1100 miglia in un solo giorno, 500 a Indianapolis e 600 a Charlotte. Due vetture completamente diverse, decine di voli fra le due città, gli occhi dell’America tutti su di sé. In pochi piloti hanno provato questa impresa, soltanto uno ha completato tutta questa maratona
Questo articolo è stato pubblicato originariamente sul numero 3 del Magazine di P300 nel maggio del 2021. Ora esce per la prima volta anche su p300.it in edizione integrata alla luce del tentativo di Kyle Larson di completare il Double Duty. Buona lettura.
Il Memorial Day è una delle festività civili più vissute negli Stati Uniti d’America. Nato come Decoration Day in seguito alla terribile guerra civile, assume ufficialmente il nome attuale soltanto nel 1967; in tale occasione, ora fissata per l’ultimo lunedì di maggio, gli americani commemorano i soldati caduti in ogni guerra. Non mancano mai i ricordi degli eroi deceduti in servizio così come le bandierine americane piantate davanti ad ogni tomba in ogni cimitero di guerra in terra statunitense e no.
È proprio nel weekend del Decoration Day del 1910 che i proprietari dell’Indianapolis Motor Speedway decidono di organizzare il secondo evento nella storia del catino inaugurato l’anno precedente. Nel giro di quattro giorni si tengono ben addirittura 24 gare di lunghezza variabile fra le cinque e le 200 miglia dedicate a vetture di diverse cilindrate. Tale format verrà riproposto anche a luglio in occasione dell’Independence Day e a settembre per il Labor Day, poi, a causa di un pubblico sempre più ridotto, gli organizzatori decidono di cambiare rotta, organizzando in vista del 1911 soltanto una grande corsa da 500 miglia da tenersi il Decoration Day: nasce così la “International 500-Mile Sweepstakes Race”, nota a tutti come Indianapolis 500.
Per oltre 60 anni la 500 miglia di Indianapolis viene organizzata il 30 maggio, data in cui era fissato il Decoration Day, poi rinominato nel 1967 – come detto – in Memorial Day, qualunque fosse stato il giorno della settimana tranne la domenica, in tal caso la classica per monoposto si sarebbe tenuta il giorno successivo. Per 50 di questi 60 anni la Indianapolis 500 è la gara regina del mese di maggio in America, poi anche la NASCAR decide di avere la sua classica.
La World 600
Dieci anni dopo la sua creazione, la NASCAR Cup Series è un fenomeno sempre più in crescita e le gare in calendario sono sempre di più, quasi sempre tenute in short track sterrati nel sud-est degli USA. Con gli anni debuttano anche i primi ovali asfaltati: nel 1950 viene inaugurato il Darlington Raceway, il primo vero superspeedway moderno d’America a cui fa seguito nel 1959 il Daytona International Speedway, un ovale ancora più estremo, lungo 2.5 miglia e dal banking molto accentuato che permette velocità ancora più elevate.
Ed è proprio tornando da Daytona che Curtis Turner, uno dei 33 piloti presenti alla gara inaugurale della categoria principale della NASCAR nel 1949 al Charlotte Speedway, decide di costruire proprio in questa città un nuovo ovale ispirandosi a quelli visti appunto a Daytona e a Darlington. Turner vuole farsi prestare 750.000$ e costruire una pista capace di contenere 45.000 spettatori su un terreno di sua proprietà, poi scende a più miti consigli venendo a sapere che in zona anche un gruppo guidato da Bruton Smith, già promoter dello Charlotte Speedway, vuole costruire una nuova pista. I due stringono un’alleanza e nasce il progetto di un ovale da 1.5 miglia con banking elevato, il Charlotte Motor Speedway.
Dopo il patto fra Turner e Smith, arriva anche quello con Bill France Sr., capo supremo della NASCAR: la nuova pista verrà infatti inaugurata nella domenica più prossima al Memorial Day con una gara lunga addirittura 600 miglia. Il nome adottato è quello di “World 600”, probabilmente anche per attrarre attenzioni che in quel weekend fin dal 1911 erano destinate soltanto alla Indianapolis 500.
Il primo anno rischia di saltare già tutto. Nel sito scelto a Concord, appena si inizia a scavare, si trova del granito; alla fine il costo totale sarà di quasi due milioni di dollari, oltre due volte e mezzo quanto pianificato da Turner. L’inverno poi è stranamente lungo e la posa dell’asfalto è in ritardo, al punto che Smith chiede alla NASCAR un posticipo della gara inaugurale di sei settimane. Saranno alla fine solo tre, anche perché Turner ed un suo amico minacciano armati di fucile e pistola il titolare dell’azienda a cui era stata assegnata la pavimentazione, il quale si era lamentato del ritardo nei pagamenti. Il 19 giugno 1960 si tiene la prima World 600, vinta da Joe Lee Johnson dopo 5h34’06” di gara e con quattro giri di margine sul secondo classificato.
I primi anni: Memorial Day sfasato ed i cross-over
Dal 1961 in poi, Indianapolis 500 e World 600 si disputano una nel Memorial Day (o al massimo 24 ore più tardi) e l’altra nella domenica più prossima ad esso. E, in un calendario NASCAR che prevede oltre 40 gare, è possibile saltare una corsa nei weekend prima di Charlotte per andare a Indianapolis, per il tradizionale format di qualifica diviso sui due weekend antecedenti alla gara, senza compromettere le – eventuali – chance di diventare campione della Cup Series, allora chiamata Grand National. I due mondi, tuttavia, non si amano.
Negli anni ’50 NASCAR e USAC, l’ente che organizza il campionato per le monoposto e anche la Indianapolis 500, entrano subito in una serie di dispute legali per avere il controllo del territorio ed essere gli unici a gestire il motorsport in America. Nasce così una categoria della USAC dedicata alle stock car e dall’altra parte una per monoposto – la Speedway Division – della NASCAR, con conseguenti veti reciproci.
Dunque, i piloti NASCAR non possono correre nelle gare USAC, Indianapolis 500 inclusa, e viceversa. La lotta dura appena per qualche anno, poi le acque si placano: la Speedway Division sopravvive appena due stagioni, le stock car della USAC invece fino al 1984; già nel febbraio del 1962 erano caduti i veti incrociati, almeno per le corse che erano sanzionate, oltre che da USAC e NASCAR, anche dalla FIA, dunque anche la Indy 500.
Il primo pilota NASCAR a tentare di disputare entrambe le gare nella stessa settimana è la leggenda Junior Johnson, uno da 50 vittorie nella top class della NASCAR, ma che non disputò mai una stagione completa con l’obiettivo di puntare al titolo: a Indianapolis c’è pure Curtis Turner, il quale è stato squalificato dalla NASCAR perché ha tentato di fondare un sindacato dei piloti anche con l’obiettivo di recuperare un po’ dei soldi spesi in più nella costruzione dell’ovale di Charlotte.
Nel maggio del 1963 Johnson e Turner vanno a Indy, ma la loro sorte è poco benevola. Curtis è chiamato all’ultimo minuto per guidare una vettura del leggendario Smokey Yunick, supera il test dedicato ai rookie, poi però ha un incidente nelle prove libere e, in assenza di altre vetture, non disputa le qualifiche. Johnson invece è ingaggiato insieme al rookie Bobby Unser (poi tre volte vincitore della Indy 500) per guidare una vettura realizzata da Frank Kurtis che con le sue Kurtis Kraft aveva dominato gli anni ’50.
Johnson però non è abituato alle monoposto e dunque sulla sua vettura viene montato un inusuale – allora – roll bar. L’auto, seppur innovativa anche sotto il cofano, è terribilmente lenta, inoltre Johnson non riesce ad adattarsi alla vettura, dunque dopo pochi giorni di libere si ritira dalla Indianapolis 500; anche Bobby Unser di lì a poco lascia la squadra. Johnson poche settimane più tardi conclude al secondo posto, staccato di 35”, la World 600 a Charlotte dietro a Fred Lorenzen.
Anche negli anni successivi ci sono tracce di NASCAR a Indianapolis, anche se i veri cross-over, come veniva chiamato allora il tentativo di disputare Indianapolis 500 e World 600 nella stessa settimana, alla fine saranno solo sei in altrettanti anni. Oltre a questi ce n’è anche uno alternativo: nel 1965 Colin Chapman chiama i leggendari Wood Brothers per eseguire i loro velocissimi pit stop alla Lotus 38 di Jim Clark, alla fine vincitore, poi i fratelli Wood volano a Charlotte schierando Marvin Panch, il quale si ritira per un incidente.
Nel 1967 il giovane Cale Yarborough, dopo aver gareggiato l’anno precedente solo a Indy venendo coinvolto nel clamoroso incidente al via che eliminò un terzo del plotone, diventa il primo pilota a correre nella stessa settimana a Charlotte (ritiro a causa della rottura dello sterzo dopo 58 giri e 41° posto finale) e – due giorni dopo – a Indianapolis, dove viene classificato 17° dopo un testacoda e un incidente nelle ultime fasi. Nel 1968 l’impresa di Cale viene imitata da Jerry Grant, il quale alla domenica chiude 12° in una World 600 interrotta dopo quasi due terzi di gara a causa della pioggia e quattro giorni più tardi a Indianapolis è 23° a causa di una perdita d’olio.
I risultati ottenuti migliorano all’improvviso nel biennio successivo: nel 1969 LeeRoy Yarbrough vince la World 600 alla domenica con due giri di vantaggio su Donnie Allison e il venerdì successivo ad Indianapolis è 23°. Un anno più tardi, oltre a LeeRoy Yarbrough che chiude 29° nella 600 e 19° nella 500, è proprio lo stesso Allison a fare ancora meglio: i giorni di distanza fra le due corse sono addirittura sei e Donnie vince a Charlotte con due giri di margine su Cale Yarborough, poi a Indianapolis chiude quarto nello stesso giro del vincitore e viene nominato rookie dell’anno.
E non è finita qui, dato che il giorno successivo a Indianapolis Yarbrough, dopo aver saltato al giovedì la gara NASCAR a Maryville, va a Martinsville e si prende la pole, tuttavia la frizione si romperà dopo un centinaio di giri.
La riforma del Memorial Day
Nel 1971 entra in vigore la nuova legge sulle festività civili e dunque i due calendari cominciano a sovrapporsi, in questo caso con Indianapolis al sabato e Charlotte il giorno successivo. Cale Yarborough punta tutto sulle monoposto, mentre il maratoneta Donnie Allison fa Indianapolis-Charlotte-Indianapolis in 48 ore, prima per correre la 500 miglia (sesto), poi per la 600 miglia (secondo) e infine per il tradizionale banchetto di premiazione. Per Allison, dunque c’è il nuovo record di risultati con un piazzamento medio di 4.0 e 1097.5 miglia completate sulle 1100 totali.
Nel 1972 e 1973 le ultime trasvolate, ma sempre rinunciando a Charlotte, prima col solito Yarborough (decimo, il suo migliore risultato a Indy) e poi con Bobby Allison.
Poi intervengono due eventi a chiudere questa prima era del Double Duty, la prima è che la NASCAR entra nell’epoca moderna, il calendario è diventato di sole 30 gare circa e quindi, se si vuole puntare al titolo, è fondamentale disputare ogni corsa, la seconda è il definitivo spostamento della Indy500 alla domenica, dato che ora il Memorial Day è di lunedì, e dunque la 500 e la 600 miglia si disputano in contemporanea con partenza alla stessa identica ora.
Nei 20 anni successivi ci saranno solo delle coincidenze che legheranno i piloti ai due eventi. Nel 1975 Bobby Allison è 25° a Indianapolis dopo aver rotto il cambio; nel 1976 i riflettori sono tutti su Janet Guthrie e sul fatto che potrebbe diventare la prima donna a correre la Indy 500, tuttavia la vettura non va e quindi neanche ci prova a qualificarsi. Si assiste dunque al “rapimento dell’anno”, dato che in sole 48 ore il promoter della World 600 Humpy Wheeler la contatta, compra una vettura da Ralph Moody e la iscrive alla gara NASCAR; alla sua prima corsa in Cup Series Janet si qualifica 27esima e chiude 15esima stupendo tutti.
Gli ultimi incroci storici sono legati a Neil Bonnett, che nel 1979 rompe un motore la mattina delle qualifiche a Indianapolis e fa le valige, a Tim Richmond, futura star NASCAR che inizia in monoposto e nel 1980 col nono posto è rookie dell’anno alla 500 miglia, e infine al 1983, quando Ken Schrader tenta una sortita in Indiana, ma finisce a muro nelle libere e chiude qui la carriera a ruote scoperte. Poi per dieci anni il buio, rischiarato alla fine da una serie di riflettori.
Il vero Double Duty
Nel 1992 Bruton Smith ed Humpy Wheeler, rispettivamente proprietario e promoter della pista di Charlotte, decidono che è ora di dare nuovo slancio all’ovale che, nella gara di maggio, ormai non più World 600 bensì Coca-Cola 600 dopo l’accordo pubblicitario iniziato nel 1985 e ancora in vigore, soffre tanto sia la concorrenza di Indianapolis che il caldo e l’umidità potenzialmente asfissianti.
Dunque, mettono in piedi un progetto mai visto fino a quel momento: far diventare l’ovale il primo superspeedway, nell’accezione che si contrappone a short track, dotato di illuminazione artificiale. La prova generale è la All-Star Race del 1992 ed è un successo incredibile, dunque per il 1993 si decide di posticipare la partenza della 600 miglia per farla concludere sotto i riflettori. Il nuovo orario previsto per la bandiera verde è quello delle 16:30 locali.
Quindi, le ore fra la partenza di Indianapolis e quella di Charlotte diventano circa quattro e mezza, giusto il tempo della 500 miglia (più o meno tre ore) ed il viaggio con un jet privato di un’ora per Charlotte. Per fare cosa? Ovviamente non per guardare entrambe le gare come un supertifoso, bensì per correrle entrambe nello stesso giorno. 1100 miglia in circa otto ore, al cambio sono 1770 km da soli al volante con in mezzo un frenetico break per colmare i circa 695 km che separano i due circuiti.
Dopo il debutto sotto le luci anche con la Coca-Cola 600, vinto ovviamente da Dale Earnhardt, in vista del 1994 Humpy Wheeler fa due conti e capisce che l’impresa è possibile, anche per lanciare ulteriormente la Coca-Cola 600 per almeno pareggiare la popolarità in quel giorno con la Indianapolis 500. Wheeler vuole il bersaglio grosso e punta subito alla stella del motorsport americano, Mario Andretti. Per questo Humpy a gennaio chiede al nipote John di intercedere con Piedone, all’ultima stagione in carriera.
John Andretti sta vivendo un momento particolare nella sua carriera. Alla fine del 1992, dopo tre buone stagioni in CART con anche una vittoria, ha perso il sedile dell’Hall/VDS Racing ed è a piedi. Non sta fermo però e vuole dimostrare che ha un futuro. A gennaio corre con una Jaguar la 24 ore di Daytona, ad aprile debutta con i dragster e alla prima gara arriva fino in semifinale, a maggio lo chiama A.J. Foyt per la Indy500 ed ottiene un ottimo decimo posto, ad agosto partecipa al primo test generale della NASCAR a Indianapolis in vista della inaugurale Brickyard 400 del 1994 con il team di Billy Hagan (durante il quale finisce a muro in una simulazione di gara) e già dimostra l’intenzione di impegnarsi sia in monoposto che con le stock car, anche se solo per correre entrambe le gare di Indianapolis; infine, a ottobre debutta in Cup Series.
John, dunque, con questo in mente risponde a Wheeler: “No, non penso che Mario lo farebbe. Ma credo di conoscere qualcuno disposto a farlo. Qualcuno che è più giovane e incosciente.” E ovviamente si riferisce a sé stesso. Il 19 gennaio 1994 arriva l’annuncio ufficiale: John Andretti disputerà, o almeno proverà a farlo, nello stesso giorno la Indianapolis 500, sempre sulla Lola #14 di A.J. Foyt, e poi la Coca-Cola 600 sulla Chevrolet anch’essa col #14 dell’Hagan Racing.
Le difficoltà dell’impresa non sono limitate però solo alle 1100 miglia in un giorno o agli imprevisti di Indianapolis per il meteo e per la lunghezza della gara, ma anche al calendario della Cup Series, che a maggio prevede poche pause, e al suo intrecciarsi col lungo processo di qualificazione per la 500 miglia. Per fortuna domenica 8 maggio la NASCAR non è in pista e dunque lunedì 9, nel terzo giorno di prove libere John Andretti è a Indianapolis e lo è anche martedì e mercoledì, poi deve volare a Sonoma, California per le libere e le qualifiche della Cup Series dove venerdì si piazza 38° in griglia. Sabato John è di nuovo a Indy per il primo giorno di qualifiche per la 500 miglia, fondamentale per avere un posto al sicuro fra i 33, visto che ha praticamente solo questa giornata a disposizione.
Però a Indianapolis piove e quindi l’inizio delle qualifiche slitta di tre ore, poi per fortuna si può iniziare e la sorte aiuta Andretti, dato che col suo numero di entrata in pista riesce a qualificarsi al sabato, poi deve volare di nuovo a Sonoma. Qui John viene sapere che alla fine del primo giro di qualifiche, chiuso alla domenica per la pioggia, è decimo in griglia con le sue 223 mi/h di media, poi chiude la gara sullo stradale californiano al 19° posto, il suo miglior piazzamento fino a quel momento. Andretti trascorre la settimana successiva disputando le libere a Indianapolis, poi, mentre c’è il terzo giorno di qualifiche, vola a Charlotte dove disputa l’Open di qualificazione per la All-Star Race, ma viene coinvolto in un incidente e chiude 35° e penultimo.
Con la domenica libera, Andretti può guardarsi tranquillamente il Bump Day e avere tre giorni di riposo. Mercoledì è a Charlotte, dove ci sono le qualifiche per la Coca-Cola 600, il secondo momento decisivo per capire se l’impresa sia sulla strada buona o no. E John stupisce tutti, piazzando la sua Chevy al nono posto; Andretti, dunque, è in griglia per entrambe le gare. Non c’è pausa per lui, tuttavia: il giorno dopo è a Indianapolis per il Carb Day, il venerdì di nuovo a Charlotte per le libere della Cup Series.
Domenica 29 maggio 1994. Alle 11:00 locali di Indianapolis, le 12:00 di Charlotte perché in Indiana fino al 2006 non si osserva l’ora legale, splende il sole è questa è già un’ottima notizia per Andretti. Il meteo non gioca brutti scherzi e quindi basterebbe una gara senza contrattempi per rispettare i piani desiderati.
John scatta dalla decima posizione e la sua prima metà di gara è straordinaria, riesce a salire fino al terzo posto, poi la sua Lola diventa sempre più sovrasterzante perdendo terreno. In una delle ultime 500 miglia veramente selettive, vinta da Al Unser Jr., Andretti chiude al decimo posto, staccato di quattro giri. Il sogno di disputare 1100 miglia in un giorno solo è svanito, ma il fatto che la corsa si sia chiusa in sole 3h06’29” gli lascia quel margine di sicurezza per volare in aereo a Charlotte. Sul volo gli viene fatta una flebo di ricostituenti, ma le energie ci sono ancora. Dopo l’aereo c’è l’elicottero e John atterra sul prato davanti alla linea d’arrivo a pochi minuti dal via previsto per la Coca-Cola 600.
Osannato da tutti, Andretti deve solo infilarsi il casco e salire in vettura; l’aver saltato il drivers’ meeting, purtroppo, gli costa l’ottima posizione in griglia e deve partire dal fondo, ma allo sventolare della bandiera verde John Andretti entra nella storia: è diventato il primo pilota in assoluto a disputare Indianapolis 500 e Coca-Cola 600 nello stesso giorno. La gloria dura poco però: al giro 90 finisce in testacoda e provoca la prima caution della gara, al giro 220 si ritira per la rottura dell’albero motore. Anche se alla fine le miglia percorse da Andretti sono state “soltanto” 820 sulle teoriche 1100, il fatto che ce l’abbia fatta apre la lista dei desideri a molti altri piloti.
Il tentativo fallito di Davy Jones
L’anno successivo a provarci è Davy Jones, un pilota di molto talento da giovane (fu terzo nel famoso campionato di Formula 3 inglese in cui battagliarono Senna e Brundle) che puntò però sull’endurance e che nel 1986 fu compagno proprio di John Andretti in BMW. Dopo aver corso saltuariamente in CART (settimo alla Indy 500 nel 1989 con il team Euromotorsport di Antonio Ferrari), nel 1995 tenta il grande salto in Cup Series con il Jasper Motorsports, ottenendo anche il sedile per la Indy 500 con il Dick Simon Racing.
Il percorso di Davy è ben più complicato dato che, a causa delle difficoltà in Indiana, deve saltare l’Open a Charlotte cedendo il sedile a Bobby Hillin Jr., poi alla domenica, nell’incredibile Bump Day che spedisce a casa in anticipo l’intero squadrone Penske, è proprio lui l’ultimo pilota qualificato per la 500 miglia. Pochi giorni dopo i sogni di Double Duty svaniscono: poco prima delle qualifiche, nelle libere finisce a muro ed il team non riesce a preparare il muletto in tempo. Non avendo provisional su cui contare, il 46° tempo virtuale non gli garantisce un posto fra i 42 qualificati e per Davy Jones c’è la DNQ. La domenica successiva si classificherà 23° nella Indy 500. Pochi giorni più tardi arriva l’interruzione del rapporto con il Jaspers Motorsports dove viene sostituito dallo stesso Hillin; la quarta DNQ in 11 gare gli è stata fatale.
Robby Gordon e Tony Stewart, una vita al volante
Dopo un 1996 senza tentativi, anche a causa della confusione generatasi dallo split fra CART e IRL, il 1997 dovrebbe vedere addirittura due tentativi di Double Duty, ma entrambi naufragano sotto un mare di pioggia. A fine aprile a Talladega la gara viene rinviata addirittura di due settimane in quello che era in origine un weekend libero per la Cup Series, ma occupato dalla IRL per il primo Pole Day della 500 miglia di Indianapolis. Salta così dopo mille trattative fra i team owner Cale Yarborough (lato NASCAR) e A.J. Foyt (lato IRL) la partecipazione di Andretti alla gara in monoposto, anche perché John a Talladega quel sabato 10 maggio è in pole e questo ha la meglio nelle discussioni poi naufragate. A favorire nuovi tentativi è inoltre il fatto che la partenza a Charlotte viene programmata sempre più avanti e nel 1997 è circa alle 17:45 locali, dunque i piloti hanno un’ulteriore ora di tempo in più.
Il progetto che va avanti con basi solide è invece quello di Robby Gordon, un altro che – come Andretti – ha appena lasciato le monoposto per puntare a partire da quel 1997 sulle stock car. Dopo gli ottimi 1994 e 1995 con in CART, Gordon accetta l’invito a fare il grande salto da parte di Felix Sabates, grande capo del SABCO Racing, che investe sul Double Duty una grande mole di denaro.
Robby salta la gara posticipata di Talladega venendo sostituito da Joe Nemechek e punta sul Pole Day che diventa un clamoroso fallimento a causa dei residui dello split. Dopo essersi qualificato 12° a Indy e, in seguito al canonico ping pong fra Indianapolis e Charlotte, 28° a Charlotte, domenica 25 maggio 1997 tutto è pronto per il secondo Double Duty nella storia, tuttavia il cielo decide diversamente. A Indianapolis la pioggia cade fin dal mattino, poi si ferma e alla fine verso mezzogiorno inizia il diluvio. Dopo 2h30’ di rain delay, la IRL decide di posticipare la corsa al lunedì; 15’ dopo Gordon è già sul volo per Charlotte. L’unica speranza di mantenere in piedi l’impresa è che anche in North Carolina piova, e in effetti avviene questo, tuttavia non a sufficienza.
Dopo un rain delay, la Coca-Cola 600 parte, ma diventerà famosa come la Coca-Cola 500, dato che al circuito è imposto un coprifuoco e la corsa deve finire entro l’una di notte. La gara viene così accorciata di 100 miglia, ma Gordon non ci va nemmeno vicino, ritirandosi per un incidente dopo 186 giri sui 333 disputati. Il giorno dopo Robby torna a Indianapolis ed è scatenato, al via guadagna otto posizioni in soli due giri ed è già quarto, poi dopo 15 giri torna la pioggia e si decide per un ulteriore posticipo al martedì; in questa occasione alla ripartenza Gordon attacca Buhl e sul rettilineo opposto prende la scia di Luyendyk, il quale a sua volta segue il leader Tony Stewart, poi all’improvviso prende la via della pit lane. Il suo motore ha preso fuoco e la sua 500 miglia è durata appena 19 giri.
Dopo un 1998 in cui solo il leggendario meccanico Danny “Chocolate” Myers fa il Double Duty, nel 1999 è la volta di un altro pilota che, dopo essere cresciuto in monoposto, passa alle stock car. Questa volta è il turno proprio del leader di quei primi giri a Indy nel 1997, ovvero Tony Stewart che a inizio 1999 lascia la IRL per correre in Cup Series con Joe Gibbs. Subito viene allestita, anche grazie allo sponsor Home Depot, la grande impresa. Nel ping pong già raccontato per Andretti, Stewart però sa fare molto meglio. Sabato 22 maggio a Indianapolis Tony qualifica la #22 del Tri-Star Motorsports al 24° posto, poi vola a Charlotte dove in serata, da rookie, vince prima l’Open e poi arriva addirittura secondo nella All-Star Race.
Domenica 29 maggio è una bella giornata su entrambe le piste e senza incidenti di rilievo nella 500 miglia, dunque il Double Duty, il secondo della storia, va in porto. A Indianapolis Stewart non è mai davvero in gara e migliora solo leggermente il risultato di Andretti di cinque anni prima, chiudendo nono ma sempre a quattro giri dal vincitore Kenny Bräck, poi vola a Charlotte e regala spettacolo. Dopo essere partito ultimo (cedendo la 27esima posizione in griglia) per aver saltato il drivers’ meeting, Stewart rimonta inesorabilmente e passa al comando prima dal giro 268 al 271 e poi di nuovo dal 302 al 309. I 13 giri in testa gli fanno accarezzare il sogno, ma in una lunghissima fase finale senza caution si deve accontentare del quarto posto, degli onori generali da parte di tutti e del nuovo record di miglia completate in un giorno, 1090 sulle 1100 possibili.
Nel 2000 Robby Gordon ci riprova, stavolta con il Team Menard su entrambi i fronti, dato che è passato con questa squadra per il secondo tentativo di lanciarsi in Cup Series dopo che il precedente era fallito a metà stagione. Ed ancora una volta la pioggia gli impedisce di completare l’impresa. Dopo un mese relativamente tranquillo, escluso il fatto che per qualificarsi per Charlotte ha dovuto usufruire di una provisional, la mattinata di domenica 28 maggio è bagnata in Indiana e la partenza viene rinviata di tre ore. Per Gordon si profila così una scelta difficile, ovvero decidere a quale gara rinunciare. Alla fine – giustamente – decide di rimanere a Indianapolis e conclude la 500 miglia in sesta posizione. Nel frattempo, a Charlotte la gara comincia e a salire in vettura al posto di Robby è P.J. Jones; Gordon dopo Indy vola lo stesso in North Carolina e, approfittando di una bandiera rossa ovviamente per la pioggia, sale in vettura poco dopo metà gara e completa la corsa dopo essere stato al volante in quella giornata per circa 700 miglia.
L’apoteosi del 2001
Nel 2001 c’è il secondo tentativo di Double Duty di Tony Stewart. La vettura in Cup Series è sempre la #20 del Joe Gibbs Racing, quella a Indianapolis stavolta è la #33 del Chip Ganassi Racing; quasi sicuramente è il tentativo più importante di questa avventura. Il mese scorre fra tanti rischi, ma alla fine Tony viene premiato: ci sono tre giorni di pioggia a Indianapolis, però tutti durante le libere, poi sabato 12 maggio (con la Cup Series che riposa) piazza la vettura al settimo posto in griglia, il 19 maggio nella All-Star Race inizia a piovere proprio alla partenza e c’è un mega incidente, poi alla fine vincerà Jeff Gordon con Tony terzo.
Di domenica 27 maggio 2001 abbiamo anche il dettaglio minuto per minuto della giornata di Stewart. Alle 11 in Indiana (mezzogiorno della costa est) parte la Indianapolis 500, il cielo è grigio e non piove per il momento, Tony è in vettura e Richie Hearn è pronto in caso di problemi. E questi arrivano a circa metà gara con ben due scrosci. Per fortuna di Stewart la pioggia è passeggera e la pista si asciuga in fretta, tuttavia il tempo perso è di circa mezz’ora sulla tabella di marcia.
Tony nel frattempo va veloce, guida per 13 giri di cui 12 fra il 137 ed il 148, poi deve cedere il testimone a Castroneves che si invola verso la vittoria. Stewart taglia il traguardo alle 15:30 in sesta posizione dopo aver completato tutti e 200 i giri in programma. Cinque minuti dopo si è già svestito per il check-up al centro medico e alle 15:45 sale su un elicottero diretto al Signature/Combs Flight Center. Qui alle 16:08 decolla su un jet privato diretto a Charlotte; a bordo gli viene fatta una flebo di ricostituenti, poi è pronto per la seconda avventura.
Alle 17:03 l’aereo atterra al Concord Regional Airport e Tony scende subito per salire su un altro elicottero. A Charlotte c’è il team ad aspettarlo, ma anche Mike McLaughlin che deve capire se inizierà lui la gara o no. L’elicottero atterra nell’infield del Charlotte Motor Speedway alle 17:20, 25 minuti prima del via previsto della Coca-Cola 600; Tony deve lasciare la 12esima posizione in griglia sempre per la solita questione del drivers’ meeting, tuttavia la sua Pontiac è regolarmente al via con lui al volante. Per la terza volta è ufficialmente Double Duty, anche se rischia di durare molto poco, dato che al terzo giro Stewart è già in testacoda.
Tony via radio nega la stanchezza e riparte, ma soprattutto rimonta. Non guiderà per neanche un giro, tuttavia è sempre lì nella top10 se non nella top5 esattamente come due anni prima; Stewart alla fine conclude la corsa al terzo posto; questo non solo è il miglior risultato singolo e complessivo in questa pazza impresa, ma è diventato il primo pilota nella storia a completare tutte le 1100 miglia in programma nel Memorial Day.
Fra i tanti risultati ottenuti in carriera da Tony Stewart forse in pochi si ricordano del Double Duty, però con questa impresa è entrato nell’olimpo dei piloti americani e dovrebbe esserlo in quello mondiale. 1100 miglia fatte da un singolo pilota nello stesso giorno non si vedevano dai tempi della Mille Miglia, una gara ancor più impegnativa sicuramente, sia perché fatta senza break, rifornimenti esclusi, sia per il percorso ovviamente più impegnativo rispetto alle 800 curve a 90° a sinistra a Indianapolis e ai 800 curvoni dal banking ripido a Charlotte, anch’esse non banali, però completamente opposte rispetto alle strade italiane.
Robby Gordon, finalmente un po’ di fortuna
L’anno successivo, al terzo tentativo Robby Gordon finalmente ha la fortuna dalla sua, almeno domenica 26 maggio. La pioggia non ostacola le sue gare del 2002 e a Indy, dopo essersi piazzato 11° in griglia su una vettura gestita da Team Menard e Richard Childress Racing (che decide di credere in lui e lo rilancia ancora una volta in Cup Series) conclude ottavo la 500 miglia, poi vola a Charlotte per salire sulla #31 del RCR e, dopo essere scattato dal fondo come sempre, recupera fino alla top5. Però la stanchezza ha la meglio e, dovendo lottare con l’assetto della vettura, inizia ad accusare dei crampi ad una gamba. Gordon arriva a perdere due giri, poi ne recupera uno e conclude 16°. Le 1098.5 miglia completate in un giorno gli valgono un virtuale secondo posto assoluto nella storia del Double Duty.
La prima era del Double Duty si chiude ancora nel segno di Robby Gordon nel 2003 e nel 2004. Nella prima occasione il pilota del RCR a Indianapolis ci prova addirittura con l’Andretti Green Racing; le qualifiche vanno alla grande e Robby si piazza in prima fila col terzo tempo, poi però accusa problemi al cambio dovendo ritirarsi a 31 giri dalla fine. Con un’ampia finestra di tempo a disposizione, riesce a volare a Charlotte e, come in altre occasioni, arriva la pioggia a tagliare corto la sua maratona. Jimmie Johnson vince una corsa terminata dopo 276 dei 400 giri in programma con Gordon 17° a una tornata.
Anche nel 2004 la pioggia rompe le uova nel paniere. Al via della Indianapolis 500 con una propria vettura, Robby sta salutando la IRL visto che l’impegno in NASCAR sembra ormai la priorità. La bandiera rossa viene sventolata dopo poco meno di 30 giri; Gordon deve lasciare Indianapolis per volare a Charlotte con la speranza – forse una certezza personale – che, data la quantità di pioggia, la 500 miglia verrà conclusa il giorno dopo con lui al volante.
Invece il brutto tempo dura poco, dopo due ore di interruzione la gara riprende e al suo posto deve salire in vettura Jaques Lazier, il quale sarà costretto al ritiro con un semiasse rotto prima di metà gara. Poca gloria anche in Cup Series per Robby, solo 20° al traguardo staccato di tre giri. Così a far più rumore in quell’anno è la visita di Tony Stewart a Indianapolis durante il Bump Day in cui indossa anche una tuta del team di A.J. Foyt in attesa di un ok da sponsor e team, tuttavia l’accordo non arriva e un possibile, ma improvvisato, Double Duty non va in porto.
Problemi di orario e non solo
Dal 2005 al 2010 non ci sono tentativi, anche perché in questi anni – in maniera molto controversa – la partenza della Indianapolis 500 viene posticipata di un’ora, di fatto impedendo ogni incastro possibile fra le due corse. Nel 2006 l’Indiana inizia ad adottare l’ora legale così come la North Carolina e dunque le due gare sono finalmente nello stesso fuso orario. Si torna a immaginare un ritorno al passato, fatto che avviene a partire dal 2011. Dal 2010, inoltre, l’orario di partenza della Coca-Cola 600 è fissato per le 18:00, dunque c’è ancora qualche minuto in più fra le due corse.
Ad essere cambiato nel frattempo però è il motorsport. I rischi connessi a questa impresa sono sempre più grandi, gli impegni del mese (anche con gli sponsor) sempre più numerosi, poi ci sono i continui voli fra le due piste contrapposti a due campionati sempre più competitivi in cui anche una sola gara di flessione potrebbe costare cara per il campionato, e allora i team owner cominciano a dire di no agli eventuali desideri dei piloti. E non serve a nulla nemmeno il rumor secondo il quale il solito Bruton Smith da Charlotte offra 20 milioni di dollari per chi avesse vinto Indianapolis 500 e Coca-Cola 600 nello stesso giorno.
Kurt Busch rilancia il Double Duty
Negli ultimi dieci anni soltanto un pilota ha avuto l’ok. Nel maggio del 2013 Kurt Busch, campione 2004 della Cup Series e pilota del Furniture Row Racing, è alla caccia di un rilancio della carriera, il burrascoso divorzio dal Team Penske è ancora recente ed il nuovo team ha bisogno di un po’ di tempo per rendere al meglio, tuttavia i risultati iniziano a vedersi. Il 9 maggio scopre le sue carte e scende in pista in un test privato con l’Andretti Autosport per verificare l’adattamento ad una monoposto. La sessione va bene e Busch gira anche a 218 mi/h di media. Il progetto a lungo termine si concretizza un anno dopo e Kurt Busch, ora in Cup Series con lo Stewart-Haas Racing (e ovviamente il titolare Tony Stewart non può dire di no), decide di provare il Double Duty.
Di tutti i piloti che ci hanno provato fino a questo momento, Kurt Busch è il primo che non ha un background in monoposto prima di passare alle stock car, dunque il tentativo è da apprezzare forse ancora di più. Il mese di maggio a Indianapolis vede tre soli giorni di pioggia, tutti nelle libere, e Kurt cresce alla distanza, dal refresher test in cui supera le 220 mi/h, passando per il terzo giorno in cui è secondo in graduatoria ed infine a sabato 17 maggio quando, prima di volare a Charlotte per chiudere 11° nella All-Star Race, è decimo nel primo giorno di qualifiche a Indianapolis, primo degli esclusi dalla Fast Nine. Il giorno successivo piazza la #26 dell’Andretti Autosport al 12° posto assoluto in griglia a oltre 230 mi/h.
Il giorno dopo Busch finisce a muro nelle libere, ma l’incidente non lo scuote più di tanto; domenica 25 maggio 2014 splende il sole su entrambe le città e dunque il Double Duty va in porto. Nella 500 miglia Kurt si comporta bene e, man mano che i giri passano, si avvicina di più alla testa della gara. Non guiderà neanche un giro, tuttavia il sesto posto finale valgono il miglior risultato nella prima tappa di questa impresa (eguagliando Gordon nel 2000 e Stewart nel 2001) ed il premio di rookie dell’anno, oltre ovviamente agli applausi ed all’invito a tornare. A Charlotte invece Busch non è così fortunato e la sua 600 miglia, iniziata come di consueto dal fondo, dura poco più di metà gara, poi è costretto al ritiro per la rottura del motore, la stessa sorte che avrà dieci giri più tardi la compagna di squadra Danica Patrick.
Il presente ed il futuro
Dal 2014 ad oggi si sono susseguite tante idee, fondate o meno, di Double Duty, tuttavia nessuna si è mai concretizzata malgrado i piloti di talento ci siano. Una lista non esaustiva, oltre a quelli che ci hanno provato ma non hanno più tentato l’impresa, comprende Kyle Busch, Danica Patrick, A.J. Allmendinger, Juan Pablo Montoya, James Davison, Kyle Larson e le new entry più recenti di Jimmie Johnson, Conor Daly, Santino Ferrucci e Scott McLaughlin, solo per citare chi negli anni recenti ha accarezzato o toccato con mano entrambe le vetture. Non serve essere un fenomeno per provare il Double Duty, al punto che il tentativo più realistico quest’anno rischiava di essere quello di Cody Ware, grazie al fatto che il team di papà Rick è sbarcato anche in IndyCar e dunque la possibilità per lui si sarebbe stata.
Alla fine, il bilancio di questi ultimi 27 anni è di dieci Double Duty tentati. Di questi, sei sono andati a buon fine, con John Andretti nel 1994, Tony Stewart nel 1999 e nel 2001, Robby Gordon nel 2002 e nel 2003 e infine con Kurt Busch nel 2014. Quattro, dunque, i fallimenti, quello del 1995 di Davy Jones (DNQ a Charlotte), e ben tre per Robby Gordon, tutte per la pioggia e tutte in maniera spuria, nel 1997 disputò sì entrambe le gare, ma in due giorni diversi, nel 2000 saltò in macchina a Charlotte a gara iniziata, mentre nel 2004 non concluse in prima persona a Indianapolis. L’unico a completare le 1100 miglia in programma (che ora con l’overtime in NASCAR potrebbero essere anche di più) è stato Tony Stewart in quel magico 2001, Gordon si è fermato a 1098.5 nel 2002 mentre Busch e Andretti sono staccati a quota 906.5 e 820.
Non sappiamo ancora chi, e nemmeno quando, sarà il prossimo a tentare il Double Duty, però il desiderio di vedere un nuovo pilota cimentarsi in un’impresa lunga 1100 miglia fra Indianapolis e Charlotte, le due capitali motoristiche d’America, al culmine di un mese frenetico saltando di macchina in macchina, di aereo in aereo, è tanta soprattutto per i tifosi, alla caccia di un sogno e di un nuovo idolo di ammirare come è successo con John Andretti, Tony Stewart, Robby Gordon e Kurt Busch.
Post scriptum del maggio 2024
Dopo lunghi 10 anni di attesa, finalmente nel 2024 ci sarà un nuovo Double Duty. Il pilota che ha deciso, ed è stato sostenuto in questa scelta, di tentare di disputare la Indianapolis 500 e la Coca-Cola 600 nello stesso giorno era uno dei papabili anche degli anni scorsi, ovvero Kyle Larson, uno che nella sua carriera ha guidato le macchine più disparate fra asfalto e sterrato.
L’annuncio del Double Duty è arrivato già lo scorso anno, in maniera significativa (ma poco evidente) a 500 giorni esatti dalla 108esima edizione della Indy 500 ed ha risvegliato l’interesse per l’impresa del Memorial Day. Oltre alla sua tradizionale #5 dell’Hendrick Motorsports, in Indiana il pilota di Elk Grove guiderà la #17 dell’Arrow McLaren in collaborazione con lo stesso Hendrick Motorsports.
I primi giri di Larson in monoposto sono arrivati proprio ad Indianapolis nello scorso ottobre per il Rookie Orientation Program dopo aver ricevuto una dispensa dal test precedente in Texas in quanto ritenuto già con sufficiente esperienza sugli ovali ad alta velocità. Passato il ROP, il campione 2021 della NASCAR Cup Series ha poi disputato un test a Phoenix a febbraio la sessione generale di nuovo a Indy ad aprile dove, nell’unica giornata completata prima dell’arrivo della pioggia, si è piazzato subito al secondo posto assoluto con un giro a 226.384 mi/h di media.
Poi è arrivato il mese di maggio e, mentre gli altri piloti che avevano provato il Double Duty in passato avevano solo due grossi impegni ovvero NASCAR e IndyCar, Larson ha deciso di fare un triplo salto carpiato dentro il mese di maggio.
Il primo weekend è stato già diviso in due, prima la gara della High Limit Racing (il campionato dirt track organizzato dallo stesso Larson insieme al cognato Brad Sweet) a Lakeside dove venerdì 3 è arrivato terzo e sabato 4 secondo. Al sabato pomeriggio era in Kansas per libere e qualifiche della Cup Series, poi domenica la gara NASCAR dove ha conquistato la storica vittoria in volata battendo Chris Buescher di 0.001″.
Poi è tempo di pensare ad Indianapolis caro Kyle? Ovviamente no, perché bisogna accontentare anche moglie e figlia e quindi dopo il Kansas si vola al concerto di Taylor Swift. Sì, ma a Parigi. Appena tornato dalla Francia Larson è in pista a Darlington ma domenica e lunedì saranno decisamente peggiori del weekend precedente. In Cup Series Kyle finisce in testacoda e a muro nel finale ritirandosi, il giorno dopo nella High Limit Racing a Kokomo addirittura fa un flip uscendone indenne.
Poi, finalmente, è tempo di Indianapolis dove però i primi due giorni di prove libere vengono fortemente condizionati dalla pioggia. E Larson, più che nervoso, si dice annoiato per le ore passate in attesa nel motorhome.
Ed ora si entra nel vivo. Da oggi fino a domenica pomeriggio Larson sarà a Indianapolis per la terza sessione di libere e il Fast Friday, primo vero banco di prova per Kyle dopo i buoni test finora disputati. Dunque sabato la Q1 e, in caso di ottima prestazione, domenica la Q2 per la pole position. Larson ha già dichiarato che fino a questo punto punterà su Indianapolis rinunciando a libere e qualifiche per la All-Star Race a North Wilkesboro (al suo posto in vettura niente meno che Kevin Harvick) mentre sabato non farà una folle corsa – o meglio, volo – per disputare la batteria di qualificazione. Domenica sera, dunque, arrivato da Indianapolis, Larson scatterà dal fondo della griglia nella All-Star Race di cui è campione in carica.
Lunedì 20 altro volo verso Indy per le FP5 prima di un attimo di respiro fino a venerdì 24 dove ci sarà il Carb Day. Nuovo aereo per Charlotte dove sabato 25 ci saranno prove libere e qualifiche per la Coca-Cola 600. Infine, il clou domenica 26 magglio con il Double Duty, prima a Indianapolis e infine a Charlotte. In qualsiasi caso l’orario da segnarsi in rosso sarà quello delle 22:20, ora italiana, ovvero circa 4h dopo la bandiera verde della 500 miglia e più o meno 2h prima della green della 600 miglia. Entro le 22:20 Kyle Larson dovrà essere in volo per trasferirsi in North Carolina. Qualsiasi ritardo in Indiana comprometterà la sua gara IndyCar (per la quale pronto a sostituirlo c’è Tony Kanaan) dato che la priorità è la NASCAR e quel campionato.
Al termine di questa maratona, si spera di successo anche se bisogna ancora valutare Larson nel traffico di Indianapolis, il meritato riposo? Tutt’altro: venerdì 31 maggio c’è la High Limit Racing a Lawrenceburg prima del weekend NASCAR a Gateway. Perché l’amore di Kyle Larson per le corse vince su tutto. Buon Double Duty a tutti.
Immagini: Media NASCAR, Media IndyCar, Wikimedia Commons
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