“Mi chiamava Bagia”. Alberto Antonini, il ricordo di Paolo Bombara

di Alessandro Secchi
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Pubblicato il 17 Dicembre 2023 - 18:58
Tempo di lettura: 6 minuti
“Mi chiamava Bagia”. Alberto Antonini, il ricordo di Paolo Bombara

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Tanti colleghi hanno dedicato un pensiero ad Alberto Antonini, scomparso pochi giorni fa. Ne riportiamo uno speciale

In questi giorni sono tantissimi i colleghi e gli addetti ai lavori che hanno espresso un pensiero per Alberto Antonini. Lo scomparsa dello storico giornalista, collaboratore di Autosprint e fino a pochi anni fa Capo Ufficio Stampa della Scuderia Ferrari, ha lasciato dietro di sé una comprensibile sensazione di tristezza ed ingiustizia.

Quello che vi riportiamo è il pensiero che ha voluto dedicare ad Antonini chi, con lui, ha condiviso anni di Paddock fianco a fianco ai tempi di Autosprint, Paolo Bombara. Un ricordo speciale che pubblichiamo con piacere, ringraziando Paolo per averlo condiviso.

Mi chiamava Bagia, contrazione di Bombagia soprannome comunque creato da lui e di cui non ricordo più esattamente la ragione o l’etimologia, al di là dell’assonanza con bambagia, ma che sicuramente tradiva un chiaro affetto. Perché tra noi c’era affetto e tanto rispetto reciproco. Alberto era un grande giornalista di F1. Colto, saggio, poliglotta (parlava cinque lingue) aveva grandi capacità d’analisi e una solida conoscenza storica e tecnica di F1 e non solo.

Molto curioso e attento osservatore, era dotato di sagacia e il suo modo di vivere e di essere era costantemente intriso d’ironia. Sempre. Nel bene e nel male. La sua passione erano le battute taglienti, i giochi di parole che sapeva coniare d’istinto. Al suo fianco ho trascorso molti anni di trasferte. Anni divertenti.

Eravamo la coppia d’inviati di Autosprint ai Gran Premi, lui come membro della redazione, io come collaboratore esterno. Coetanei e con centri d’interesse molto simili, formavamo anche un «team» affiatato che funzionava, anche se sui campi di gara non lavoravamo quasi mai in coppia. Briglie libere e ognuno per conto suo, a caccia di notizie, spesso anche in competizione tra di noi. Poi, alla sera si usciva a cena, si mangiava, si beveva, ci si confrontava, raccontandoci cosa avessimo scoperto durante la giornata e poi si rifaceva il mondo, come due vecchi amici che non si vedono da una vita e che invece si frequentavano con estrema regolarità, ritmata dal susseguirsi delle gare.

Quando non c’erano di mezzo cene offerte da squadre o sponsor, la scelta del ristorante era un immancabile rituale che quasi sempre avevamo affrontato fin dal primo giorno, preparando una sorta di «scaletta» da rispettare. Salvo quando Alberto scovava per caso un posto nuovo che bisognava assolutamente collaudare. Lo seguivo sempre, fidandomi del suo intuito culinario, tranne quella volta che tentò di convincermi ad andare a gustare una feijoada in una sorta d’osteria/tavola calda di cui aveva sentito parlare e che si trovava all’interno della favela di Cingapura, nei dintorni dell’Autodromo Carlos Pace d’Interlagos. Appellandomi al fatto che “tenevo famiglia”, lo dissuasi.

Imolese doc, quando veniva il turno del GP d’Imola, mi invitava ad alloggiare presso casa dei suoi genitori, Laura e Paolo. Persone squisite, come Alberto, che mi facevano sentire uno di casa. Come tutti, anche Alberto aveva le sue “stranezze” e contraddizioni… Per certi versi lo definirei una sorta di lupo solitario molto socievole. Adorava i gatti e si riconosceva in loro, esseri indipendenti. Ne parlavamo spesso, poiché anche io ho sempre avuto gatti e cani. Mi diceva che non “possedeva” nessun gatto, ma che questi lo avevano adottato, accettandolo a casa loro come coinquilino.

Era anche un grande timido e questo suo tratto caratteriale emergeva, per esempio, nel suo modo di parlare sempre a bassa voce. Eddie Irvine lo aveva soprannominato il «sussurratore», e ci avevamo scherzato commentando che visto il contesto professionale più che l’Horse whisperer diretto e interpretato da Robert Redford, Alberto avrebbe potuto essere protagonista di The Horse Power whisperer.

Anche quando, nel corso del 2001, lasciai Autosprint per accasarmi a SportAutoMoto, nuovo settimanale concorrente, le nostre relazioni personali e i rituali tra me e Alberto non cambiarono affatto. Magari non uscivamo più tutte le sere assieme a cena, ma si continuava a farlo molto spesso e con la stessa amicizia, franchezza e giovialità, tralasciando ovviamente di confrontarci su cosa ognuno di noi avesse scoperto durante la giornata. Era un grande professionista, estremamente professionale e rispettoso di tutti.

Da quando lasciai il mondo della F1, a stagione 2009 inoltrata, ci siamo visti poco, in mie rare capatine a un GP in veste di spettatore interessato. Lo trovai in un nuovo ruolo, come PR della Ferrari. Un ruolo che sapevo benissimo quanto fosse difficile, cosa che immancabilmente Alberto mi confermò, ma che lo aveva reso così orgoglioso e felice d’essere stato chiamato a ricoprire.

Aneddoti professionali? Ne ho tanti insieme a lui, ma per ora vorrei tenerli per me. Personali? Ci piaceva anche, di tanto in tanto, farci qualche scherzo, sempre bonario. Una volta, uscendo la sera dal circuito di Suzuka, attraversando (secondo l’abituale percorso pedonale) la tribuna di fronte ai box dove, nonostante le prove fossero terminate da ore, erano accalcate decine di tifosi giapponesi speranzosi di veder spuntare qualche star del Circus sulla scaletta che emergeva dal sottopasso proveniente dal paddock, fui colto da una sorta di raptus scherzoso e volandomi verso Alberto che mi seguiva a ruota lo chiamai “Comas” poi rivolgendomi ai tifosi ed indicando Alberto continuai a ripetere “Comas, Comas”.

Risultato? Anche se tra il pilota francese del team Larrousse e Alberto non c’era la minima somiglianza, lui fu comunque costretto a perdere una buona mezz’ora e a firmare decine di autografi come Comas. L’indomani, mi premurai di raccontarlo ad Erik e con Alberto ci facemmo una sonora risata a tre. Nel mio raptus avevo inconsciamente scelto Comas perché era l’unico pilota occidentale in grado di esprimersi correntemente in giapponese (e i tifosi lo sapevano di certo) una tra le rare lingue che Alberto invece non parlava. Tanto per metterlo ulteriormente in difficoltà. Di recente, avevo scoperto con grande sorpresa del suo male, mi avevano detto che era in via di guarigione e mi ero illuso. Mi mancherai Alberto”.

P300.it rinnova ancora le condoglianze della redazione alla famiglia di Alberto Antonini e ai suoi cari.

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