Brembo

Marco Andretti: “What if?”

di Lorenzo Esposito
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Pubblicato il 26 Dicembre 2019 - 10:00
Tempo di lettura: 8 minuti
ARTICOLO DI ARCHIVIO
Marco Andretti: “What if?”
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La storia non si fa con i se e con i ma, è assodato. Ora: avete anche voi quell’amico che dopo una sfida, ovviamente persa, si getta a ripensare ai fatti? Se tutto fosse andato in un certo modo? Perfetto, quella persona potrebbe essere Marco Andretti. Figlio di Michael e nipote del grande Mario, inizia la sua carriera in Indycar nel 2006 dopo gli ottimi risultati ottenuti in Indy Lights (ai tempi Indy Pro Series) e mantiene le aspettative date dal pesante cognome: pur alternando gare storte a risultati discreti, nell’anno da rookie riesce a mettersi in luce con una vittoria a Sonoma e soprattutto con quella che poteva essere (si inizia…) la vittoria alla 500 miglia di Indianapolis, terminata al secondo posto in extremis dopo un arrivo al cardiopalma in volata con Hornish. Un primo anno senza infamia e senza lode che ci può stare, concluso al 7° posto e con il titolo di rookie of the year.

Già nel 2007 però iniziano i vari “what could have been”, “should be fun tomorrow” di cui non abbiamo testimonianza “sul” Twitter, ma che immagino fossero già nell’aria. Complici anche le difficoltà del team Andretti quell’anno in termini di setup su alcuni ovali, Marco termina solo 7 gare, sei delle quali in top 5. Nulla può però recriminare se non a se stesso in Texas, dove arriva al contatto con un infuriato Tomas Scheckter e soprattutto ad Indianapolis, quando sul rettilineo fra curva 2 e 3 scarta a destra senza considerare la presenza di Wheldon e creando un big one con tanto di giravolta in aria, fortunatamente senza conseguenze. Fa peggio del 2006 e conclude mestamente 11° in campionato.

Nell’anno in cui Danica Patrick vince la sua prima e unica gara a Motegi, il suo compagno resta nuovamente a secco di vittorie, pur disputando una discreta stagione. Andretti nel 2008 parte forte con un 2° posto ad Homestead e tanti giri in testa, gara che “dà ancora fastidio per il risultato” al pilota americano, testuali parole con il sottoscritto. Proprio nel giorno di gloria per Danica, in uno dei momenti più imbarazzanti che io ricordi, si gira finendo a muro addirittura nel primo giro; gomme fredde la scusa. Si riscatta e bene in Kansas con un 5° posto e ad Indianapolis con un 3° dopo molti giri davanti a tutti. Unico neo l’attacco “tardivo” sul compagno Kanaan quando i due erano ormai in prossimità di curva 3: TK finisce sui marbles, perde l’auto e come ciliegina viene centrato da Sarah Fisher, tornando ai box arrabbiato come non mai.

Marco conquista la prima pole position della carriera a Milwaukee, diventando il più giovane poleman di sempre in Indycar, ma la gara diventa un calvario man mano che la pista si gomma; non vede nemmeno la bandiera a scacchi, venendo centrato da Meira in seguito ad un testacoda. Stessa sorte in Texas dove spreca un gran ritmo stringendo Hunter-Reay e provocando l’incidente, ma addossando ovviamente la colpa al giovane Ryan. Dopo un’altra serie di buoni risultati misti ad errori e ritiri conclude 7°, dietro ad entrambi i compagni di team. Che sia il 2009 l’anno del definitivo salto in avanti? Anticipo: no.

Nel 2009 Marco diventa più costante, ma in un altro modo: con un calo di velocità. Nemmeno un podio, due sole top 5 e molte top 10. Il più grande “se” della stagione è certamente Indianapolis, dove non termina nemmeno il primo giro per uno scarto azzardato di Mario Moraes (chi?) che mette fine alla gara di entrambi. Il team Andretti, che a fine anno si separa dalla famiglia Green, vive una stagione particolare: Danica termina il campionato al 5° posto davanti sia a Kanaan che ad Andretti, solo 8°. Uno smacco per entrambi.

Dall’anno successivo, con l’arrivo dei social, iniziano i suoi famosi tweet pre e post gara, curiosamente simili a quelli attuali, e il risultato finale in classifica resta esattamente lo stesso anche nel 2010 e nel 2011. Nell’anno del primo titolo di Sebastian Vettel in Europa, Marco inizia con un “what could have been” oggettivo: Moraes sbaglia la frenata al via e decolla sopra l’americano. Torna a podio con 3 terzi posti ad Indy, Chicago e Texas, ma resta sempre incostante e le prestazioni generali non migliorano. Degno di nota il primo giro a St. Petersburg in condizioni di pista umida, in cui supera con facilità nomi quali Kanaan e Castroneves; non manca la scusa: “Se la pista non si fosse asciugata…”.
Nel 2011 proprio a St. Petersburg parte nuovamente col botto: Castroneves arriva leggermente lungo, quanto basta a spingere Marco su Dixon e Conway e a creare un big one. La stagione viene salvata da una bella vittoria in Iowa, in rimonta dalle retrovie e dopo una lunga battaglia con l’ex compagno Kanaan, la seconda dopo quella di Sonoma… nel 2006. Gli altri risultati di nota li ottiene tutti su circuiti stradali e cittadini, restando ancorato però all’8° posto finale. A Toronto riesce quasi nell’impresa di far arrabbiare un santo come Oriol Servia, con un tentativo azzardato di sorpasso in curva 1 dopo una caution. “He closed on me”, afferma Marco.

Fin qui, almeno personalmente, non posso lamentarmi totalmente del suo rendimento. Seppur incostante all’inizio e a tratti assente poi, fa vagamente ricordare di essere un Andretti e almeno con il ritmo c’è. Dal 2012 grazie a lui mi ricordo che le cose possono sempre andare peggio. Inizialmente pensavo che le difficoltà fossero dovute alla nuova vettura, la Dallara DW12, più goffa della precedente o “balena” come definita da Zanardi. Marco nel 2012 fa davvero fatica, si vede raramente nelle posizioni di vertice: solo ad Indianapolis (e daje) e in Iowa si dimostra competitivo. I riflettori sono tutti puntati invece sul compagno Hunter-Reay, che piega Power a Fontana e conquista il titolo.

Tutto ad un tratto Marcolino, come mi piace soprannominarlo, quando ormai l’andamento sembra scontato riesce a stupirmi nel 2013 e a sfatare il “mito” del nuovo telaio. La sua migliore stagione per distacco, non solo per il risultato finale (5°): combattivo, quasi sempre veloce, costante ed il miglior pilota Andretti a fine stagione, in una griglia nel complesso più competitiva del passato. Out of nowhere direbbero gli americani. Non so davvero come mai si sia svegliato quell’anno, tornando prontamente in letargo dall’anno successivo. Sono mancati solo la vittoria e qualche podio in più per aggiungere la ciliegina ad un’ottima stagione, intaccata solo da un ritiro per noie tecniche a Milwaukee e due gare opache a Houston. Il “what if” degno di nota stavolta è quello di Indianapolis: senza la caution finale, chissà…

Il 2014 e il 2015 segnano purtroppo un parziale (nel prossimo paragrafo capirete perché) ritorno del vecchio Andretti. I risultati finali sono “discreti”: due noni posti, se si esclude il fatto che corre per un top team e con un grande bagaglio di esperienza. Alterna buone prestazioni, come i podi in Alabama e ad Indy, a gare anonime ed in cui riesce a piazzarsi in top 10 solo grazie a caution e sfortune altrui. Non convince a pieno, per sintetizzare. I “se” qui avrebbero effetto boomerang…

Non c’è mai fine al peggio dicevo prima. Nel 2016 e nel 2017 Marco torna alle prestazioni del 2012, in cui ci si dimentica della sua presenza in pista. Nemmeno Indianapolis salva la stagione.
La scusante ora è il nuovo aerokit, introdotto dall’Indycar anche per diversificare l’estetica delle vetture motorizzate Chevrolet e Honda rispettivamente; il suo disprezzo si evince a pieno quando ricondivide la foto dell’auto di Hunter-Reay esasperata con una decina di profili alari. Marco sembra non riuscire a sfruttare a pieno il carico delle nuove vetture e resta spesso fuori dalla top 10.

Nel 2018 arrivano le nuove vetture, sempre by Dallara, che mirano a liberarsi del superfluo e a rendere le auto più belle. Non solo: diminuisce il grip e aumenta la velocità sul dritto, aiutando concretamente le auto a stare vicine e battagliare. Come per incanto, le prestazioni di Marco migliorano. Certo, non al livello del 2013, ma certamente va meglio delle ultime stagioni. Ritorna diverse volte nei primi 10 e due volte in top 5, mostrandosi combattivo a Toronto e conquistando una pole a Detroit. In gara poi non va oltre il 4° posto, per motivi ancora da accertarsi… Cogliete l’ironia? A fronte dei singoli buoni risultati, c’è la serie di piazzamenti anonimi e non da Andretti che non consente di assegnargli un giudizio positivo, come in molti altri campionati. Il 2013 resta lontano… La stagione termina con un ottimo 5° posto a Sonoma, che può dare morale in vista del 2019.

Nella stagione appena conclusa, invece del 2013 Marco manda in onda una stagione pari a quella del 2012. Poche top 10, nemmeno una top 5 e tante gare incolori. Ricordo meglio sue gare degli anni pre-2012 di quelle appena disputate, per rendere meglio l’idea. Ad Indianapolis si qualifica bene, e la sera piazza un “should be fun tomorrow” sul Twitter. Sbam. In gara fin da subito è senza potenza e, nonostante le difficoltà, continua e termina mestamente la gara in 26esima posizione. Stessa sorte a Pocono, mentre nelle altre tappe non ha semplicemente ritmo. Le sue parole non aggiungono punti al suo bottino, che lo relega al 16° posto. Al pari del 2012 e del 2016 la sua peggior stagione.

Il mio giudizio finale su questo pilota è… Inspiegabile. Corre da anni, in un team (nel proprio, ndr) di primo livello e non riesce da tempo a mettere insieme una stagione costante e a buon livello. Cambiare team e uscire dal grembo famigliare aiuterebbe? Ora, con la poca motivazione che sembra caratterizzarlo, difficilmente. In passato invece avrebbe sicuramente aiutato.
Vedremo cosa accadrà in futuro. Nel 2020 è fiducioso di riscattarsi, con il debutto del nuovo aeroscreen. Se lo dice lui…

Immagine: Twitter/Marco Andretti 


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