È tutto nel titolo: chi si loda s’imbroda. Ora che il secondo matrimonio tra Mclaren e Honda è naufragato come la peggiore delle minestre riscaldate, è ora di dirlo. Ben gli sta.
Perché la sboronaggine non mi è mai piaciuta, non la sopporto, non farà mai parte del mio modo di essere. E quello che sia Mclaren che Honda hanno portato avanti nell’inverno tra 2014 e 2015 è stato un autentico, a posteriori suicida, atto di sboronaggine che entrambe hanno pagato a carissimo prezzo.
Non credo serva rimembrare i proclami di voler tornare a vincere dominando (lo diceva Ron Dennis, mica io), come se i fasti di un tempo potessero essere riproposti facilmente; come se fosse una bazzecola arrivare in Formula 1 con una nuova tecnologia e farsi beffe di chi da anni si era preparato all’era ibrida.
Fotomontaggi, video nostalgici in cui le vecchie, vere Mclaren-Honda di Senna e Prost si fondevano con il nuovo corso di Button e Alonso. Come a dire “Siamo tornati e adesso vi facciamo neri”. Il nero, alla fine, l’hanno riproposto in livrea pochi mesi dopo l’esordio delle monoposto, sostituendo forse l’abbinamento di colori più bello del Circus rendendo le loro MP4 belle proporzionalmente alle loro prestazioni: vale a dire ridicole.
Il Karma ha fatto il resto. Sebbene il primo anno, nonostante l’inesistenza delle prestazioni e dell’affidabilità, potesse essere archiviato alla voce “esperienza“, l’avventura è continuata esattamente nello stesso modo. Con monoposto paragonabili più a GP2 che a F1, soprattutto per colpa di una Power Unit nemmeno lontanamente degna di poter competere nella categoria più importante del Motorsport.
A dirla tutta, è proprio il motorista giapponese il maggior indiziato per una figura indegna portata avanti per tre anni: rotture, penalizzazioni epiche in griglia (che poi i regolamenti siano idioti è un altro discorso), team radio imbarazzanti da parte di un Alonso irritato una gara sì e una sì per la pochezza di prestazioni. Con i messaggi di Fernando dell’ultimo triennio possiamo creare una compilation.
Già dal primo anno, o meglio dalle prime gare, si era capito che la situazione sarebbe stata difficilmente migliorabile. Nel 2016 e in questa stagione siamo arrivati al limite dell’accanimento terapeutico, con un Alonso costretto a scappare per un mese ad Indianapolis per poter correre finalmente una gara. Salvo essere raggiunto dalla sfiga anche dall’altra parte dell’oceano con un motore rotto a 20 giri di una Indy500 interpretata alla perfezione.
La fine di questa disastrosa seconda unione era ormai nell’aria: anzi, ci si chiede perché sia stato necessario tutto questo tempo. Rinnovare ancora sarebbe stato da autentici masochisti, e non capisco come sia venuto in mente in Toro Rosso di affidarsi ai giapponesi per il futuro, perché allo stato attuale delle cose trattasi di scelta incomprensibile se non per risvolti economici favorevolissimi.
#MakeHistory era il motto del ritorno. Hanno avuto ragione, anche se la storia non l’hanno scritta proprio come avrebbero voluto. Spero, almeno, che i vertici Honda abbiano imparato la lezione e che l’orgoglio ferito sia di insegnamento per il futuro, in modo da non ripetere una delle figure peggiori della storia della F1, non solo in quanto a prestazioni ma anche in termini di presunzione. Quanto alla Mclaren si risolleverà, ne sono certo. Ma questa macchia lunga tre anni sarà pesante da digerire.
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