e iscrittasi per la corsa solo un paio di giorni prima ma che così si ritrova quarto alla ripartenza e decide di andare fino in fondo alla gara. La sua auto tuttavia non è protetta bene nella zona dell’abitacolo dal calore proveniente dal motore; terminerà la gara terzo nel giro del vincitore ma con delle ustioni rilevanti ai piedi. E chissà come reagì Rick Markle vedendo Fedewa fare una gara così visto che poteva correrla pure lui ma fu l’unico DNQ nelle qualifiche. Non sappiamo nemmeno cosa pensarono Kerry Earnhardt (assente dal driver meeting), Kevin Grubb (sostituzione del motore) e Casey Mears (a muro nelle libere), i quali dovettero partire dal fondo anziché da dove si erano qualificati, ma che comunque – due su tre di loro – evitarono gravi danni nell’incidente.

Storie come quella di Greg Biffle che, in lotta per il titolo, riesce a riportare la vettura ai box ma è abbastanza malridotta. Manca soprattutto il cofano e allora cosa fanno al Roush Fenway? Chiedono in prestito a Joe Gibbs quello della vettura del figlio Coy che invece non può proseguire. E così dopo qualche decina di minuti nel garage presa a martellate per far cambiare forma alle lamiere, in pista a velocità decisamente inferiori gira una Ford #60 con su il cofano di una Pontiac. Lo strano esperimento dura 13 giri, poi il motore esplode e per Biffle la gara è finita. Ha guadagnato una trentina di punti su molti avversari, un bel mattoncino dei 280 del margine con cui Greg vincerà il campionato a fine anno.

Storie anche come quella della Dodge, appena tornata in Nascar e che nella Busch schiera due vetture, una per Mears ed una per Parker. Bene, entrambe le auto schivano (in inglese to dodge) il big one e per entrambi arriva una top10, anzi per Casey è la prima top5 in carriera.

Storie come quella di Stacy Compton che ha trovato uno sponsor poche ore prima della gara e l’adesivo sul cofano è stato applicato male e dopo metà gara si stacca completamente vanificando tutto l’investimento fatto, contribuendo anche in parte alla sua sconfitta. Oppure quella di C.W. Smith, un ex poliziotto della Pennsylvania che si faceva vedere soltanto a Daytona e Talladega. Poteva conquistare una top5 ma un detrito gli bucò un radiatore a 40 giri dalla fine relegandolo al 14° posto. Oppure anche Parker che non sapeva di aver usato tutti i freni per evitare il big one e così alla prima sosta rischiò di fare un incidente in pit lane e perse molto tempo nel garage perché la Nascar lo obbligò a riparare appunto il sistema frenante, e così per lui la top5 si trasformò in un 10° posto a nove giri. Anche Purvis lottava per la top5 ma il suo motore si ruppe poco prima del radiatore di Smith; secondo Jeff la colpa di quella rottura furono i danni rimediati nel big one, quando sfiorò l’auto in volo di Sauter. Fu uno degli ultimi ad uscirne indenne o quasi prima che il varco spaziotemporale si chiudesse dietro di lui.

Per Andy Kirby quel sesto posto a due giri dal vincitore fu la prima top10 in carriera. Purtroppo fu anche l’ultima, tre mesi dopo morì in un incidente stradale mentre era in motocicletta nella sua città natale. Di quel giorno non ci sono più nemmeno il poliziotto Smith, morto per leucemia a 70 anni nel 2017, né Christian Elder che quel giorno salutò tutti dopo due giri, mancato per overdose accidentale un anno dopo un incidente che mise fine alla sua carriera a Chicago nel 2006, né Kevin Grubb, suicidatosi dopo molti problemi con la droga che gli procurarono una squalifica a vita dalla Nascar così come fu bandito per lo stesso motivo Shane Hmiel che gli fece compagnia nell’accensione della miccia del big one.

Il giorno dopo la Cup Series scese in pista e i 43 piloti incredibilmente fecero i bravi per quasi tutta la gara. Poi ad appena 25 giri dalla fine lui, il big one ed anche in questa occasione fu di proporzioni bibliche, 24 auto coinvolte. Non è record per la Cup Series, per quello si dovette aspettare l’anno seguente. La dinamica fu simile in uscita di curva2 e con un gruppo ancora composto da almeno 30 vetture (solo Newman si era già ritirato), il danno fu ridotto soltanto perché l’incidente si scatenò attorno alla decima posizione. Alla fine vinse Dale Earnhardt Jr. che poi fece il bis in autunno a completare il cappotto a Talladega, parte di una striscia di quattro vittorie di fila in Alabama.

Quella vittoria di Earnhardt nell’ottobre del 2002 arrivò al termine di una gara senza caution, 188 giri filati privi di un qualsiasi incidente, men che meno un big one, 500 miglia completate in appena 2h43′ alla media di 183.665 mi/h, a pochi decimi dal record del 1997. Perché Talladega, come la vita, è fatta così, quando aspetti l’incidente non succede nulla e invece quando tutto è calmo è lì che arriva il big one.

Qui potete rivedere integralmente la “Aaron’s 312” del 2002

Immagini: Getty Images; Associated Press; screenshot da youtube.com (diritti TV di Nascar e Fox)

Fonti: racing-reference.info; en.wikipedia.org; espn.com; the-fastlane.co.uk


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