Lewis, quando la propaganda non può nulla contro la realtà

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di Alessandro Secchi @alexsecchi83
29 Aprile 2022 - 11:06
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Che questo articolo non rappresenti una sentenza nei confronti di Lewis Hamilton lo si scoprirà probabilmente man mano che si arriverà verso la fine. Piuttosto, riporta un pensiero costruito negli anni di attività (tutti) dell’Hamilton pilota, uomo ed entità rappresentativa del mondo della Formula 1 in uno dei periodi più difficili che questa abbia attraversato nell’ultimo decennio; ma, soprattutto, una critica nei confronti di come la sua carriera è stata raccontata negli anni del suo dominio.

Parto da un concetto molto semplice: quanto successo nelle prime quattro gare del 2022 mi stupisce fino ad un certo punto; sicuramente non nel modo con il quale leggo la situazione di Lewis riportata da più parti.

I sondaggi di Liberty Media hanno riportato che un terzo del pubblico oggi al seguito della Formula 1 sia giovanissimo, con una “anzianità” di corse pari ad un massimo di cinque stagioni su oltre settanta di storia. Come dire che uno spettatore su tre non abbia ricordo in diretta del mondiale di Rosberg del 2016. Al di là del mio pensiero critico su queste percentuali (ma questo non è il momento per parlarne) è logico che chi arriva in un momento storico nel quale c’è un pilota che domina abbia più probabilità di identificarsi proprio con quel pilota, senza troppi fronzoli o argomentazioni particolari. È quindi onere di chi racconta lo Sport e soprattutto dello Sport stesso acculturare l’appassionato ed accompagnarlo nel corso delle stagioni, raccontando nel modo più corretto possibile quanto accade e bilanciando adeguatamente ciò che succede in pista e fuori.

A senso unico

Non è la prima volta che lo scrivo ma, dopo quanto visto in questo primo scorcio di 2022, sono ancora più convinto che l’epopea di Hamilton in Mercedes sia stata accompagnata da un’informazione mediatica generale, per la stragrande maggioranza estera, degna di una propaganda; per i toni, le esaltazioni, le enfatizzazioni di pole e vittorie piovute a grappolo sulle statistiche (con molte gare in più all’anno rispetto al passato) ed il “disegno” di Lewis in quanto sorta di entità superiore, grazie anche al suo essere uomo immagine fuori dalla pista ed icona (o promoter) dello Sport stesso in giro per il mondo; ambasciatore di uno sport prima e di un’azienda poi, con l’arrivo di Liberty Media, come nessuno mai prima di lui. E sono altrettanto convinto che tutto questo “circo”, in realtà, abbia creato più problemi che altro soprattutto a lui.

Non parlo di propaganda a caso quando, per intere settimane, il suo stesso mondo si è prodigato, dopo la contestata fine del mondiale 2021, ad innaffiare i social con le statistiche più disparate (o dovrei dire disperate) o addirittura quasi inventate appositamente per far comparire Lewis in testa per “risollevare il morale” dei fan, in una sorta di ricerca dei titoli morali per giustificare quanto successo ad Abu Dhabi. Il tutto senza un minimo accenno al fatto che, in condizioni normali (senza citare Silverstone basta ricordare Baku e Budapest) il mondiale si sarebbe chiuso con un paio di gare di anticipo e meritatamente per pilota e team che, effettivamente, l’hanno portato a casa.

Non è nemmeno un caso che l’inizio più difficile che Hamilton abbia mai riscontrato in carriera sia accompagnato, in terra natia e non solo, dall’elenco telefonico delle scuse e delle giustificazioni. Che, per inciso, potrebbero essere valide ed accettabili se non fosse che, dall’altra parte del box, c’è un ragazzo di 24 anni che ha concluso le prime quattro gare in top 5 apparendo più in palla, più motivato, più “adattabile” ad una monoposto che ha sicuramente dei problemi (tanti) ma, nelle sue mani, porta a casa punti costantemente. La W13, porpoising o meno, con Russell è terza forza dietro Ferrari e Red Bull. A giudicare da palmares ed esperienza ci si aspetterebbe il contrario ma così non è. E, come anticipato, mi sorprende fino ad un certo punto.

Dov’è la prima metà?

Sul talento di Lewis sin dal suo esordio solo degli stolti hanno avuto dubbi. Esordio che comunque è giusto ricordare (soprattutto ai più giovani) è avvenuto a bordo di una McLaren-Mercedes e non, con tutto il rispetto, di una Minardi, una Jordan, una Toleman o una Toro Rosso come successo ad alcuni dei suoi predecessori o avversari titolati. Questo ha permesso a Lewis di avere un anticipo sui tempi notevole se parliamo di statistiche ma, al tempo stesso, gli ha negato la necessità di sgomitare a centro gruppo, se non per poche gare del 2009. Una situazione che personalmente attendevo per avere un quadro generale dell’Hamilton pilota.

Lewis ha vinto 21 delle sue 103 gare nei primi 6 anni di carriera (2007/2012) e 82 nei successivi 9 (2013/2021), di cui una sola nel 2013 al primo anno in Mercedes e 81 nei successivi 8. Difficilmente, però, ad oggi si sente parlare della prima metà di carriera, quella delle 21 gare. Per chi si è affacciato alla Formula 1 negli ultimi anni il primo Lewis, quello della McLaren, è come se non esistesse, scomparsa dai radar. E si tratta di un falso storico, perché parliamo di un pilota che ha corso con il team di Woking dai 22 anni dell’esordio ai 28, vivendo esperienze diverse. Quando scrivo che non mi sorprende il rendimento di Hamilton di queste prime quattro gare è perché Lewis ha già dimostrato in passato di avere dei momenti difficili o di bassa motivazione, anche con materiale notevole a disposizione. Il fatto che non vengano praticamente mai menzionati non significa che non ci sia stati, solo che per convenienza mediatica è meglio non chiamarli in causa.

Ovviamente, ad oggi, è più comodo dare tutte le colpe ad una monoposto carente, quale è ovviamente la W13, ma non ci si può nascondere troppo tempo dietro al dito se, con lo stesso materiale, il nuovo compagno di squadra fa meglio “e” con prestazioni come quelle di Imola. In questo caso il parallelo mediatico (gestito al contrario) con quanto successo in Ferrari al tempo dell’arrivo di Leclerc al fianco di Vettel è illuminante. Il tedesco fu quasi bullizzato a colpi di meme per ogni minima sbavatura per non parlare, ovviamente, degli errori veri e propri. Con una differenza sostanziale: ormai Vettel era verso l’uscita e addirittura, nel 2020, iniziò la stagione già da licenziato, mentre Hamilton è ancora la punta di diamante completamente supportata da Mercedes.

Alti e bassi

Che Lewis abbia avuto in carriera momenti di alti e bassi non lo dico io ma la storia. L’intera stagione 2011 è lì, pronta per essere rivista, con un Jenson Button globalmente superiore e cinque incidenti/contatti con Felipe Massa praticamente tutti con Lewis colpevole. La doppietta Monza/Singapore del 2010, che l’ha messo fuori dalla lotta per il titolo, è un altro esempio. E se per alcuni questo rimembrare eventi passati può sembrare un richiamo al paleozoico, ebbene Lewis aveva grossomodo la stessa età degli attuali Leclerc e Verstappen e sbagliava tanto quanto loro, se non addirittura di più in diverse occasioni. Questo per inquadrare e contestualizzare età, generazioni e giudizi che ho sentito negli ultimi mesi su un “Hamilton che a 36 anni non sbaglia mai”. Che poi, anche qui, relativamente al 2021 ci sarebbe da parlare, ma non voglio dilungarmi.

Le sette vittorie di fila di Nico Rosberg tra fine 2015 e inizio 2016 sono un altro esempio di mancanza di motivazione. Al contrario l’Hamilton del 2017, con lo scotto proprio del mondiale perso da Rosberg, ha mostrato la sua fame di voler tornare al vertice e subito correndo in modo perfetto, concreto, senza sbavature così come nel 2018. Quanto successo ad Imola può essere un caso e magari, da Miami in poi, Hamilton tornerà a fare quanto visto in passato. Ma la sensazione è che comunque dall’inizio del mondiale Lewis non abbia lo stesso mordente visto fino a poco tempo fa. E, dando per scontato che qui non ci siano licenziamenti anticipati in ballo (anzi, è coccolato come sempre dal suo team, e vorrei ben vedere), la mia personalissima ed opinabilissima opinione è che Lewis fosse pronto al ritiro nel caso in cui avesse vinto il titolo 2021, indipendentemente da qualsiasi contratto. Un qualcosa in stile Rosberg 2016. Pertanto, non aver conquistato il titolo nel modo che ricordiamo tutti può aver avuto un contraccolpo psicologico importante. E se a questo aggiungiamo:

1) la necessità di doversi adattare a monoposto completamente nuove
2) un nuovo compagno di squadra che, con tutto il rispetto per Valtteri Bottas, appartiene ad un altro livello
3) l’età che avanza, per lui come per tutti quelli che lo hanno preceduto

ecco che le difficoltà che stiamo vedendo possono non essere così totalmente incredibili e senza motivazione. La psicologia per qualsiasi pilota è fondamentale, anche se si parla di un sette volte campione del mondo.

I record “unici”

Quello che vi propongo è un grafico che riassume i cicli che hanno caratterizzato precisamente il nuovo millennio. Abbiamo quello Ferrari (2000-2004), quello Red Bull (2010-2013) e quello Mercedes (2014-2020).

Genericamente, per la stampa, questi tre cicli sono raccontati così: il “dominio” Ferrari, i “quattro mondiali fortunati” della Red Bull e Vettel grazie a Newey, la “cavalcata dei record” di Hamilton. Ecco, forse è ora di sfatare qualche mito. Innanzitutto siamo di fronte a più di un falso storico ed è facilmente comprensibile il perché. Innanzitutto il 74% di vittorie in 7 anni della Mercedes ha un valore, se vogliamo, maggiore di quella che è la semplice differenza numerica con il 67% in 5 o con il 53% in 4. Con una Ferrari che, per ottenere quei risultati, ha speso centinaia di giorni di test in pista rispetto a Red Bull e Mercedes. E, se volessimo per gioco “limitare” Ferrari e Mercedes ai primi 4 anni, per livellare la durata del ciclo Red Bull, la Ferrari scenderebbe al 62% ma la Mercedes salirebbe all’80%. In secondo luogo, la posizione del compagno di squadra è indicativa: Rubens Barrichello, in cinque anni, è arrivato solo due volte secondo alle spalle di Michael Schumacher. Mark Webber, invece, non è mai arrivato dietro Sebastian Vettel. In Mercedes solo due volte su sette (2017, 2018) il secondo pilota (Bottas in questo caso) non è giunto appena dietro il vincitore del titolo.

Ferrari si è giocata due titoli (2000 e 2003) a fine campionato contro le McLaren di Hakkinen e Raikkonen, vincendoli rispettivamente alla penultima ed ultima gara. Red Bull ha vinto due dei quattro titoli all’ultimo appuntamento contro Fernando Alonso e la Ferrari. Anche Mercedes ha chiuso il mondiale piloti due volte all’ultima gara, nel 2014 e 2016, ma si è trattato di una lotta interna tra Hamilton e Rosberg. Un altro dato interessante: nei suoi 6 titoli in Mercedes Hamilton ha collezionato in totale il 20,5% di punti in più rispetto al secondo classificato ed il 24% in più del compagno di squadra. Sebastian Vettel, nei suoi 4 titoli in Red Bull, ha ottenuto il 21,4% in più sul 2° in classifica ed il 33,8% in più rispetto a Mark Webber. Michael Schumacher, nei 5 titoli in Ferrari, il 29,2% in più sul 2° ed il 39,3% in più su Rubens Barrichello.

Per chi lo sente dire, quindi, non è vero che la Ferrari ha dominato cinque anni, non è vero che Red Bull ha fatto altrettanto per quattro (non si vince solo per fortuna contro Fernando Alonso a meno che non lo si voglia sminuire, e non è assolutamente mia intenzione) mentre l’esaltazione mediatica a cui abbiamo assistito per la cavalcata di Lewis nel ciclo Mercedes ha cercato a più riprese di mettere in secondo piano l’assoluto ruolo di dominatrici della scena che le monoposto di Brackley, dalla W05 del 2014 alla W11 del 2020, hanno avuto rispetto alla concorrenza; permettendo, oltretutto, una doppietta in classifica piloti per cinque volte su sette.

È evidente che di tutto questo non bisogna fare colpa al pilota che guida, ma coerenza vuole che i cicli vengano trattati e considerati dal punto di vista oggettivo, riportando i dati in modo fedele. Cosa che, a mio parere, non è successa e non succede.

In conclusione

Se la carriera di Hamilton fosse stata raccontata tenendo conto di tutto il suo passato e non solo di una parte, considerando anche i momenti difficili attraversati in alcuni frangenti e non solo “ricamando” sopra una media di dieci vittorie all’anno, sarebbe forse più facile porsi domande sull’attuale situazione sia dal punto di vista tecnico che, soprattutto, dal punto di vista psicologico, spesso poco considerato anche perché poco conosciuto. Sportivamente è ovviamente inaspettato vedere Lewis faticare dietro Stroll o Gasly, ma non gli si fa di certo un favore difendendolo ai limiti dell’assurdo (soprattutto in patria), chiamando in causa solo la pochezza (vera) della W13 quando il compagno rende meglio, con una differenza importante e in una situazione generale in cui il sette volte campione del mondo ha la piena fiducia da parte della squadra e non ci sono dubbi sul suo futuro prossimo.

A volte basterebbe guardare al passato per ritrovare parte del presente. A volte, invece, lo si mette sotto al tappeto pensando di guadagnarci. Ma non funziona, fortunatamente, sempre così.

Immagine: ANSA

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