NASCAR | 30 anni di “Giorni di tuono”

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Tempo di lettura: 19 minuti
di Gabriele Dri @NascarLiveITA
27 Giugno 2020 - 10:30
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Il 27 giugno di 30 anni fa usciva nelle sale cinematografiche americane “Days of Thunder”, tradotto alla lettera qualche mese più in Italia con il nome di “Giorni di Tuono”. Per molti è un film mediocre, per altri uno dei meno riusciti del compianto Tony Scott, fratello del più noto Ridley, secondo molti una copia riadattata di “Top Gun”, uscito quattro anni prima con le stesse firme principali, però a volte la qualità di un film non è pari alla fama e all’accoglienza ricevuta da coloro che lo hanno guardato. Di film ambientati in parte o totalmente della Nascar ce ne sono più di quanti ne credessi, però qualcuno di essi ha valicato l’Oceano ed è diventato famoso in tutto il mondo. E soprattutto è entrato nel cuore della gente.

30 anni fa “Giorni di Tuono” è diventato uno di questi perché le emozioni regalate a chi lo guardò allora sono presenti ancora oggi. Innumerevoli sono le persone che guardando quel film si sono appassionate alla Nascar pur non essendo americane e da allora hanno fatto di tutto per seguirla persino in un’epoca in cui internet non era così veloce come oggi e prima di ricevere notizie fresche passavano ore. E questo era parte del piano della Nascar stessa.

Siamo alla fine degli anni ’80 e il fondatore della Nascar Bill France Sr. ha ormai lasciato le redini dell’azienda al figlio Bill Jr. “Big Bill” ha mantenuto un ufficio nella sede di Daytona Beach ma l’arredamento beige tendente al marrone degli anni ’70 è andato fuori moda, le innumerevoli sigarette e sigari sono stati spenti. L’ultimo atto pratico che vede la sua firma è la fondazione della “International Motorsports Hall of Fame” a Talladega. Nella prima classe di personalità a vedere il proprio nome onorato il 25 luglio 1990, dunque un mese dopo l’uscita di “Days of Thunder”, ci sono uomini di ogni estrazione, da Lee Petty a Jack Brabham, da Junior Johnson a Juan Manuel Fangio, da Buck Baker a Malcolm Campbell e molti altri fra cui ovviamente Bill France Sr. Sarà in pratica la sua ultima apparizione pubblica, poi si ritirerà nella sua casa di Ormond Beach, a poche miglia di Daytona. Morirà due anni più tardi a causa della malattia di Alzheimer la mattina della gara di Sonoma.

Come detto da anni al timone c’è il figlio Bill Jr. ed il desiderio di espandersi ed essere qualcosa di più di una categoria amata solo dai tifosi degli stati del Sud probabilmente non inizia con la già raccontata costruzione del Texas Motor Speedway o dell’ovale di Fontana, bensì invece oltre cinque anni prima proprio con “Days of Thunder”, destinato ovviamente alle sale cinematografiche di tutta America e non solo.

L’idea per un film a Cruise venne addirittura quattro anni prima, nella primavera del 1986. Tom era in Florida insieme a Paul Newman, un altro che di auto da corsa se intendeva parecchio, dopo le riprese de “Il colore dei soldi” ed i due fecero tappa a Daytona. Cruise e Newman scesero anche in pista e la sera stessa andarono pure a cena con Rick Hendrick, un giovane team owner che appena due anni prima aveva debuttato in Cup Series, il suo pilota Geoff Bodine, colui che aveva salvato la squadra dal fallimento a Martinsville in quello stesso 1984, e qualche meccanico. Tom lasciò Daytona innamorato della Nascar e si decise che avrebbe dovuto farci un film al riguardo. Poi altri impegni lavorativi lo portarono via verso ruoli più importanti, ma alla fine tornò su quella idea, prese pure la penna e iniziò a scrivere una sceneggiatura.

Già, il film deve avere una trama. E qui vengono fuori i nodi al pettine. Tom Cruise viene scelto in quanto sulla cresta dell’onda. Arriva dai successi di “Nato il quattro luglio”, di “Rain Man” e appunto di “Il colore dei soldi”, ma soprattutto si riunisce a Tony Scott che lo lanciò quattro anni prima in “Top Gun”. E le trame di molti di questi film si somigliano: un giovane inesperto sbarca in un mondo a lui sconosciuto e viene affiancato da una guida esperta, ma a rovinare la sua crescita ci sono incidenti di percorso, rivalità pericolose e una donna della quale innamorarsi follemente per poi allontanarsi per incomprensioni varie e alla fine riunirsi non prima di aver fatto ordine nella propria mente e alla fine vincere contro tutto e contro tutti. In “Top Gun” andava bene, ne “Il colore dei soldi” pure, alla terza recita simile in “Giorni di Tuono” i critici cominciano a storcere il naso e a chiedere al giovane Tom Cruise qualcosa di più, qualcosa già provato in “Rain Man” e “Nato il quattro luglio”.

E infatti i nodi vengono al pettine già durante le riprese a cavallo fra 1989 e 1990. Sono numerose infatti le dichiarazioni che riportano molta confusione sul set perché i dettagli della sceneggiatura non convincevano del tutto né Scott né Cruise e quindi gli altri attori non sapevano bene cosa fare, le battute da dire oppure il contesto della scena. Un giorno, nel mezzo di questa confusione, Cruise fu costretto a leggere le battute da un foglietto messo sul cruscotto, già perché Cruise fu al volante in molte scene reali, finché andò a sbattere e così si cambiò strategia passando al suggeritore in cuffia nel casco.

Alla fine le riprese andarono in porto anche grazie al grande coinvolgimento della Nascar e soprattutto del Team Hendrick, il quale aveva messo a disposizione le vetture per il film. La collaborazione da parte di entrambi era stata straordinaria. A Phoenix nel novembre del 1989, nella penultima gara stagionale e a campionato ancora da decidere, il Team Hendrick schierò ben cinque vetture, le tre tradizionali per Geoff Bodine, Darrell Waltrip e Ken Schrader e due in più, la #46 gialla e verde sponsorizzata City Chevy guidata da Greg Sacks/Cole Trickle e la nera #51 a marchio Exxon per Bobby Hamilton/Rowdy Burns. Sì, avete capito bene, per le riprese del film si usarono vetture vere con piloti veri durante una gara vera. E queste due auto si dovettero qualificare veramente per la gara (e infatti la #18 di Tommy Ellis/Russ Wheeler non si qualificò) e partirono per essere filmate nel gruppo. Hamilton si qualificò addirittura quinto, trascorse cinque giri in testa prima che i produttori del film dicessero alla Nascar di mostrare a Bobby la bandiera nera perché stava andando troppo forte per le necessità del film; alla fine Hamilton e Sacks si ritirarono attorno a metà gara.

A Daytona nel febbraio del 1990 invece le auto aggiuntive corsero ma fuori classifica. Sacks guidò nel “Busch Clash” arrivando virtualmente secondo dietro al compagno di squadra Schrader mentre nella Daytona500 erano presenti Hamilton ed Ellis. Come compenso, in quanto “comparse” del film, alle altre 42 auto in gara la produzione diede 2400$ ciascuna. Infine in aprile a Darlington ci fu un ultimo round di riprese con Hut Stricklin sulla #51 e Sacks sulla #46 questa volta di nuovo nella competizione anche se si ritirarono dopo qualche decina di giri.

Nonostante questa collaborazione le riprese sforarono di tre mesi (e il budget necessario raddoppiò da 35 a 70 milioni di dollari, riducendo drasticamente i non stratosferici guadagni) fino ai primi di maggio, al punto che l’uscita fu posticipata dal Memorial Day al 27 giugno e così anziché sfidarsi al botteghino contro il terzo capitolo di “Ritorno al futuro”, “Giorni di tuono” finì contro “Papà è un fantasma” con Bill Cosby. Tanti furono pure i tagli in post produzione, perché il budget dipendeva anche da quanto gli sponsor presenti sulle reali vetture della Cup Series pagavano e quindi in fase di montaggio poi bisognava fare le proporzioni “più soldi = più presenza sullo schermo”. Alla fine però il risultato fu buono, dato che – almeno nella storia – di buchi clamorosi non ce ne sono, a differenza delle dinamiche della gara.

Già, perché per gli appassionati veri che guardano o riguardano il film le parti riguardanti la gara sono piene di inesattezze: nella scena iniziale della bandiera verde a Daytona, si vede chiaramente un muretto interno al posto dell’ampio prato dell’infield, nella gara di Darlington arriva la caution a due giri dalla fine, la sosta di Cole Trickle è infinita per la pistola che si inceppa. poi c’è una ripartenza ad un solo giro dalla fine con la #46 che pare essere in terza posizione ma nella ripresa non è assolutamente lì, inoltre i tempi assolutamente non coincidono, come se Tony Scott avesse inventato l’overtime in Cup Series 14 anni prima della sua reale introduzione. Per non parlare dei numerosi contatti che provocano giusto un paio di forature, in un epoca in cui il corpo a corpo – specialmente sugli superspeedway – era ancora una rarità. La scena più credibile è forse quella finale, quando Trickle batte per un pelo la pace car accelerando a tutta velocità in uscita dalla pit lane, al punto che è stata ripresa 15 anni dopo pure in Cars.

Discutibile, ma comprensibile vista la differenza di pubblico, pure il doppiaggio in italiano. Il celebre “Rubbin’ is racing” è stato reso in un non esaustivo “Spingere è correre”, visto che in Nascar “rubbin'” è molto più che spingere, e infatti Cole e Rowdy vanno ben oltre a qualche colpetto al paraurti. Però ad essere cambiata è anche un’altra battuta celebre, quella nella prima gara assoluta di Trickle a Phoenix, che in originale era:

“Harry: While we’re still under a caution, go out and hit the pace car.

Cole: Hit the pace car? What for?

Harry: You hit every other damn thing out there. I want you to be perfect.”

che in italiano è stato reso in sintesi con “Colpisci il leader”, dato che in Formula Uno non esisteva il concetto di safety car visto che è stata introdotta ufficialmente solo nel 1993. Anche in questo caso sono dettagli minori che si apprezzano soltanto vedendo la versione originale. Ma qualche appunto venne fatto anche in madrepatria.

Alla prima del film le critiche più dure, seppur comprensive per il mondo del cinema, forse arrivarono dall’interno. E portano la firma di Alan Kulwicki (nda, l’articolo di 30 anni fa uscito su Repubblica contiene degli errori clamorosi, come il fatto che Cruise abbia girato a Daytona in 32.53″ ovvero 276 mi/h di media contro le 166 riportate e che Alan sia un ex pilota diventato critico cinematografico!), il pilota-ingegnere-team owner-genio, e non necessariamente in quest’ordine, che in quel 1990 divenne una delle star della Cup Series prima del titolo vinto a sorpresa nel 1992:

“Innanzitutto il modo in cui costruiamo le macchine è molto più professionale di quello che si vede in “Days of Thunder”. Nel film Duvall costruisce per Cruise una macchina nel fienile della sua fattoria, con il sole che scende dalle travi rotte nel soffitto… noi lavoriamo in officine altamente meccanizzate e tecniche. E poi nessuno oserebbe giocare all’autoscontro durante una corsa, come fanno Cole e Rowdy nel film. Sbatti una volta contro il muro, e sei fuori, dovresti mettere un nuovo treno di gomme ad ogni giro di pista! Detto questo, però, il film riesce nel dare al pubblico un’idea dell’eccitazione che c’è in una corsa, e se ha successo forse se ne faranno degli altri, in cui la vera vita dei corridori, il loro dipendere dagli sponsor, il vero significato di cosa significa andare a quelle velocità e sfidare la morte ad ogni corsa, verrà analizzato più a fondo. Ma per il momento, questo film è già un buon inizio.”

Malgrado qualche inesattezza, come quelle riportate qui sopra, numerosi sono anche gli omaggi alla storia della Nascar. Cole Trickle, portato in scena da Tom Cruise, è modellato sulla storia di Tim Richmond, un altro giovane forte e affascinante che proveniva dalle monoposto (nono alla Indy500 del 1980) e che fece faville in Cup Series proprio col Team Hendrick prima di morire nell’estate del 1989 a causa dell’AIDS. Il nome era ovviamente preso da Dick Trickle, il re degli short track del Wisconsin che per tre decenni è stato parte della storia della Nascar (36 top10 in 303 gare) con il suo stile da fuorilegge che rimandava tutti alle origini. Memorabile fu una domenica quando durante una caution la on board camera lo riprese mentre si accendeva una sigaretta con l’accendisigari (era o no una stock car?) e se la infilò in bocca tutta storta, ma si disse che aveva fatto anche un foro col trapano nella mentoniera del casco integrale per fumare meglio a mo’ di moderno Ray-Ban Shooter, quelli per intenderci di Antonello Venditti.

Il crew chief Harry Hogge (Robert Duvall) era invece basato su Harry Hyde, uno da 56 vittorie ed il titolo conquistato nel 1970 con Bobby Isaac, un altro pilota altrettanto strano, decisamente diverso dal canone dei Petty e Pearson del tempo, taciturno, isolato dal resto del gruppo. Alla fine della carriera Hyde lavorò proprio con Tim Richmond al Team Hendrick e lo portò a sette vittorie e al terzo posto in campionato nel 1986, l’ultima stagione completa che “Hollywood” riuscì a disputare.

E poi Rowdy Burns (Michael Rooker) con la sua vettura nera #51, ovviamente modellata sulla Chevy #3 di “The Intimidator”, quella di Dale Earnhardt. E direttamente da lui e dalla sua faida con Geoff Bodine arriva la parte del film in cui Cole e Rowdy vengono ripresi da Big John, copia carbone di Bill France Sr. L’incontro fra il grande capo, i team owner e i piloti andò esattamente come replicato sulla pellicola visto che fu presente Rick Hendrick, che nel film divenne Tim Daland, il concessionario evolutosi in proprietario di un team; a questa scena fu aggiunto il siparietto della gara con le auto a noleggio, questo invece presente nelle leggende metropolitane delle cose fatte da molti piloti in giro per il mondo, primi fra tutti Joe Weatherly (campione nel 1962-63) e Curtis Turner. Infine l’ultimo rivale Russ Wheeler (Cary Elwes) è una copia di Rusty Wallace, il quale era reduce da tante battaglie con Dale Earnhardt ma anche del titolo vinto nel 1989 e che fece anche un cameo nel film con Richard Petty, Neil Bonnett ed Harry Gant che finisce in testacoda nel finale del film nel 3-wide con Trickle e Wheeler.

Non voglio raccontare tutto il film, anche perché sarebbe piuttosto pedante, ma bisogna passare obbligatoriamente da alcune tappe, perché in fondo se le si analizza bene viene fuori parte dell’essenza della Nascar. Nella scena iniziale di Daytona, oltre a quattro bandiere sudiste nei primi 50″ di film (che con questo dimostra tutta la sua età), si capisce la vita nel garage, chi sia il due volte campione Rowdy Burns, che Richard Petty è ancora il fulcro malgrado finisca fuori pista dopo poco (nella realtà della Daytona500 del 1990 al giro 26 e concluderà 34°).

Poi si capisce chi siano Harry Hogge e Cole Trickle, il giovane talentuoso della California (“scandalo, uno yankee in Nascar!” la prima reazione seguita da un più accomodante “Uno della California non è yankee. Non è niente in verità” che chiude la questione. Erano lontani i tempi di Gordon, Johnson e Harvick) che però di stock car ci capisce poco ma non vuole nemmeno stare a sentire. E così arrivano gli incidenti di Phoenix (che a seconda delle inquadrature ha il banking suo oppure quello più elevato di Daytona) con il già citato “Hit the pace car”, di Bristol, di Dover – dove il disastro avviene in pit lane – e infine di Rockingham dove c’è il nuovo scontro con Rowdy ma anche la rissa col team intento a mangiarsi un gelato (altra storia vera del Team Hendrick, alle prese alla Southern500 del 1987 con il veterano Benny Parsons in qualità di sostituto del malato Tim Richmond, ma ovviamente in questo caso non si arrivò alle mani).

Poi arriva ovviamente la svolta del film, ovvero il discorso fra Harry e Cole che decide di ascoltare e non più fare di testa sua capendo che “Sono le gomme che ti fanno vincere la gara”. E infatti poi arriva Darlington con il già citato montaggio incomprensibile, ma anche la prima vittoria di Cole che sorpassa all’esterno Rowdy; ovviamente c’è tempo anche per un’altra mezza rissa con la squadra prima che il team owner calmi tutti annunciando il nuovo sponsor. Arrivano dunque quattro vittorie in cinque gare (non raccontate nel film) prima della gara estiva di Daytona, quella dell’incidente con Rowdy in uno scenario che da allora è definito proprio “alla Giorni di Tuono” e che manderà entrambi in ospedale, con Burns quello messo peggio dei due e costretto in sintesi al ritiro definitivo tra mille diffidenze nei confronti dei medici.

Mentre Cole è fuori gioco per la commozione cerebrale riportata, sulla #46 sale il giovane Russ Wheeler che all’inizio sembra mite ma che poi diventa un rivale interno degno di Burns, infatti quando Trickle torna il team owner decide di portare in pista una vettura a testa, la #18 per Russ e la #46 per Cole. Ed Harry, da buon crew chief vecchio stile, si arrabbia con lui, prevedendo grossi guai derivanti dal fatto di avere due guai nello stesso pollaio (e chissà cosa penserebbe vedendo i team attuali addirittura con tre o quattro vetture!). Ovviamente Harry ha ragione e ad Atlanta Cole perde la testa, prima litiga con le gomme, poi con Wheeler e poi con sé stesso fondendo il motore mandandolo fuorigiri, così come fatto da Tim Richmond in Michigan nel 1987, in quella che a posteriori risulterà l’ultima gara della sua incredibile carriera.

E si arriva così a North Wilkesboro in cui tutta la “bastardaggine” di Wheeler viene fuori prima bloccando Trickle in pit lane e poi mandandolo in testacoda conquistando la vittoria. Al che Cole perde la testa e dopo la bandiera a scacchi si fa cambiare le gomme per tornare in pista, centrare la vettura di Russ che festeggia la vittoria creando la rissa finale ed il licenziamento di tutto il team.

A salvarlo sarà però il vecchio rivale Rowdy Burns che, abbandonato dagli sponsor e da tutti, ha bisogno di qualcuno che porti la sua auto alla vittoria alla Daytona500 che apre la stagione successiva. E così, nello scontato finale, malgrado i problemi al motore nel pre-gara con lo spietato ex team owner che si rabbonisce e gliene presta uno nuovo, la battaglia finale con Russ Wheeler è figlia di tutti gli insegnamenti ricevuti nell’anno precedente da Harry, il quale a Daytona non ci voleva tornare dopo l’incidente mortale di un suo pilota e per il quale aveva delle responsabilità, ma soprattutto del riacquisto della fiducia in sé stesso evitando stavolta un l’incidente “alla Giorni di Tuono” tenendo giù il piede attraverso la cortina di fumo e andando alla fine a conquistare la gara più prestigiosa che vale un’intera carriera.

Dunque cosa rimane del film? Proprio quei momenti in cui oltre la storia si entra nel profondo delle corse e che voglio citare qui integralmente nella versione originale, ovvero i due discorsi che il crew chief Harry Hogge fa alla vettura prima del debutto di Trickle e prima della partenza della Daytona500, discorsi profondamente diversi perché Cole non era più il giovane impetuoso talento di inizio carriera bensì un pilota che aveva bisogno di riacquistare la fiducia persa nell’incidente di Daytona (la scena in cui Cruise viene trasportato in elicottero in ospedale fu filmata subito dopo i Duels del giovedì prima della 500 miglia).

“I’m going to give you an engine low to the ground. An extra-big oil pan that’ll cut the wind underneath you. That’ll give you 30 or 40 more horsepower. I’ll give you a fuel line that’ll hold an extra gallon of gas. I’ll shave half an inch off you and shape you like a bullet. When I get you primed, painted and weighed… you’re going to be ready to go out on that racetrack. You’re going to be perfect.”

https://www.youtube.com/watch?v=u9eO_AsgrSk

“I’m setting up for cool weather. If the sun breaks, you’ll run loose. Cole’s not ready for that. He’s changed. You cannot get out of control. He’s liable to hurt you and you’re liable to hurt him. I couldn’t handle that. You’ve got to take care of him. All right? You’ve got to take care of him. [scoprendo la perdita d’acqua dal motore] This is not the kind of answer I’m looking for from you.”

Del film rimane ovviamente anche la bellissima Nicole Kidman, che si trasforma dal freddo neurochirurgo Claire Lewicki a passionale amante di Trickle e che si inserisce in un mondo che fino all’incidente di Cole quasi disprezzava perché i pazienti le arrivavano a ondate in quanto lavorava al Memorial Hospital di Daytona Beach. E proprio sul set di “Giorni di Tuono” nacque anche la passione vera fra la Kidman e Tom Cruise. I due si incontrarono nel novembre del 1989 mentre lui si stava separando dalla prima moglie e il colpo di fulmine fu di quelli che non lasciano scampo, infatti un anno più tardi fu celebrato uno dei matrimoni che segnarono la storia degli anni ’90 e che poi finì all’alba del nuovo millennio.

Ma le tracce di quel film sono ancora vive nella Nascar di oggi. Sponsor come Mello Yello, quello presente sulla vettura di Cole Trickle nella gara finale a Daytona, che entrò in Nascar come vero sponsor nel 1991 e per quattro anni fu sinonimo di Kyle Petty e Felix Sabates. Periodicamente a Darlington per il “Throwback weekend” ci sono livree speciali che commemorano quel film. C’è chi onora la livrea nera di Rowdy Burns (Cody Ware e Jeremy Clements che in Cup e Xfinity Series corrono proprio con il #51), o Kyle Larson che sfoggiò una livrea Mello Yello ed una parrucca alla Kyle Petty, BJ McLeod che nel 2018 si presentò con la vettura simile a quella di Russ Wheeler ed infine come l’anno scorso, quando proprio il Team Hendrick che fornì le vetture 30 anni fa omaggiò la macchina del debutto in pista di Cole Trickle affidandola a William Byron.

Ma ovviamente la traccia più viva è quella che ogni weekend lascia Kyle Busch. Il soprannome Rowdy è proprio in omaggio di Rowdy Burns e al KBM il Truck principale è proprio il #51 e la livrea è spesso, se non sempre, simile a quella nera della Exxon presente nel film. Dunque ogni volta che vedete vincere Kyle Busch nella Truck Series dovete pensare sempre come ad un altro successo del due volte campione Rowdy Burns. Sarà pure stato un film non eccezionale, avrà ricevuto appena una nomination agli Oscar per il miglior sonoro (nemmeno Hans Zimmer salvò la colonna sonora), incassato soli 157 milioni di dollari (più altri 40 al videonoleggio negli anni successivi), ma se a 30 anni di distanza “Days of Thunder” è ancora vivo nel mondo della Nascar, allora il suo obiettivo per cui era stato pensato è stato pienamente raggiunto.

Fonti: en.wikipedia.org; repubblica.it; insider.com; mentalfloss.com; script-o-rama.com; racingnews.co; latimes.com; racing-reference.info

Immagini: Getty Images; flickr.com (Mike Traverse)

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