L’Ing. Scalabroni racconta la Lotus 102B e la vettura a “rombo”

F1Interviste
Tempo di lettura: 5 minuti
di Andrea Ettori @AndreaEttori
9 Agosto 2018 - 15:29
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Nei giorni scorsi ho avuto il piacere di chiacchierare con l’ingegner Enrique Scalabroni, grande progettista, tra le altre, di Ferrari, Williams e Peugeot. È stata un’occasione per parlare del passato, del presente e del futuro della F1 ma anche di un anno in particolare, il 1991, in cui Scalabroni era impegnato nello sviluppo della Lotus 102B.

Sul finire degli anni ’80 e con l’inizio dei ’90 la Lotus visse una fase di declino, lontana dai fasti dell’era Chapman e dalle ultime vittorie firmate Ayrton Senna. Un declino che sarebbe diventato definitivo con la chiusura del team a fine 1994.

Tornando al 1991 la Lotus, dopo un 1990 disastroso con la perdita dello sponsor Camel e del V12 Lamborghini, decise di “ripartire” dalla vettura denominata 102B spinta dal V8 Judd e dalla grande esperienza, oltre che genialità, dell’ingegner Scalabroni. Come piloti vennero scelti un giovane finlandese di belle speranze che qualche anno dopo sarebbe diventato anche campione del mondo, Mika Hakkinen, e Julian Bailey. Nel corso del campionato, alla guida della Lotus si alternarono anche Johnny Herbert e Michael Bartels.

Ecco il suo ricordo di quella stagione.

Ingegnere, ci può raccontare come arrivò alla Lotus dopo l’esperienza in Ferrari?
“Arrivai alla Lotus contattato dal grande Peter Wright e da Peter Collins per analizzare quello che era successo con l’incidente di Donnelly a Jerez 1990, dove la macchina era proprio esplosa. In seguito mi occupai dello sviluppo della 102B con tanto lavoro in pochissimo tempo”.

Come fu lo sviluppo della macchina?
“Come dicevo prima, il tempo era pochissimo e quindi lavorammo veramente tanto per migliorare la macchina. Cambiammo il materiale di costruzione, passando al carbonio per rendere la vettura più resistente e lavorando anche ai crash test, che iniziavano ad esserci in quel periodo. Poi facemmo tanto lavoro in galleria del vento, modificando le pance per migliorare il raffreddamento e la resistenza all’avanzamento. Sviluppammo una nuova ala anteriore e tanti altri particolari. Ripeto, il tempo era pochissimo, la forma della macchina rimase quasi identica ma il lavoro fu davvero tanto. Mi piaceva come vettura, la 102B”.

Dovette anche adattare il posteriore al V8 Judd.
“Esattamente, la monoposto del 1990 aveva il V12 Lamborghini mentre la 102B il V8 Judd. Abbiamo risistemato tutto quello che serviva, come gli attacchi del telaio al nuovo motore, ma come sempre in pochissimo tempo”.

Che team era la Lotus di quel periodo, con tutti i problemi economici del caso?
“Lavorare alla Lotus per me era un sogno che poi si trasformò in realtà. Peter Wright era l’inventore dell’effetto suolo e quindi essere in quella squadra era fantastico. Il problema era la mancanza di fondi. Peter Collins trovò una sponsorizzazione grazie ad una compagnia aerea asiatica che però alla firma del contratto si ritirò, a causa di quello che successe nel disastro del volo Pan-Am di qualche anno prima, lasciando Collins in una situazione parecchio complicata. Detto questo, la Lotus era un team piccolo ma con una grandissima esperienza”.

Un punto debole di quella vettura era il Judd V8…
“I motori Judd erano quelli della Brabham della stagione precedente, a cui avevamo effettuato qualche controllo. La differenza più grande che ho vissuto dall’esperienza in Ferrari passando alla Lotus riguardava il motore. Il 12 cilindri di Maranello aveva 720 cavalli, mentre il V8 Judd 605. Parliamo praticamente di una categoria di differenza. Parliamo di un secondo e mezzo di differenza solo di motore”.

Aveva già iniziato a disegnare la vettura per il 1992?
“Assolutamente sì, ma in quel momento non avevamo un motore per il 1992. Con i dati della galleria del vento avevo visto che la resistenza all’avanzamento era per il 50% dovuta dalle ruote e per il 50% dal corpo vettura. Mi venne quindi in mente l’idea della macchina a “rombo” con una ruota anteriore, una posteriore e due laterali. Questa cosa piacque subito a Peter Wright perché si poteva guadagnare nell’ordine dei 100/120 cavalli di drag eliminando dall’aria le due ruote posteriori. Quindi rimaneva una ruota posteriore sotto l’alettone, le due laterali che erano sostanzialmente quelle anteriori di una F1 normale e quella anteriore che fungeva da ruota sterzante. Tutto ciò che avevo pensato era approvato dal regolamento, ma non riuscimmo a trovare il budget. Un peccato, perché avevamo visto che si poteva guadagnare enormemente sia in frenata che in accelerazione. Infatti in entrambe le situazioni c’erano tre ruote attive. In quel momento avevo anche disegnato un cambio, che poi non venne mai costruito, a 9 marce. Erano tre assi che lavoravano insieme, a sei marce ma con nove velocità diverse. Il problema, come ripeto, è che non c’erano soldi per sviluppare tutto questo e per questo me ne andai alla Peugeot, chiamato da Jean Todt”.

Ci racconta il test con il motore Isuzu?
“I giapponesi avevano questo V12 e volevano fare una prova, non era un motore sviluppato da corsa ma semplicemente aveva subito uno sviluppo per la serie. Dal punto di vista strutturale e geometrico bisognava cambiare diverse cose, ma questa fu una semplice sperimentazione da parte di Isuzu per capire se ci poteva essere la possibilità di entrare in F1”.

Cosa porta dentro di sé da quel periodo alla Lotus?
“Come dicevo prima, lavorare Ferrari e Lotus è stato un sogno, peccato che nel periodo del team inglese non ci fossero i fondi a sufficienza per portare avanti il progetto”.

La Lotus concluse la stagione 1991 al 10° posto della classifica costruttori, grazie ai tre punti conquistati da Bailey e Hakkinen nel GP di San Marino.

La 102B, se avesse avuto un adeguato sviluppo e una motorizzazione importante, avrebbe sicuramente raccolto molto di più di quello che effettivamente è riuscita ad ottenere. Una macchina che nel corso degli anni è anche diventata iconica per i modellisti di tutto il mondo, grazie al kit della Tamiya.

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