NASCAR | Dover 1984: il “tradimento” di Richard Petty

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Tempo di lettura: 18 minuti
di Gabriele Dri @NascarLiveITA
2 Maggio 2020 - 15:00
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La carriera di Richard Petty è stata eterna, abbraccia ben cinque decadi, 35 anni complessivi, 1184 gare a cui bisogna aggiungere soltanto una DNS e cinque DNQ. Secondo molti però è durata troppo. Infatti fra il settimo e ultimo titolo conquistato nel 1979 ed il giorno del ritiro nel 1992 ci sono ben 13 stagioni, le prime in cui la caccia all’ottavo campionato andò persa (quarto nel 1980 e 1983, quinto nel 1982), ma a risaltare nel tabellino di “The King” sono anche le ultime otto stagioni senza successi, le ultime quattro senza nemmeno una top5. Richard però malgrado l’età avanzante continuava a divertirsi in macchina, in fondo è stato l’unico suo lavoro nella vita da quando aveva 20 anni. L’unico suo impiego ulteriore da quando suo papà Lee ha lasciato sempre più le redini del team di famiglia è stato appunto quello di gestire la squadra. Poi ad un certo punto tutto cominciò ad andare a rotoli.

L’addio al team di famiglia

Al trionfale 1979 seguì un 1980 comunque discreto con due successi (North Wilkesboro e Nashville) ed un quarto posto finale in campionato dietro alla sorpresa Dale Earnhardt, Cale Yarborough e Benny Parsons. Poi però durante l’inverno ci fu il cambio di regolamenti ed i transatlantici da 115″ di passo andarono in pensione e furono sostituiti da modelli più moderni da 110″. Negli ultimi anni Petty aveva guidato vetture della General Motors (Oldsmobile e soprattutto Chevrolet), ma voleva tornare al gruppo Chrysler per cui aveva corso dal 1959 a metà 1978 tranne che nella guerra aerodinamica del 1969 in cui passò alla Ford.

Tutto era pronto e per Richard fu preparata una Dodge Mirada che alla vista era spettacolare. La notizia fu accolta talmente bene dai suoi fedelissimi che al test di Daytona del 17 gennaio si presentarono addirittura 15’000 tifosi. Il risultato però fu a dir poco deludente. La vettura era addirittura 8 mi/h più lenta di quelle GM e Ford. Troppo distacco da recuperare in nemmeno un mese e così dopo il debutto di Riverside l’11/1 con una Chevrolet, Petty fu costretto a rimanere in casa GM e utilizzò per il resto del 1981 una Buick Regal. Il cambio fu vincente: a Daytona all’ultima sosta il crew chief Dale Inman – cugino di Richard – decise di solo fare il pieno senza cambiare gomme e così Petty vinse la sua settima Daytona500 beffando Bobby Allison.

Effettivamente il 17 gennaio 1981 fu l’ultima volta che Richard Petty guidò una Dodge. La Mirada fu un disastro. L’auto era sì aerodinamica, ma aveva un drag elevatissimo al punto che anche il team di Junior Johnson la abbandonò in fretta. Il gruppo Chrysler si arrese presto e la Mirada fu portata in pista da team indipendenti fino al 1985, anno in cui la Dodge sparì dalla Nascar fino al ritorno del 2001

Subito dopo la vittoria Inman però annunciò che avrebbe lasciato il team. La notizia fu uno shock, sembrava impossibile che il cugino di Richard Petty, colui che lo aveva guidato in 192 delle sue 193 vittorie, abbandonasse il Petty Enterprises dopo quasi 30 anni insieme. E invece fu così, Inman andò all’Osterlund Racing il cui pilota era il campione in carica Dale Earnhardt. Purtroppo la coppia Dale-Dale non ci fu mai in pista perché Osterlund vendette il team poco dopo a Jim Stacy, Earnhardt non andò d’accordo con il nuovo proprietario e se ne andò da Richard Childress. Inman quindi debuttò al muretto a Bristol a stagione inoltrata con Joe Ruttman, poi nel 1982 portò alla vittoria il giovane Tim Richmond. Nel 1983 Inman fu chiamato dall’Hagan Racing e l’anno successivo portò Terry Labonte al trionfo, l’ottavo titolo per il crew chief più vincente della storia.

Si può dire che quella Daytona500 del 1981 fu l’ultima grande recita del Petty Enterprises. Sì, Richard vinse altre due gare in quella stagione ma chiuse il campionato all’ottavo posto, il piazzamento più basso dal 1965 quando disputò meno di un terzo delle gare in guerra contro la Nascar dopo che il famigerato motore Hemi fu bandito. Gran parte di quella delusione fu determinata dal fatto che la Buick Regal era sì veloce a Daytona, ma sulle altre piste era quasi inguidabile e nel complesso poco affidabile. Per il 1982 Richard rimase in casa GM passando alla Pontiac, tuttavia la Grand Prix che aveva debuttato l’anno precedente era ancora un’auto giovane ed i risultati furono ancora peggiori al punto che Petty rimase a secco di vittorie come nel 1978 quando infatti prese la decisione di lasciare la Dodge. Stavolta però Richard non cambiò vettura ed ebbe ragione: tre le vittorie del 1983 a Rockingham, Talladega e Charlotte. Questo successo, il 198° della sua carriera, fu però ricco di polemiche, infatti gli furono trovate delle gomme previste per il lato sinistro montate invece sul lato destro della #43 e infine il motore risultò di 381.983 cm3 anziché da 358 come da regolamento. Con un motore da 6,26 litri al posto di uno da 5,86 era scontata la squalifica, tuttavia Richard, secondo molti solo perché era “The King” ma la versione reale è perché la vettura di Waltrip (2°) non fu controllata in tempo in quanto aveva già lasciato il circuito durante le quattro estenuanti ore di controlli tecnici, se la cavò con una multa da 35’000$ (90’000$ al cambio odierno, quindi una delle ammende più salate della storia) ed una penalizzazione di 104 punti che non cambiarono comunque l’esito finale del campionato chiuso al quarto posto. Ma tutta questa serie di problemi indussero Petty ad un cambio epocale.

Il 1984

Alla fine del 1983 Richard sentiva che era necessario un passo di lato. Inman aveva ricominciato a vincere con Labonte, il team stava soffrendo una concorrenza sempre più organizzata, lui stava pagando gli anni (45) che avanzavano e la figuraccia di Charlotte era in copertina. Ma a tutto questo si aggiunse un altro dettaglio. A partire dal 1979 infatti il team era tornato ad allargarsi fino ad avere di nuovo due vetture a tempo pieno dal 1981. E il secondo pilota del team sulla rinata vettura #42 (lo stesso numero di Lee Petty, il fondatore della scuderia) era suo figlio Kyle. Malgrado avesse debuttato tardi in macchina su ordine di Richard, il giovane erede vinse subito al debutto a Daytona nella ARCA Series nel 1979 e da lì il percorso fu in discesa. Kyle concluse le sue prime stagioni nella top15.

Il nome Petty interessava ed il giovane un po’ scanzonato attrasse le attenzioni prima della UNO (sì, proprio il gioco di carte) e poi della catena 7-Eleven, fatto che gli fece anche cambiare numero dal #42 al #7. Richard capiva che ormai era una presenza ingombrante e quindi decise di uscire dalla squadra lasciando tutte le risorse a disposizione di Kyle. Il giovane dunque rimase nel team di famiglia mentre il padre cercò un’altra scuderia. Già, però sentire “Petty che corre per…” sarebbe stato al limite della bestemmia, soprattutto se il nuovo titolare fosse stato uno dei suoi avversari storici e quindi Richard accettò la proposta di un giovane 40enne imprenditore discografico, politico e appassionato di motorsport californiano. Il suo nome era (ed è) Mike Curb, fondatore della Curb Records e molto altro.

Curb era un appassionato di motorsport fin dagli anni ’70, quando nel suo stato natale divenne amico del promoter J.C. Agajanian. Mike sponsorizzò così le prime vetture fino all’incontro a Riverside nel 1979, dove era stato nominato grand marshal della gara della Cup Series in quanto vicegovernatore della California, con Bill France Jr. In quella occasione il grande burattinaio Bill France gli disse che per il 1980 il team di Rod Osterlund sarebbe stato in serie difficoltà economiche, infatti le buone prestazioni del giovane Dale Earnhardt non erano state sufficienti ad attrarre investitori. E così nel 1980 Mike Curb e la Curb Records divennero sponsor della vettura #2 che Earnhardt portò come detto al titolo. Durante l’anno, malgrado la possibilità, Mike non rilevò il team da Osterlund e quindi uscì di scena fino alla fine del 1983 e alla proposta fatta a “The King”.

Dale Earnhardt e Mike Curb a fianco della vettura #2 che il non ancora Intimidator portò a sorpresa ben 5 volte in victory lane e poi alla conquista del titolo 1980 della Cup Series

Nacque così il Curb Racing, in sintesi un Petty Enterprises senza l’officina di Level Cross dove Petty era nato e cresciuto. La vettura era sempre una Pontiac Grand Prix color “blue Petty” e rossa #43 e sponsorizzata STP. La sede del team? Kannapolis, NC ovvero il paese natale di Dale Earnhardt. A posteriori un’altra eresia. Grazie al crew chief Buddy Parrott, già vincente con Darrell Waltrip, l’annata iniziò bene sulla scia dei buoni risultati della fine del 1983. Dopo il ritiro di Daytona arrivarono ben sei top10 nelle prime dieci gare con migliori piazzamenti i due quarti posti di Rockingham ed Atlanta, anche se il team soffriva ancora in qualifica una cronica mancanza di potenza che – come vedremo più tardi – sarà un momento cruciale del suo futuro con il Curb Racing.

Vittoria n°199 o 200?

E’ il 20 maggio 1984 e siamo al Dover Downs International Speedway, così come veniva chiamato allora l’ovale del Delaware. Una delle piste da 1 miglio più veloci al mondo, allora Dover era pavimentata in asfalto e non in cemento come oggi, ma soprattutto aveva gare ancora sulla distanza di 500 miglia, una delle prove più massacranti della stagione. Per il Curb Racing la situazione in qualifica è la migliore della stagione, evidentemente l’allora giovane motorista – ma ora Hall of Famer – Robert Yates ha tirato fuori qualcosa di più e la #43 si è qualificata al quinto posto. In pole c’è Ricky Rudd davanti a Bill Elliott, Harry Gant e Terry Labonte, guidato al muretto da Dale Inman.

Dopo un inizio di gara in sesta posizione dietro anche a Darrell Waltrip, Petty avanza pian piano approfittando delle diverse strategie e dei problemi di Rudd e si porta terzo dietro ad Elliott mentre Gant emerge sempre di più come favorito della corsa passando in testa al giro 37. Dopo un paio di caution, una con Allison in testacoda che si appoggia al muro, inizia una fase di green lunga addirittura 260 giri in cui Gant mantiene saldo il comando lasciando però comunque spazio a Elliott e Petty per 40 giri a testa. Gant – che fuma sempre di più da inizio gara – cede la prima posizione a Bill al giro 366 e pian piano rallenta fino al ritiro al giro 392 a causa di un problema alla coppa dell’olio.

A poco più di 100 giri dalla fine rimangono dunque solo Elliott e Petty a contendersi la vittoria, ma i periodi in testa alla gara di Bill si fanno sempre più brevi. La fase finale della corsa viene divisa in pratica in tre sprint di una ventina di giri e alla ripartenza del giro 453 in testa c’è Elliott davanti a Petty con Tim Richmond unico con loro a pieni giri. La #43 prende la scia della #9, si infila all’interno in curva4 e sul traguardo passa in prima posizione. Da quel momento in poi “The King”, malgrado un’altra caution per la vettura di Ulrich ferma in pista a poco meno di 30 giri dalla fine, non si guarderà più indietro e nessuno lo potrà più impensierire. Sul traguardo il vantaggio sul secondo, Tim Richmond, sarà di 4″ mentre Terry Labonte e Bill Elliott – sfortunato nel timing dell’ultima caution in quanto aveva appena fatto la sua sosta – sono più staccati. Per Richard Petty è la 199esima vittoria, la prima nella sua lunghissima carriera in Nascar iniziata nel 1959 ottenuta con una vettura non iscritta dalla sua famiglia.

Quando si calmano le acque, sorge fra i grandi storici un dubbio che genera polemiche ancora oggi: quella di Dover è la vittoria n°199 come dicono tutti oppure la 200? Ed il casus belli è la “Myers Brothers 250” del 1971 disputatasi al mitico Bowman Gray Stadium. Dal 1968 al 1972 la Nascar infatti organizzò la Grand American Series, una categoria esclusivamente per pony car e che quindi è fra le progenitrici della attuale Xfinity Series. Nel 1971 però arriva la crisi economica e gli iscritti calano notevolmente, al punto che la Nascar decide di organizzare delle combined races con auto sia della Cup Series che della Grand American per aumentare il numero di vetture al via. E in tre di queste occasioni le pony car battono a sorpresa le più potenti vetture della Cup Series. Quella che ci interessa è appunto quella del Bowman Gray Stadium in cui Bobby Allison batte Richard Petty. Al di là della discussione se la vittoria di Allison valga anche per la Cup Series (la risposta è no, anche se controversa), per Richard la vittoria “di classe” non venne contata negli almanacchi della Cup Series. Allora era corretto così, ma secondo le regole attuali della Nascar invece sarebbe da fare e quella di Dover a posteriori sarebbe stata la sua 200esima vittoria nella categoria maggiore.

La consacrazione della cifra tonda arrivò invece meno di due mesi più tardi a Daytona. Nel mezzo di quello che sembra (e per qualcuno malignamente lo fu) il copione di un film, Richard Petty vinse la sua 200esima e ultima gara in carriera battendo alla caution finale di un muso Cale Yarborough; fra gli spettatori anche il presidente Reagan – e da qui la teoria del complotto – in visita elettorale al circuito, che diede il comando di accendere i motori dall’Air Force One e poi seguì la gara dalla tribuna stampa.


Ned Jarrett sorride col microfono in mano ascoltando Richard Petty parlare con il Presidente Ronald Reagan. A destra il proprietario della vettura vincente Mike Curb

Il ritorno a casa

Come detto il team soffriva una cronica mancanza di potenza. In seguito all’addio di Robert Yates come motorista, tornato esclusivamente al DiGard Racing dopo un po’ di screzi fra Petty e Bobby Allison, pilota appunto del DiGard, il Curb Racing dovette cercare un altro specialista. E la persona con cui strinsero un accordo fu niente meno che Dan Gurney, il leggendario pilota degli anni ’60 vincente in F1, monoposto USA e Nascar. La fama però finiva lì, infatti Dan non aveva mai costruito motori per la Nascar e il fatto che la sede fosse in California complicò tutto. I risultati nel 1985 furono ovviamente disastrosi, al punto che Petty in quella stagione ottenne soltanto una top5, un terzo posto a Richmond, e chiuse il campionato al 14° posto. 12 furono i ritiri in 28 gare, sei rotture generiche del motore (ma si dice che furono molte di più quelle prima della bandiera verde), due ulteriori per una valvola saltata, uno a testa per frizione e trasmissione e soltanto due incidenti. La lentezza fu sottolineata anche dal fatto che Petty terminò una corsa a pieni giri soltanto in tre occasioni, a Richmond ed in entrambe le tappe a Riverside.

Il punto più basso arrivò però attorno a metà stagione. I dubbi di Petty riguardo al motore si fecero così forti che decise di chiamare i suoi vecchi meccanici del Petty Enterprises per far realizzare loro un propulsore. Il prodotto finito e pagato personalmente da “The King” aveva più cavalli di quello di Gurney con cui invece era costretto a correre. Ovviamente il confronto risultante fra Petty e Curb non fu nei più amichevoli. Richard fu bellamente ignorato dal giovane proprietario della scuderia e di lì a poco Petty decise di tornare a casa dopo appena due stagioni.

Intanto in quel 1985 l’officina del Petty Enterprises a Level Cross stava prendendo polvere. Infatti Kyle aveva deciso di lasciare il team di famiglia attratto dalla proposta del Wood Brothers portandosi con sé anche lo sponsor 7-Eleven. Un doppio al cuore dei tifosi più puri: i fratelli Wood che hanno come pilota un Petty e al volante non della storica #21 ma della #7 dato che lo sponsor impose pure questo.

In quel 1985 il team di Level Cross formalmente fu attivo per appena quattro gare. A Daytona, Rockingham e Atlanta (rispettivamente prima, terza e quarta gara stagionale) a pilotare una inedita Ford #1 del Petty Enterprises ci fu il veterano Dick Brooks, già vincitore a Talladega nel 1973; dopo aver ottenuto tre ritiri e come miglior risultato un 20° posto, Brooks lasciò il team. La scuderia, che aveva avuto solo uno sponsor a Daytona per poi essere costretta a correre con una vettura completamente bianca, dopo aver rinunciato oltre alla seconda gara di Richmond anche a Bristol, per Darlington chiamò Morgan Shepherd, il pilota che saltava di team in team prima di trovare in corsa una sistemazione stabile per la stagione. Il motore della Ford #1 resse fino a 18 giri dal traguardo, poi si ruppe relegando Shepherd al 18° posto. Poi i soldi probabilmente finirono e il team non si presentò più in pista.

La prima vettura del Petty Enterprises dopo l’addio di Richard e Kyle Petty. Una bianca e scarna #1 con solo uno sponsor presente e nemmeno evidente. Dick Brooks riuscì a qualificarsi ma l’avventura si rivelò fallimentare

Il 1986 fu un ritorno alle origini. Richard avrebbe potuto ritirarsi, ma tornò a Level Cross dove era nato e spazzò via la polvere. La Pontiac #43 blu e rossa marchiata STP tornò ad essere schierata dal suo team di famiglia. Tornò anche Dale Inman che – dopo un anno sabbatico in seguito alla conquista del titolo – oltre al ruolo di crew chief fino alla fine del 1988 ne assunse anche uno manageriale.

Nel frattempo Mike Curb non abbandonò la Cup Series. Dopo un 1985 in cui schierò anche una seconda vettura – ovviamente la storica #42 a fianco del #43 – per Tom Sneva (DNQ a Daytona, 32° ad Atlanta), il Curb Racing nel 1986 si presentò part-time con una Pontiac guidata da Ron Bouchard, buon nono quel giorno a Dover, ma arrivarono solo due top10. Perso anche lo sponsor Valvoline, Curb si presentò nel 1987 solo in tre occasioni con tale Ed Pimm al volante; nel 1988 grazie al contributo della Sunoco ci riprovò con Pimm prima di scaricarlo per il rookie Noffsinger ma ancora una volta fu un buco nell’acqua e Mike Curb abbandonò la Cup Series. Ma da appassionato vero come è non si allontanò per tanto tempo.

Nel 1996 il Curb Racing rinacque nella attuale Xfinity Series in partnership con quello che dal 2001 divenne il suo compagno d’affari storico in IndyCar, ovvero Cary Agajanian, il figlio di J.C. che lo portò nell’ambiente negli anni ’70. L’avventura fu decisamente più soddisfacente: nel 2003 Johnny Sauter regalò a Curb l’unica vittoria della sua storia e arrivò ottavo in campionato, nel 2007 Jason Keller bissò l’ottavo posto a fine stagione. Il team ha chiuso alla fine del 2011 e da allora Mike Curb si limita a fare l’azionista del ThorSport Racing nella Truck Series, del quale risulta formalmente proprietario della vettura #98 al volante della quale ci sono stati prima Sauter, poi Rico Abreu e attualmente Grant Enfinger.

Sicuramente l’avventura in IndyCar di Mike Curb ha avuto più successo: la partnership con Cary Agajanian e l’alleanza tecnica prima con Bryan Herta e poi anche con Michael Andretti gli ha permesso di conquistare ben due Indy500, quella del 2011 con Dan Wheldon e quella del 2016 con Alexander Rossi. A questi dobbiamo aggiungere innumerevoli trionfi nelle sprint car (11 Chili Bowl vinti consecutivamente), nelle World of Outlaws e nei campionati USAC. Per chiudere la sua storia, oggi a Kannapolis dove c’era il Curb Racing c’è il “Curb Museum for Music and Motorsports”. Tra i tanti oggetti in mostra c’è una delle vetture #2 con cui Dale Earnhardt vinse il titolo nel 1980 e la #43 con cui Richard Petty vinse a Dover la 199esima gara in carriera. Solo quella perché quella di Daytona, quella del successo n°200, è in un luogo ancora più importante per la storia americana, lo Smithsonian Museum di Washington.

Mike Curb, Michael Andretti, Alexander Rossi e Bryan Herta nella classica foto di rito ai vincitori della Indy500

Quando avrebbe potuto ritirarsi Richard Petty? Al termine del 1983 quando gli stimoli sembravano finiti, oppure dopo il 1985 quando l’avventura lontano da casa finì miseramente? Dopo il 1986, la stagione in cui a Charlotte subì l’onta di dover comprare un sedile dopo aver distrutto l’unica vettura buona che aveva? O dopo il 1987 quando per un anno tornò il vecchio “The King” chiudendo il campionato all’ottavo posto? O anche alla fine del 1988 quando crollò al 22° posto o nel 1989 quando le DNQ furono addirittura quattro? Alla fine Richard prese la decisione soltanto nel 1991 ma non prima di un tour d’addio da disputarsi nel 1992.

Il simbolo di quell’ultima stagione fu la gara estiva di Daytona. Appena compiuti 55 anni Richard conquistò la prima fila (dopo aver testato molto in precedenza per prendersi anche la pole). Nessuno lo dirà mai, ma quasi sicuramente Sterling Marlin gli lasciò l’onore di passare in testa i primi cinque giri, poi Petty si eclissò definitivamente ritirandosi dopo 84 giri per l’eccessiva stanchezza derivata da una gara quasi torrida. Ma ormai per i suoi tifosi non contava questo, erano felici di aver visto un’ultima volta “The King” e la sua storica #43 davanti a tutti. In fondo in quel 1992 tutti avevano cancellato i brutti ricordi delle ultime stagioni e persino il fatto che le ultime due vittorie della sua carriera leggendaria non erano state conquistate con il Petty Enterprises.

Qui potete vedere una sintesi della “Budweiser 500” del 1984

Fonti: racing-reference.info; en.wikipedia.org; speedsport.com; richardpettyfans.proboards.com; the-dispatch.com

Immagini: Getty Images per nascar.com; racing-reference.info; speedsport.com; Getty Images per forbes.com; flickr.com (utente Chad O); mikecurb.com

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