NASCAR | “Addio, circuiti sorgenti di emozioni…”

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di Gabriele Dri @NascarLiveITA
1 Gennaio 2021 - 15:00
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Con l’ingresso nel 2021 è ufficiale l’uscita dal calendario di Chicago e Kentucky. Ripercorriamo dunque il destino di questi e altri ovali


Buon 2021 a tutti voi. Il calendario è entrato in un nuovo anno e quindi il 2020 è un ricordo del passato che tuttavia ci tormenterà ancora a lungo. La stagione scorsa è definitivamente andata in archivio e con essa anche il suo programma anomalo dovuta alle esigenze della pandemia. Torniamo però all’inverno scorso, quando il mondo era ancora in ordine e nell’orizzonte della Nascar c’erano solo tre cose, la stagione 2020 e la rivoluzione prevista per il 2021, con la vettura NextGen che avrebbe fatto il suo debutto in gara a Daytona e il nuovo contratto fra Nascar e circuiti con tanti cambiamenti possibili.

Fra tante voci alterne che vedevano sia un vero sconvolgimento che una sostanziale invarianza degli equilibri, alla fine l’annuncio è arrivato e ad essere sacrificati sono stati due ovali in Cup Series, Chicago e Kentucky. Erano passati ben 16 anni dall’ultima volta in cui si dovette salutare un circuito e quindi potete capire che in Nascar un ricambio nel genere non è consuetudine come in Formula Uno.

E allora, visto che nella storia della Nascar moderna questo non è un fatto usuale, è giusto omaggiare queste piste e anche quelle che le hanno precedute in questo infausto destino, come sono arrivate e perché sono uscite dal giro buono. Il titolo in stile manzoniano non è casuale proprio per questo, perché non si sa se la Nascar vi farà tappa di nuovo nei prossimi anni – come molti sperano – oppure se sarà un addio definitivo come tanti temono.

Kentucky (2011-2020)

10 anni, tanto è durata la relazione fra Kentucky Speedway e Cup Series. 10 anni non semplici che avrebbero potuto essere decisamente migliori se non fosse che l’ovale di Sparta forse si è adattato male alle vetture di questo decennio. Peccato, perché l’ovale del Kentucky malgrado fosse all’apparenza il classico ovale da 1.5 miglia, non era un cookie cutter. Infatti, le sue curve erano piatte – inclinate di soli 15° circa – e dunque non permettevano di andare a tavoletta come da altre parti come Charlotte, Las Vegas o Texas.

Questi 10 anni sono stati preceduti da altrettanti 10 tormentati: posata la prima pietra nel 1998, nell’estate del 2000 era pronta e venne inaugurata in successione da Truck Series (vittoria di Greg Biffle) e IndyCar (successo di Buddy Lazier) mentre nel 2001 arrivò pure la Xfinity Series e a mettere il suo nome nell’albo d’oro fu Kevin Harvick. Il proprietario Jerry Carroll però voleva di più, ovvero la Cup Series, e sull’onda della cosiddetta “Ferko Lawsuit” – che verrà approfondita più avanti – fece causa anch’egli a Nascar e ISC.

Dopo tre anni in tribunale, a gennaio del 2008 Carroll perse la causa ma a maggio ebbe la sua rivincita vendendo la pista a Bruton Smith e alla SMI, ovvero la nemica-amica della ISC. Con la pista nel giro buono l’approdo in Cup Series fu solo questione di tempo. E fu così che nel 2011 Atlanta perse la sua seconda tappa ormai senza spettatori in tribuna – che nel 2021 invece sono convinti di far ritornare – spostando la gara in Kentucky.

9 luglio 2011, una giornata storica per il Kentucky intero visto che l’ultima gara della Cup Series nello stato era datata 1954. Pochi si ricordano tuttavia della vittoria di Kyle Busch – che quando c’è da scrivere un pezzo di storia c’è sempre – bensì il fallimento dell’organizzazione, infatti nel budget di oltre 50 milioni di dollari per migliorare l’ovale e portare la capienza da 66’000 a 107’000 spettatori nessuno pensò di adeguare anche le strade di accesso. E così nel mega ingorgo sulla I-71 finirono addirittura 20’000 persone, fra le quali rischiò di esserci anche Denny Hamlin.

Nascar Kentucky 2011

In un continuo rimescolamento di gare (le gare dei Truck e della Xfinity Series diventarono prima due e poi di nuovo una per formare un triple-header di mezza estate, la IndyCar invece salutò dopo il 2011) i problemi tuttavia non mancavano. Nel 2015 la pioggia non intensa mandò a rotoli il weekend a causa della risalita capillare dal terrapieno alla superficie. E allora si decise di rifare tutto o quasi, alzando pure curva 1 e 2 da 14° di pendenza a 17° rendendo la pista asimmetrica.

Ma ormai era troppo tardi, almeno all’apparenza. L’abbrivio era stato sprecato malamente e i malumori sempre più crescenti dei tifosi nei confronti degli ovali da 1.5 miglia hanno portato ad un sacrificio importante. Ovviamente la Nascar ha cancellato dal calendario la pista sbagliata seguendo la pista economica (ed i soldi dei casinò di Las Vegas e Kansas) e non quella tecnica.

Cosa rimane di questi 10 anni in Kentucky? Le tre vittorie di Keselowski, le due consecutive di Truex, inclusa l’ultima nella storia del Furniture Row, la prima volta in cui Kurt Busch ha battuto sul traguardo il fratello Kyle, il 4-wide che ha permesso a Cole Custer di conquistare il primo successo in Cup Series, gli iconici muretti verdi, l’incredibile salvataggio di Rowdy nel 2016 ma forse più di tutto questo un dato statistico: è l’unica pista su cui Jeff Gordon non ha mai vinto in carriera e nemmeno ci è riuscito Jimmie Johnson, fatto che forse riabilita una pista snobbata da molti tifosi.

Chicago (2001-2019)

La città di Chicago ha avuto una storia tormentata con la Nascar. La vicenda nasce in occasione del boom di stock car e IndyCar a metà degli anni ’90: nel 1997 un gruppo di investitori fra cui Chip Ganassi decide di costruire un ovale da 1 miglio a Cicero, poco fuori dalla metropoli dell’Illinois. Nel 1999 la pista è pronta e denominata Chicago Motor Speedway; la pista è interessante, ha curve piatte come il simile ovale in New Hampshire ma è più “tondo” e veloce.

Inoltre come Dover è adatto anche per le corse dei cavalli, ma a noi interessano più CART e Truck Series. Qui nel 2001 nella seconda gara in carriera in Nascar un certo Kyle Busch ad appena 16 anni potrebbe già vincere ma rimane a secco di benzina a 20 giri dalla fine. Nel frattempo il mercato di Chicago fa gola. George Barr costruisce nel 1998 a Joliet il Route 66 Raceway (circuito stradale ora sparito e dragstrip) e la famiglia France, alleata per una volta con Tony George di Indy, saltano sul carro e dopo un accordo costruiscono dall’altra parte della strada il Chicagoland Speedway.

E Chicago perde così il suo ovale. La pista di Cicero, che era praticamente in centro, è costretta a lasciare tutte le gare che vengono spostate al nuovo catino a 70 km dal lungolago e a due anni dalla nascita è già defunta; verrà demolita nel 2009. La nuova pista ovviamente non può che essere un cookie cutter da 1.5 miglia, tuttavia anche questo è anomalo come il Kentucky. Il rettilineo opposto infatti è incurvato e la forma complessiva è quasi un triangolo dai lati arrotondati, poi il vento che soffia spesso su Chicago, appunto la “Windy City” d’America, rende tutto più difficile.

Dopo una costruzione molto complicata, finalmente nel 2001 l’ovale è pronto e a dare spettacolo è… la IndyCar. Tre dei quattro arrivi più ravvicinati nella storia delle monoposto USA sono qui mentre le stock car faticano un po’ a regalare emozioni. E il sogno di realizzare tribune tutte attorno alla pista sfuma in fretta, al punto che dopo l’ultima riduzione i posti disponibili erano appena 47’000. La Nascar cambia tante date e questo forse disorienta il pubblico, l’ultimo spostamento da inizio settembre in apertura di playoff a giugno è il colpo di grazia. La IndyCar anche qui nel 2011 aveva salutato tutti.

Indycar Chicago 2002 Hornish
8 settembre 2002: a Chicago Sam Hornsih Jr. batte All Unser Jr. di appena 0.0024″, il distacco più ridotto nella storia delle monoposto USA

L’epilogo è ancora più triste del caso del Kentucky. Con già mille voci circolanti, fra cui anche la vendita e demolizione della pista, la pandemia rappresenta la fine dell’avventura senza neanche un’ultima recita da mandare in scena. La distanza fra Charlotte e Chicago in un periodo in cui gli spostamenti sono molto rischiosi impone alla Nascar la cancellazione della gara ed il suo spostamento a Darlington, fatto poi confermato con il calendario 2021.

Cosa rimane di questa pista. Ricordi dei primi anni ce ne sono pochi, almeno Jeff Gordon ci ha vinto una volta, invece Jimmie Johnson – e soprattutto Chad Knaus, nato a Rockford a meno di 100 miglia da Joliet, incredibilmente no. Storico il successo di David Reutimann nel 2010 mentre Tony Stewart, Brad Keselowski e Martin Truex Jr. iniziarono qui con una vittoria in apertura dei playoff la loro cavalcata verso il titolo.

Si può dire tanto, citare anche il duello fra Alex Bowman e Kyle Larson del 2019, però sono due le parole che rimarranno scolpite nella mente di tutti e le dobbiamo a Dale Earnhardt Jr., quel giorno al vero debutto in cabina di commento: “Slide Job!”


Mai nella storia della Nascar moderna la Cup Series ha dovuto dire addio a due piste nello stesso anno. Dal 1972 ad oggi, oltre a quelle citate, sono stati sette i circuiti che non hanno più rivisto la categoria maggiore. Indicate fra parentesi sono le date in cui la Nascar vi ha fatto tappa.

Trenton (1958-1972)

Anche se il Trenton Speedway ha fatto la sua ultima apparizione in Cup Series nel primo anno della cosiddetta era moderna della Nascar, la pista del New Jersey è più da ricollegare alle origini delle stock car e non solo. Nel 1971 infatti la Cup Series ebbe il suo primo sponsor, quello delle sigarette Winston e l’anno successivo entrò in una nuova storica era riducendo le gare in calendario da 48 a 31 eliminando moltissimi short track dal programma. L’unica pista a sopravvivere per un anno in più fu appunto Trenton.

Nato nell’anno 1900 come ovale sterrato da mezzo miglio, dopo la seconda guerra mondiale la pista anziché lasciare raddoppiò passando ad 1 miglio che poi venne asfaltato nel 1957. E fu così che sulla pista del New Jersey arrivarono le monoposto della USAC e la Nascar con due gare vinte da Fireball Roberts (1958, distanza fissata incredibilmente a 500 miglia al punto che la corsa durata 5h54’56” è la quinta più lunga di sempre) e Tom Pistone (1959), poi le stock car si presero una pausa per poi tornarci nel 1967. Tutto regolare fino a questo punto all’apparenza, poi arrivò il 1969 ed una clamorosa idea.

Come si può rendere un ovale tradizionale da normale a iconico? Ci sono tanti modi, ma a Trenton scelsero la via più pazza, ovvero rendere curve 3 e 4 decisamente più grandi di 1 e 2. L’unico modo per fare ciò era inserire una piega a destra di 20° sul rettilineo opposto! E fu così che il rinnovato ovale da 1.5 miglia di Trenton assunse la caratteristica “kidney shape”, ovvero a forma di rene oppure di fagiolo.

Qualcuno potrebbe dire che a causa di questa curva a destra il Trenton Speedway non fosse un vero ovale (qualcuno sta pensando all’Outer Circuit del Bahrain?), tuttavia solo una piega da fare in pieno non toglie al circuito questo titolo. Sulla pista a fagiolo la Cup Series disputò quattro gare (più altre quattro sul layout precedente) fino appunto al 1972, quando a vincere fu Bobby Allison, tuttavia il recordman non può che essere Richard Petty con tre successi – uno sul vecchio e due sul nuovo.

La pista fu usata ancora dalle monoposto della USAC fino al 1978 anche per due gare all’anno, nel 1979 invece fece tappa la neonata CART Series però il destino era ormai segnato. Gli incassi erano sempre più bassi e la chiusura divenne inevitabile. Una gara per le Modified disputata nel giugno 1980, chiusa in anticipo per la pioggia e vinta da Geoff Bodine, fu l’ultima. I terreni furono venduti alla vicina Fiera del New Jersey che a sua volta pochi anni più tardi chiuse i battenti.

Ontario (1971-1980)

Pochi se lo ricordano, ma la prima espansione a Ovest del Mississippi della Nascar – ma non solo – non avvenne negli anni ’90 bensì negli anni ’70. Una delle prime tappe fu l’Ontario Motor Speedway che, a differenza di quanto possa far pensare il nome, non è in Canada bensì in California nella periferia di Los Angeles ad appena 40 km da un’altra pista storica, quella di Riverside. L’idea dei costruttori era semplice, fare di Ontario l’ “Indianapolis dell’Ovest” e per farlo non si impegnarono neanche un secondo, ed il genio John Hugenholtz li accontentò senza sforzo disegnando una copia carbone del catino di Indy.

In due anni la pista era pronta e inaugurata il 6 settembre 1970 con una 500 miglia USAC vinta da Jim McElreath; a consegnare il trofeo al vincitore fu invitato il governatore della California, tale Ronald Reagan che di strada ne farà. I 178’000 spettatori sembravano anche più di quanto atteso così come gli 80’000 che nel febbraio del 1971 videro A.J. Foyt – non a caso visto il layout – vincere la prima gara Nascar sulla pista.

Il primo anno fu un successo dunque, poi però andò tutto rapidamente a rotoli. Già i soli 55’000 spettatori per una storica gara mista fra Formula 1 e Formula 5000 nel marzo del 1971, tenuta su un circuito nell’infield e vinta da Jackie Stewart, non erano sufficienti per coprire i costi e anche gli eventi successivi non riuscivano a ripagare i debiti sostenuti per costruire l’ovale.

10 anni, tanto l’Ontario Motor Speedway riuscì ad andare avanti poi chiuse i battenti al termine del 1980 ed i proprietari vendettero tutto alla Chevron per realizzarci una zona residenziale. Furono nove le gare disputate dalla Nascar – si saltò il 1973 – con due successi per Foyt, Bobby Allison e Benny Parsons, ma tutti si ricordano le ultime due edizioni, due finali di stagione thrilling che incoronarono come campioni della Cup Series Richard Petty e Dale Earnhardt.

L’eredità di questo ovale fu raccolta 15 anni più tardi da Roger Penske che decise di costruire a meno di 10 km di distanza la pista di Fontana, ma anche in questo caso i fasti di un tempo sono lontani visto che la Nascar, ora proprietaria del catino, vuole trasformare lo speedway da 2 miglia in uno short track.

Texas World (1969-1981)

Una parabola simile a quella dell’Ontario Motor Speedway la ebbe il Texas World Speedway, da non confondersi con l’attuale pista di Fort Worth. Probabilmente di tutte queste piste quella di College Station, TX fu quella più condannata fin dalla posa della prima pietra, infatti il punto in cui fu realizzata, al centro del triangolo con vertici Houston, San Antonio e Dallas-Fort Worth, era troppo distante da queste metropoli e quindi attraeva poco pubblico.

Realizzato nel 1969 come una copia delle appena inaugurate 2 miglia del Michigan Speedway, seppur con le curve ancora più inclinate e quindi potenzialmente più veloce, l’ovale ospitò la prima gara della Nascar come chiusura della stagione ma la contesa fra Pearson e Petty era già chiusa e così a vincere fu Bobby Isaac che in 500 miglia diede 2 giri a tutti. L’anno dopo la gara non era già più in calendario.

E così, fra stagioni senza gare e altre con addirittura due tappe in calendario, seguire il motorsport al Texas World Speedway era praticamente impossibile. La pista chiuse persino nel 1974-75 prima di riaprire nel 1976 anche alle monoposto USAC. Alla fine in un arco di 12 anni furono otto le gare disputate dalla Nascar a College Station di cui tre vinte dal solito Richard Petty. Alla fine del 1981 un’altra chiusura dei battenti con il titolo da parte degli addetti ai lavori di pista peggiore del calendario dati gli investimenti nulli per quanto riguarda i servizi.

La pista però fu ancora usata per altri 30 anni: escluse due gare ARCA e IMSA a metà anni ’90, fu tappa fissa per i test. Nel 1993 Jeff Andretti realizzò a a 234.5 mi/h il record mondiale del giro più veloce su un circuito ad appena nove mesi dall’incidente alla Indy500 in cui si distrusse le gambe. L’ovale poi ebbe una seconda vita anche per la Cup Series, infatti dagli anni 2000 entrò in vigore una regola per cui, esclusi i test ufficiali organizzati dalla Nascar, i team non potevano provare su piste che erano in calendario.

E così il Texas World Speedway divenne una tappa privilegiata per testare in vista di gare come Michigan e Fontana ma anche Daytona e Talladega. Poi le norme divennero ancora più stringenti e le sessioni di test esclusivamente sotto l’egida della Nascar e così l’ovale di College Station perse ogni funzione. Nel 2017-18 è diventato un enorme deposito di auto trasformate in rottami dall’uragano Harvey, poi è stato definitivamente venduto per essere trasformato in una zona residenziale. I lavori stanno procedendo a rilento ma pian piano ogni traccia dell’ovale stanno scomparendo definitivamente.

Nashville Fairgrounds (1958-1984)

Il boom televisivo del 1979 portò la Nascar su un altro livello, conosciuta in tutta America e non solo nel profondo Sud e così arrivarono molti tifosi in più anche in pista. Gli ovali più grandi riuscirono a sopperire a questo ma gli short track rimanenti in calendario cominciarono a soffrire, impossibilitati a fornire più spazi a tutti. Il primo a cadere dopo 26 anni di onorato servizio e 42 gare fu il Nashville Fairgrounds Speedway.

Nato addirittura nel 1908 come ovale sterrato da 1.125 miglia, nel 1958 assunse la forma attuale di short track da mezzo miglio (con incluso uno da un quarto per le divisioni minori) dopo una accesa discussione fra organizzatori di corse per cavalli e di gare per auto e un mese dopo la sua inaugurazione la Nascar fece la sua prima tappa con una corsa da 100 miglia vinta da Joe Weatherly. L’anno successivo si scrisse già la storia: per la prima volta nella storia della Cup Series tutte le vetture al via arrivarono al traguardo; ok, erano solo 12 ma fino al 1995 non succederà più.

Mentre in Cup Series dominava sulla pista Richard Petty (sette vittorie in sette anni, nove totali in carriera), nelle “Weekly Series” arrivò un nome nuovo: il campione P.B. Cromwell decise di ritirarsi e scelse come erede un giovane che aveva visto nella non distante Owensboro, tale Darrell Waltrip. Nacque così la leggenda di Jaws che nel 1975 vincerà proprio qui la sua prima gara in Nascar.

Nel 1969 i proprietari della pista decisero di migliorare l’ovale, ingrandendolo (la lunghezza passò da 0.5 a 0.526 miglia), aumentando le tribune ma soprattutto il banking fino ad un incredibile valore di 35°, una delle più elevate in assoluto. L’esperimento durò appena tre anni, poi le velocità si dimostrarono troppo grandi – Bobby Allison nel 1972 fece la pole a oltre 116 mi/h di media – e così si dovette tornare indietro ad un più normale banking da 18°.

Mentre sull’asfalto del Fairgrounds crescevano giovani talenti come Sterling Marlin, Mike Alexander, Jimmy Means e Bobby Hamilton, fuori dalla pista cominciavano le discussioni fra organizzatori, autorità cittadine e Nascar dato che l’ovale era sempre più stretto. Alla fine non si arrivò ad un accordo e dunque la gara del 1984, vinta da Geoff Bodine che poche settimane prima aveva salvato il neonato Hendrick Motorsports dal fallimento con il successo a Martinsville, fu l’ultima per la Cup Series.

La Nascar però non abbandonò Nashville, infatti nel 1988 e 1989 arrivò la Xfinity Series e poi dal 1995 al 2000 sia quest’ultima che la Truck Series. Tutto sembrava a posto, ma ancora una volta era tutto troppo stretto e la soluzione che fu trovata fu quella di costruire un nuovo circuito più moderno fuori città: nacque così il Nashville Superspeedway da 1.33 miglia. Appena inaugurato nel 2001 si prese le due gare del Fairgrounds.

L’ovale cittadino così fu lasciato al suo destino ed i tentativi di rilancio tutti inutili. Ci provarono i proprietari di Pocono inutilmente, nel frattempo quelli di Dover abbandonarono il Superspeedway senza corse dopo il 2011 e così nel 2012 la città di Nashville fu costretta a ridare impulso al Fairgrounds, ma un’altra lotta era all’orizzonte, quella fra gestori della Fiera – da cui il nome della pista -, la municipalità e un gruppo di investitori che voleva portare una squadra della MLS in città con stadio nei pressi dell’ovale.

Lo stallo rimane ancora, nel frattempo a sostenere il Fairgrounds nel tentativo di riportare lì la Nascar c’è l’ovale di Bristol mentre quelli di Dover hanno deciso di rilanciare il Superspeedway dove arriverà persino la Cup Series quest’anno. In città invece, grazie alle vittorie dell’idolo di casa Josef Newgarden, arriverà pure la IndyCar su un circuito stradale. Sì, la città di Nashville nei prossimi anni potrebbe diventare un nuovo centro motoristico.

Riverside (1958-1988)

30 anni di vita per una pista già citata in precedenza, il Riverside International Raceway situato alla periferia di Los Angeles, un circuito stradale proposto Rudy Cleye, uno che aveva anche corso in Europa. Dopo una costruzione non semplice – quasi una costante in questa storia – la pista lunga 5.23 km nella versione estesa (nove curve) e 4.176 km in quella corta (otto curve usate soprattutto dalla Nascar) fu inaugurata nel settembre del 1957 dopo appena otto mesi di lavori.

Il primo weekend di corse dimostrò subito quanto pericolosa fosse la pista, praticamente senza barriere e come protezione dei terrapieni in sabbia. E urtando uno di questi morì John Lawrence dopo un incidente fra curva5 e 6. Il secondo weekend a novembre fu più fortunato: in una gara per vetture sport con presenti Carroll Shelby, Masten Gregory e Ken Miles, Shelby dovette dare tutto sé stesso dopo un testacoda per riprendere una Ferrari che lui stesso e Miles avevano rifiutato perché inguidabile e che un giovane sconosciuto del posto accettò di guidare. Shelby vinse alla fine ma il nome di Dan Gurney divenne noto a tutti.

Nella lunga lista di piste che la Formula Uno ha toccato negli USA c’è anche Riverside, la quale ospitò l’ultimo GP della stagione 1960, vinto da Stirling Moss davanti ad Innes Ireland e Bruce McLaren mentre il già campione Jack Brabham terminò quarto; poca fortuna per gli americani in una gara disertata da una Ferrari che guardava già al 1961: Phil Hill finì sesto, mentre Gurney ritirato dopo un quarto di gara.

I punti più cruciali della pista erano le esse che culminavano in curva6 ed il lungo e velocissimo rettilineo che conduceva all’ultima curva da 180°. Nel primo punto trovarono la morte in Nascar Billy Foster ma soprattutto a gennaio del 1964 il bicampione in carica Joe Weatherly: dopo un incidente la sua testa fu sballottata fuori dal finestrino (non aveva alcuna protezione perché aveva paura del fuoco che effettivamente pochi mesi più tardi uccise Fireball Roberts) e urtò il muro uccidendolo sul colpo.

In fondo al rettilineo i freni soffrivano ed è lì che rischiò di lasciarci la pelle A.J. Foyt mentre a bordo della incredibile Ford J-Car morì Ken Miles. Dopo questi incidenti nel 1969 fu modificata l’ultima curva, rendendola più ampia e inclinata, riducendo il carico sulla meccanica. Ma questo non impedì che un altro talento andasse perduto nello stesso punto: nel 1983 in una gara IMSA ci lasciò Rolf Stommelen.

Nonostante questo la Nascar continuò a correre sul circuito corto di Riverside per molti anni. Il sole californiano favoriva lo svolgersi di ben due gare per stagione, in origine a febbraio in apertura di stagione e a giugno e poi, quando si decise che l’inizio del campionato dovesse essere la Daytona500, in giugno e in novembre in chiusura di stagione al posto di andare a Ontario. Per questi motivi si corse ben 45 volte a Riverside. Pista amata da tutti, un vero circuito che laureava i piloti, per anni teneva gare lunghe addirittura 500 miglia. Per questo motivo la prima edizione del 1958 vinta da Eddie Gray è la quarta gara Nascar più lunga di sempre, ben 6h17′.

E’ stata inoltre il luogo delle prime vittorie in Nascar come team owner per Roger Penske (con Mark Donohue nel 1973) e Richard Childress (con Ricky Rudd nel 1983) oltre i primi successi in Cup Series di Tim Richmond (quattro trionfi), Bill Elliott, lo stesso Rudd; cinque i successi invece per Dan Gurney – cioè tutti quelli ottenuti in Nascar – di cui quattro al volante della #121 del Wood Brothers. Sempre a Riverside Ray Elder vinse con la #96W, ultimo successo in Cup Series di un numero “anomalo”.

Dal 1981 al 1987 come detto Riverside chiuse la stagione. Nel 1981 Bobby Allison vinse sì ma non riuscì a togliere il titolo a Waltrip, nel 1982 stessi duellanti e stesso esito, solo che stavolta Bobby ruppe il motore, nel 1983 sempre Allison vs Waltrip tuttavia in questa occasione i ruoli si invertirono e Bobby trionfò, nel 1984 Terry Labonte riuscì a difendersi da Gant, nel 1985 ancora Waltrip trionfò su un Elliott ormai ko.

Nel 1986 e 1987 Dale Earnhardt dominò la stagione e si arrivò a Riverside con il titolo già deciso. E anche il destino di Riverside lo era, il motivo sempre lo stesso: la necessità di ampliare la città ed un enorme lotto di terreno incompatibile con una zona residenziale. L’ultima gara fu quella del giugno del 1988 con Rusty Wallace a vincere e Ruben Garcia a schiantarsi al muro, ma uscendone indenne, a ricordare a tutti la pericolosità della pista.

Nel 1989 ormai i lavori di demolizione avevano troncato il mitico rettilineo e le corse locali si disputarono su un circuito accorciato. Nel penultimo giorno di attività ci fu l’ultima vittima, un destino infausto per una pista invece bellissima. Il suo posto in calendario venne preso da un altro stradale californiano, quello di Sonoma che – involontariamente – nel layout ricorda proprio Riverside.

North Wilkesboro (1949-1996)

Siamo giunti agli ultimi due capitoli di questa lunga storia, le due ferite che nel cuore dei tifosi bruciano ancora. E’ come dire ad un tifoso di Formula Uno che il GP a Montecarlo o Silverstone, Monza e Spa non deve più esserci perché Abu Dhabi, Sochi, Sakhir, Shanghai e Baku sono migliori in tutto e per tutto. Già, perché l’ovale di North Wilkesboro era in calendario fin dalla prima stagione. Nel 1949 nel programma infatti c’erano solo otto gare fra cui North Wilkesboro e Martinsville, la quale invece è riuscita a sopravvivere anche se ha rischiato pure lei.

North Wilkesboro, nota come la capitale del moonshining d’America, ebbe il suo circuito nel 1946 quando Enoch Staley vide una gara organizzata da Bill France Sr. e decise che anche la sua città dovesse avere una pista. Fece i conti male ed i soldi finirono prima del previsto. Per chiudere il cerchio nacque così un ovale da 5/8 di miglio (la misura più vicina ad 1 km esatto) che poteva andare anche bene per le gare, tuttavia rimase anche la caratteristica pendenza del circuito, con il rettilineo di partenza in leggera discesa e quello opposto in salita. Non sapeva di aver regalato involontariamente della magia alla pista.

La prima gara sull’ovale – ovviamente sterrato – valida per le Modified nel 1947 e promossa da France vide oltre 10’000 spettatori in tribuna, un successo enorme. Il 16 ottobre 1949 si tenne invece la tappa conclusiva della prima stagione della Cup Series, Bob Flock si portò a casa la vittoria mentre Red Byron conquistò il titolo. La pista divenne subito una delle più veloci e preferite dai piloti e l’asfaltatura del 1957 la rese ancora più rapida.

Raccontare 93 gare è praticamente impossibile così come trasmettere tutta l’aura di North Wilkesboro, però da citare sicuramente ci sono le corse del 1967, la prima in cui Darel Dieringer divenne il primo pilota a guidare flag to flag una gara di oltre 250 miglia pur rimanendo a secco nell’ultimo giro e l’altra in cui Richard Petty ottenne la storica decima vittoria consecutiva stagionale in un anno per lui epico.

Gli anni ’70 portarono anche le epiche lotte fra i giganti. Nel 1972 fra Petty e Allison ci fu quasi un demolition derby e negli anni successivi duellarono ancora in maniera ravvicinata. Epico anche il 1979: in primavera Allison vinse su tre ruote dopo che la sospensione collassò all’ultimo giro, in autunno Parsons trionfò finalmente sulla pista di casa ma in copertina ci fu anche la bandiera nera a Waltrip che sotto caution voleva vendicarsi dello stesso Allison.

Gli anni ’80 cominciavano a dimostrare i limiti dell’ovale. Enoch Staley non pensava al guadagno per reinvestire, a lui bastava che i tifosi, i veri tifosi, fossero felici e anche se erano pochi in confronto alle altre piste non importava. Per lui contava che i prezzi degli stand fossero bassi, che il costo per parcheggiare il camper fosse zero e che non ci fossero suite per i vip. E la pista gli diede ragione.

Nel 1988 Earnhardt vs Rudd, atto I: i due rischiarono un demolition derby e la Nascar per punizione li mandò in fondo al gruppo ad appena 40 giri dalla fine. E allora a scontrarsi per la vittoria all’ultimo giro furono Rusty Wallace e Geoff Bodine, con il primo vincitore. L’anno successivo Dale vs Ricky, atto II: all’ultimo giro l’attacco di Rudd andò male ed entrambi finirono in testacoda e Geoff Bodine vinse. Dale lasciò sul campo una trentina di punti e il mese successivo perse il titolo da Wallace per appena 12 lunghezze.

Nel 1990 per completare la trilogia di gare pazze ci fu pure l’errore dei cronometristi in una confusa fase con una caution nel mezzo del giro di soste sotto green. Darrell Waltrip perse una vittoria che andò invece a Brett Bodine; il grande capo Bill France sapeva che Jaws aveva vinto, ma di fronte alle rimostranze verbali di Waltrip rispose in pratica: “Lascia che il ragazzo festeggi la sua prima vittoria in carriera, tu ne hai già tante.” e Darrell accettò. Quella rimase l’unica vittoria in Cup Series per Bodine e l’ultima per la Buick.

Ma i giorni erano ormai contati. Il montepremi della gara era il più basso del calendario e molti piloti di terza fascia disertavano North Wilkesboro appunto per questo lasciando il gruppo con meno di 40 vetture. Le tribune contenevano a fatica 60’000 spettatori e la Nascar cominciava ad essere stufa. Però la pista dava ancora ragione a Staley: nel 1991 ci fu l’atto III di Earnhardt vs Rudd, nello stesso anno in autunno tutti volevano esserci per il quinto successo di fila di Harry Gant (mancato per un pelo). Nel 1994 invece show di Geoff Bodine, l’ultimo pilota nella storia della Nascar a doppiare tutti.

Alla fine tuttavia Staley dovette arrendersi davanti all’evidenza: il 1° gennaio 1996 vendette la pista a Bob Bahre, proprietario dell’ovale del New Hampshire. La prima cosa che fece Bahre? Anziché migliorare la pista strinse un’alleanza con Bruton Smith e si spartirono le gare, una andò appunto in New Hampshire ed una al neonato Texas Motor Speedway. Molti lo vissero come un tradimento, per altri invece fu la spartizione di una preda da parte di due sciacalli.

Il 1996 fu dunque l’ultimo anno a North Wilkesboro e in entrambe le occasioni a festeggiare fu Rick Hendrick, in primavera con Terry Labonte e in autunno con Jeff Gordon che vinse davanti a Dale Earnhardt. Fu una grande festa triste per i tifosi che affollarono per un’ultima volta la pista. Dopo la bandiera a scacchi rimasero ancora per ore nel circuito per assaporare quell’atmosfera che non avrebbero vissuto da nessun’altra parte.

La pista chiuse effettivamente quel giorno stesso e da allora nonostante i mille sforzi ha ospitato solo una gara per la “Pro All Stars Series” nel 2012, chiamata semplicemente “The Race”. Ancora oggi nel 2021 l’ovale sembra rimasto quello del 1996, ci sono ancora le scritte Winston in giro. Molti non lo sanno, ma nello speciale americano di Top Gear la pista su cui Jeremy Clarkson distrugge le gomme della sua Mercedes SLS AMG è proprio North Wilkesboro.

Il 2020 è l’anno della piccola rinascita di questo circuito. Se non è possibile correrci realmente, almeno che lo si possa fare virtualmente. E così il team capitanato da Dale Earnhardt Jr. e Steve Myers ha ripulito totalmente la pista dalle erbacce per permettere l’acquisizione tramite laserscanning da parte del team di iRacing. E così da questa primavera North Wilkesboro è disponibile a tutti ed è tornata a far parte di un campionato Nascar, seppur solo virtuale, 24 anni dopo.

Rockingham (1965-2004)

L’ultimo addio in Nascar per quanto riguarda la Cup Series risale a 16 anni fa quando si salutò il Rockingham Speedway (da non confondersi con l’omonimo inglese anch’esso che non ospita più gare). Nato come North Carolina Motor Speedway, l’ovale di Rockingham fu costruito in un periodo particolare, non agli albori della Nascar né nel citato boom degli anni ’70, bensì nel nel 1965. I promotori della pista si fecero aiutare da Harold Brasington che collaborò alla costruzione di Darlington e ne nacque un ovale piatto da 1 miglio.

Il 31 ottobre dello stesso anno venne inaugurato subito con una 500 miglia della Cup Series; la gara, lunga quasi 5 ore, venne vinta da Curtis Turner davanti a Cale Yarborough con la coppia che diede due giri a tutti. Dal 1966 la pista cominciò ad ospitare due corse ogni anno, una in primavera ed una in autunno fino al 2003, poi nel 2004 ci fu solo l’epilogo unico per un totale di 78 corse per la Cup Series.

Nel 1969 la pista venne modificata aggiungendo il banking in curva (fra 22 e 25°) e sui rettilinei (8°) rendendo l’ovale ancora più difficile da affrontare. Venne fuori un circuito dalla lunghezza anomala (1.017 miglia) e molto asimmetrico, con il rettilineo principale che era tutt’altro che dritto e con una curva1 difficile da prendere in modo efficace. In sintesi un’altra pista che separava i piloti normali da quelli forti.

La pista andò avanti senza problemi per 30 anni, poi la modernità degli altri ovali arrivò ad essere un problema anche per Rockingham. Nel 1995 fu venduta a Roger Penske il quale poi vendette la divisione speedways (ovvero Rockingham, Michigan, Fontana e Nazareth) a ISC/Nascar nel 1999. E fu l’inizio della fine, infatti i grandi capi puntavano a tagliare i rami secchi.

A febbraio del 2002 scoppiò la bomba: Francis Ferko di Plano, TX, azionista di minoranza di SMI, fece causa a Nascar e ISC perché secondo lui queste ultime due non avevano rispettato la promessa implicita di portare una seconda gara al Texas Motor Speedway. La causa durò due anni ma i primi effetti si ebbero già nel 2003.

A pagare dazio subito fu, in quello che divenne un enorme effetto domino, proprio Rockingham, costretta a cedere una delle sue date a Fontana. E ad essere trasferita fu la più partecipata gara di fine ottobre e rimase invece in North Carolina la fredda e più a rischio maltempo tappa di febbraio. Da questa decisione si capirono bene le intenzioni per il futuro.

L’anno successivo infatti l’ultima gara al Rockingham Motor Speedway venne trasferita anch’essa, questa volta a Phoenix. E la seconda gara in Texas? A dover cedere il passo fu addirittura Darlington e la data a doversi spostare fu addirittura quella della classica Southern500 e non la gara della primavera. Per i tifosi fu un vero e proprio colpo al cuore, un altro dopo quello di North Wilkesboro.

L’ultima gara come detto fu nel 2004 e, come gran parte delle precedenti, fu uno spettacolo con il rookie Kasey Kahne a duellare con il campione in carica Matt Kenseth per tutti gli ultimi giri. L’arrivo fu in volata e prevalse quest’ultimo per appena 0.010″. Nel cuore dei tifosi però c’è la corsa del 2001, quando ad appena otto giorni (uno in più del previsto causa pioggia) dalla morte di Dale Earnhardt a vincere fu una delle sue vetture con al volante Steve Park.

Da quel giorno del 2004 l’ovale di Rockingham ha passato diversi cicli. Dal 2005 al 2011 vive soprattutto di test per la Nascar così come il Texas World Speedway, almeno fino al cambiamento della regola sulle prove dei team. A fine 2007 la SMI mette in vendita la pista e ad acquistarla per quattro milioni di dollari è l’ex pilota e team owner Andy Hillenburg.

Il nuovo proprietario riesce a riportare in pista la ARCA Series ma soprattutto nel 2011 e nel 2012 vanno in scena due eventi incredibili con la Truck Series. In quelle due gare ci vogliono essere proprio tutti ma il posto in victory lane è solo uno e va a Kasey Kahne (beffato otto anni prima da Kenseth) e Kyle Larson. Poi le banche rivogliono i soldi prestati ad Hillenburg, Andy non ce li ha ed il Rockingham Speedway finisce all’asta.

I nuovi proprietari se lo assicurano per appena 3 milioni di dollari, ma per rimettere in sesto la pista ce ne vogliono almeno il doppio. Dopo anni di inattività nelle scorse settimane un barlume di speranza, con la gara del CARS Tour programmata per il 2021, anche se nel test degli ultimi giorni l’asfalto non era assolutamente in condizione da gara, con dei pezzi molto rovinati e che si sollevavano. Chi vivrà vedrà, ma almeno per Rockingham la volontà di tornare alle corse c’è. Nel caso qualcosa andasse storto – ancora – anche qui per fortuna c’è iRacing.


Nella storia della Cup Series sono ben 173 le piste, contando due volte i circuiti che ad esempio hanno avuto layout completamente diversi come l’ovale di Daytona e il Road Course, e altre quattro (Bristol Dirt, Circuit of the Americas, Nashville Superspeedway, Indianapolis Road Course) se ne aggiungeranno nel 2021.

Come potete capire in questi 70 anni sono più le piste che non esistono più che quelle ancora presenti in calendario e se dovessimo aggiungere quelle che hanno visto almeno una gara di Xfinity o Truck Series (un capitolo a parte lo meriterebbe l’Iowa Speedway) il numero totale andrebbe sicuramente oltre quota 200. La Nascar ha visitato quasi ogni angolo d’America e ogni volta che ha salutato una pista sicuramente è stato un giorno triste per molte persone.

Tornando all’incipit manzoniano, piloti e soprattutto tifosi, lasciando la pista dopo una gara sapendo che quasi sicuramente sarebbe stata l’ultima lì e non ci sarebbe stata un’altra occasione l’anno successivo, allora avrebbero potuto recitare così parafrasando appunto “I Promessi Sposi”, di cui in questo 2021 ricorrono i 200 anni dalla stesura delle prime parole:

“Addio, circuiti sorgenti di emozioni, tribune elevate al cielo e spotter stand ineguali noti a chi è cresciuto fra di voi, e impressi nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari; motori, de’ quali si distingue il rombo, come il suono delle voci domestiche; spettatori sparsi e coloreggianti sul pendio, come branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana!

Alla fantasia di quello stesso che se ne parte volontariamente, tratto dalla speranza di fare altrove fortuna, si disabbelliscono, in quel momento, i sogni della ricchezza; egli si maraviglia d’essersi potuto risolvere, e tornerebbe allora indietro, se non pensasse che, un giorno, tornerà dovizioso.

Quanto più si avanza nelle pianure del Midwest, il suo occhio si ritira, disgustato e stanco, da quell’ampiezza uniforme; l’aria gli par gravosa e morta; s’inoltra mesto e disattento nelle nuove aree residenziali silenziose; le case aggiunte a case, le strade che sboccano nelle strade, pare che gli levino il respiro; e davanti ai superspeedway ammirati dallo straniero, pensa, con desiderio inquieto, al circuito del suo paese, alla tribuna a cui ha già messo gli occhi addosso, da gran tempo, e di cui comprerà il biglietto, tornando ricco a’ casa.”


Immagini: AP per jalopnik.com; kentucky.com; indycar.com

Fonti: en.wikipedia.org; racing-reference.info; youtube.com; racingcircuits.info; jalopnik.com

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