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Kyle Busch, una carriera leggendaria ancora tutta da scrivere

di Gabriele Dri
NascarLiveITA
Pubblicato il 18 Marzo 2019 - 21:00
Tempo di lettura: 19 minuti
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Kyle Busch, una carriera leggendaria ancora tutta da scrivere

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Vorrei iniziare questo omaggio a Kyle Busch con una domanda (se volete retorica) che mi sono fatto pensando alla sua carriera: quando uno sportivo diventa una leggenda? Quando vince a ripetizione? O quando porta a casa una serie di campionati? Quando continua a trionfare nonostante l’età che avanza? Oppure quando conquista successi in diverse ere della categoria? Quando raggiunge traguardi mai toccati da nessuno? Sicuramente è una combinazione di tutte queste cose e non lo si diventa da un giorno all’altro.

Io invece sono una persona più pratica che filosofica e quindi ho bisogno di dati e statistiche, non di riflessioni. E dunque vi espongo la mia – discutibile – proposta: uno sportivo nell’era di Internet diventa una leggenda quando su Wikipedia la lista completa delle sue vittorie è una voce separata da quella personale. Lo so, è una interpretazione puramente basata sui numeri e su parametri di formalità estetica di una enciclopedia online, ma è pur sempre un dato notevole, riservato a ben pochi sportivi. E allora posso dire che Kyle Busch è “diventato” una leggenda dello sport il 18 gennaio del 2017. E non passa settimana che questa voce venga aggiornata.

Dopo questa dissertazione, torniamo al vero omaggio a questo pilota che lo scorso weekend ha raggiunto la quota incredibile di 200 vittorie in Nascar. Lo sappiamo bene, non si possono fare confronti con le 200 vittorie di Richard Petty e nemmeno lo stesso Kyle vuole che siano fatti. Sarebbe come confrontare le mele con le pere. Possibilità diverse, categorie diverse, regolamenti diversi, tutto è cambiato dal 1984, anno dell’ultima vittoria di Petty, al 2004, quando ci fu il primo successo di Busch.

Richard Petty ha conquistato 200 vittorie in Cup Series e questo basterebbe per chiudere i conti. Ma anche lui ha i suoi asterischi. Ad esempio, ha vinto anche una gara nelle Convertible, una categoria che allora (alla fine degli anni ’50) era considerata alla stregua della Xfinity o dei Truck, ma non viene conteggiata nelle 200. Petty poi ha corso quasi 15 anni nella prima era della Nascar, quella ad esempio in cui il calendario del 1964 prevedeva 62 gare (e Richard le corse in pratica tutte vincendone “solo” 9). E’ l’era pre-Winston Cup (iniziata nel 1972), l’era delle 27 vittorie in 48 gare disputate nel 1967. Periodi che – come si può capire – non si possono comparare.

Quando Kyle Busch nasce a Las Vegas il 2 maggio 1985, Petty ha già conquistato la 200esima e ultima vittoria l’anno precedente, il 4 luglio 1984 a Daytona, in una giornata storica cominciata con Ronald Reagan che dall’Air Force One in viaggio verso la Florida dice il classico “Gentleman, start your engines!” e poi, una volta atterrato, va in tribuna stampa, commenta una fase della gara alla radio e poi alla fine si fa ovviamente una foto col più vincente di tutti i tempi. La carriera di “The King” durerà ancora fino al 1992 ma in quel 1985 ha già 47 anni. Quel 2 maggio è un giovedì, la domenica precedente Petty è arrivato settimo a Martinsville, la domenica dopo si ritirerà a Talladega per la rottura di una valvola e sicuramente non lo sa che dall’altra parte dell’America è nato uno dei suoi eredi.

La carriera di Busch inizia in una delle classiche downtown americane, quelle con le casette indipendenti e le stradine chiuse con pochissimo traffico. E’ qui, in Duneville Street, che papà Tom, ex pilota sugli short track, costruisce due kart per i suoi due figli, Kurt (di sette anni più grande) e Kyle. Da qui il passo verso il Bullring, lo storico ovale sterrato di Las Vegas, è breve. Il primo ad arrivarci è ovviamente Kurt, ma il fratellino ad appena 10 anni lo segue e ne diventa il crew chief. Poi, a 13 anni, scende anche lui in pista e le vittorie fra Legends e Late Model arrivano numerose fra il 1998 e il 2001. Ma al suo fianco non c’è più il fratellone, dato che nel 2000 è stato scelto da Jack Roush per la Truck Series (arriverà secondo in campionato) e a fine stagione debutterà in Cup Series.

Kyle Busch ha 16 anni quando – evidentemente anche su consiglio di Kurt – viene scelto anch’egli da Roush per sostituire a metà stagione sulla vettura #99 il facilmente dimenticato Nathan Haseleu (che a sua volta aveva preso il posto di Kurt passato definitivamente in Cup Series). Il debutto ufficiale arriva il 3 agosto 2001 (a soli 16 anni e 3 mesi di età) all’Indianapolis Raceway Park. Qui Kyle si qualifica “solo” 23°, ma poi in gara risale fino al nono posto finale. E così arriva subito la prima (di 642) top10 in Nascar.

Il suo nome è già sulla bocca di tutti. Due settimane dopo – all’ora demolito Chicago Motor Speedway – parte quinto ed è per la prima volta in testa ad una gara al giro 147, quando ne mancano soltanto 28 alla fine. Poi arriva una caution e alla ripartenza ai -12 rimane senza carburante, spegnendo i suoi sogni di vittoria. Kyle capisce che può vincere e inizia a spingere, ma arrivano ovviamente anche i guai di gioventù: a Richmond va in testacoda (22°), a South Boston perde una gomma (33°), in Texas va a muro (25°), infine a Las Vegas arriva un altro nono posto dopo essere partito terzo.

L’ultima gara in programma per Kyle in questa stagione di debutto è a Fontana. E nelle libere – al debutto su un ovale da due miglia – è in testa. Poi però arrivano i responsabili della Nascar e gli dicono che non potrà gareggiare. Il problema è che la corsa dei Truck – un po’ come avviene ancora oggi in Texas – si svolge in combinato con la gara della CART (vinta poi da Cristiano Da Matta) e questa è sponsorizzata dalla Marlboro. E secondo il “Tobacco Master Settlement Agreement” del 1998 un pilota minorenne non può partecipare ad un evento sponsorizzato da una marca di sigarette. E’ una interpretazione particolare della legge (dato che la gara dei Truck non è sponsorizzata direttamente dalla Marlboro), ma Kyle non può fare altro che togliersi il casco e tornare a casa. La sua stagione da rookie termina così, bruscamente.

Archiviato questo caso si può pensare al 2002, vero? No, purtroppo per Kyle no. Sei settimane più tardi la Nascar impone che tutti i partecipanti alle sue competizioni abbiano almeno 18 anni, dato che – bisogna ricordarlo – la Cup Series è sponsorizzata dalla Winston e quindi il problema si ripropone. Dunque cosa si fa? Si passa alla ASA (ottavo in campionato), ma soprattutto viene scelto come dal Team Hendrick per il suo junior team. Nel 2003, in attesa che arrivi maggio, disputa due gare nella ARCA Series (due vittorie), poi il 24 maggio arriva il “secondo debutto” a Charlotte, stavolta in Xfinity (allora Busch) Series sulla vettura #87 del NEMCO Motorsports. In qualifica è quinto, poco dopo metà gara è in testa e nel finale la caution provocata da Greg Biffle gli impedisce di attaccare Matt Kenseth; arriva “solo” un secondo posto, bissato poi a Darlington a fine estate.

Dopo due anni di ritardo, il 2004 è dunque la prima stagione completa in Nascar e il sedile è quello della vettura #5 del team Hendrick in Xfinity Series. Dopo qualche corsa di ambientamento, il 14 maggio 2004 a Richmond parte dalla pole, domina guidando per 236 giri su 250 e vince la prima delle sue 200 gare in Nascar. E a 19 anni e 12 giorni manca il record di vincitore più giovane della categoria (Casey Atwood, 1999) per un paio di mesi. Ma non gli sfugge il record – eguagliato, 5 – di maggior numero di vittorie per un rookie, dato che verrà battuto solo nel 2018 da un suo protetto, Christopher Bell. Potrebbe anche laurearsi campione, ma una estate terribile (in sette gare ottiene una vittoria e poi zero top10) lo penalizza e il titolo va al suo attuale compagno di squadra al JGR Martin Truex Jr.

Ad ottobre Terry Labonte, a 48 anni e dopo i titoli del 1984 e 1996, annuncia il ritiro dall’attività a tempo pieno e quindi il suo erede sulla vettura #5 per il 2005 non può che essere Kyle Busch. Così, dopo il debutto saltato a Homestead nel 2003 e le 9 gare non esaltanti del 2004 (tre DNQ e zero top20), arriva il turno per dimostrare tutto il suo talento. L’apice della stagione lo raggiunge a Fontana, due volte: alla seconda gara stagionale, a soli 19 anni, 9 mesi e 25 giorni diventa il più giovane poleman della storia della Cup Series e a settembre ne diventa a 20 anni, 4 mesi e 2 giorni il più giovane vincitore di una gara; curiosamente entrambi i record verranno battuti fra 2009 e 2010 da Joey Logano, quello della pole per appena due giorni. Sono solo i primi record ottenuti dal pilota di Las Vegas. 

Il 2005 è anche l’inizio della prolifica collaborazione con il team di Billy Ballew nei Truck: alla prima gara insieme a Charlotte, Kyle vince subito. Ha 20 anni e 18 giorni e anche qui è il più giovane della storia, ma questo record, a differenza di quello della Cup Series, non sarà sorpassato di soli due giorni ma verrà abbattuto prima da Ryan Blaney, poi da Chase Elliott, Erik Jones e infine da Cole Custer che ora detiene il primato ad appena 16 anni, 7 mesi e 28 giorni, perché nel frattempo la “regola Kyle Busch” – introdotta nel 2001 a causa della Winston – non è più in vigore e il limite minimo d’età per gareggiare nelle categorie minori è sceso a 16 anni.

I successivi due anni sono buoni, ma non eccezionali, sicuramente non all’altezza delle aspettative. Dopo le due vittorie (Fontana e Phoenix) dell’anno da rookie e l’unica del 2006 (New Hampshire; sarà 10° in campionato), il 2007 è l’anno cruciale della sua carriera: vince subito a Bristol – è il debutto della “Car of Tomorrow” e nonostante il risultato Kyle, che non ha peli sulla lingua, dice chiaramente di non amarla – poi si susseguono buoni risultati ma zero successi e i rapporti col team cominciano a degenerare. I primi segnali arrivano ad aprile, quando in Texas al giro 253 tampona Dale Jr. nella nuvola creata dal testacoda di Stewart. Kyle porta la vettura nel garage, pensa che sia la fine della sua gara e lascia il circuito senza dire nulla a nessuno. Peccato per lui che i meccanici riescono a riparare la vettura, ma gli manca il pilota. E chi trovano pronto nel garage? Proprio Dale Jr.! Così il pilota del DEI sale a bordo di una vettura del Team Hendrick. E’ solo la scintilla: un mese dopo Jr. ufficializza la rottura – già nell’aria – col team fondato da suo padre e ora controllato dalla matrigna. Inizia la caccia al pezzo pregiato del mercato (in tutti i sensi, visto il giro economico attorno a Jr.) e parte l’effetto valanga: a maggio alla All-Star Race Kyle si scontra con il fratello Kurt e ci vuole solo l’intervento della nonna alla Festa del Ringraziamento per farli riconciliare e il 13 giugno Dale annuncia il suo approdo al team Hendrick. Chi se ne andrà dunque? Gordon e Johnson sicuramente no, dunque sarà uno fra Casey Mears e Kyle Busch, ma tutti sanno già chi; la conferma arriverà dallo stesso Busch due giorni dopo. Ad agosto firma con il Joe Gibbs Racing per sostituire JJ Yeley e può iniziare la fase attuale della sua carriera. 

Si apre così una nuova pagina per Busch, e che pagina: con le nuove Toyota del JGR ottiene subito otto vittorie, tra cui quella di Atlanta, il primo successo del costruttore giapponese in Cup Series, e quelle di Talladega in primavera e Daytona in estate, a tutt’oggi gli unici suoi successi su uno superspeedway. Non mancano le polemiche: nella prima gara di Richmond spedisce a muro ovviamente Dale Jr. (che nella sua mente gli ha rubato il posto), poi Jr. si vendicherà su Kyle nella seconda gara in Virginia. Nasce così una piccola faida ricomposta soltanto l’anno scorso. L’ottava vittoria arriva al Glen ad agosto e qui è in testa alla generale con 242 punti di vantaggio su Edwards. Tutto sembra in discesa verso il titolo malgrado il reset della Chase. E invece da lì in poi implode e chiuderà solo decimo. Poco male, si consola con 10 vittorie in Xfinity Series (sesto in campionato nonostante quattro gare saltate) e tre nei Truck per un totale di 21. E questo sesto posto in campionato gli impone di presenziare al banchetto finale e così salta un’occasione diventata poi unica: poter guidare la Toyota di F1.

Il 2009 è finalmente il primo anno di gloria per Kyle Busch: sette vittorie nel consueto part-time nei Truck, “solo” quattro in Cup (fra cui la 50esima in carriera a Richmond), ma in questa stagione decide di dedicarsi completamente alla Xfinity Series per conquistare il titolo. La sfida è con il parigrado Carl Edwards e il giovane Keselowski (che diventerà in fretta il suo nemico #1). E’ il periodo dei cosiddetti “Buschwhacker”, non dal cognome di Kyle, ma dall’allora sponsor del campionato Busch. I big della Cup Series continuavano a voler correre nella seconda categoria per tutta la stagione, offuscando i giovani talenti grazie alle vetture (e gli aerei che permettono loro di volare per l’America nello stesso weekend) dei team più ricchi. Una tendenza che – oltre ai suoi comportamenti in pista – non lo ha reso molto simpatico ai tifosi dato che è stato lui uno dei principali vincitori di questa fase. Ma a Kyle piace correre e se c’è questa chance allora la sfrutta. A fine stagione i successi sono nove e il primo titolo Nascar è suo. 

Conseguito questo obiettivo, Kyle cambia strada. E la nuova sfida si chiama Kyle Busch Motorsports, un suo team per la Truck Series, per gareggiarci lui e per farci correre i nuovi giovani talenti della Toyota. E i Truck acquistati dal team Roush – quello che lo fece debuttare ma che adesso ha chiuso – e poi sviluppati da lui vanno molto veloce. Il 2010 è l’anno più vincente della carriera di Busch: tre successi in Cup Series, 13 (!) in Xfinity e otto nei Truck per un totale di 24. Inoltre a Bristol, nella prestigiosa tripla gara notturna di fine agosto, compie un’impresa mai ottenuta prima andando a vincere nello stesso weekend tutte e tre le gare. Ma a questo punto la Nascar si stufa dei Buschwhacker e impone ai piloti di poter ottenere punti solo in un campionato e non più dovunque corressero. E’ solo il primo passo verso le regole attuali.

E Kyle entra in una fase buia. Forse privato delle libertà di prima, non è più così sereno. In Cup arrivano le consuete quattro vittorie, in Xfinity in altre otto (di cui quella in New Hampshire è il successo n°100 e quella di Bristol gli permette di battere il record nella categoria di Mark Martin) e nei Truck sei, ma l’ultima apparizione stagionale rappresenterà il punto più basso della sua carriera. Texas, 4 novembre. La stagione dei Truck sta volgendo al termine e in lizza per il titolo ci sono ancora almeno cinque piloti. Austin Dillon ha una manciata di punti di vantaggio su James Buescher, Ron Hornaday Jr. e Johnny Sauter. Kyle Busch non è fra di essi – appunto – per le regole introdotte quell’anno. E’ un battitore libero che punta solo alla vittoria parziale, ma quel giorno diventa troppo libero. Dopo appena 14 giri, durante un doppiaggio, Hornaday perde la linea e lui e Busch si appoggiano al muro. Sarebbe tutto a posto se non fosse che pochi istanti dopo, appena chiamata la caution, Busch decide di vendicarsi spedendo a muro Hornaday, il quale quindi perde una grossa chance di vincere il quinto titolo in carriera. E’ una manovra oltraggiosa, tant’è che Kyle viene squalificato per tutto il weekend, saltando così anche le gare di Xfinity e Cup Series, fatto per cui perde anche lui un – seppur improbabile, ma ancora matematicamente possibile – campionato. Ai guai del 2011 possiamo aggiungere anche la multa presa al volante della sua Lexus LFA quando viaggiava a 206 km/h (!) quando il limite era di 72, ma qui trascendiamo nella vita fuori dalla pista.

Può essere il 2012 peggiore del 2011? Sì. Disputa 36 gare in Cup Series, 22 in Xfinity con il suo KBM e non con il JGR e tre nei Truck da cui evidentemente si prende una pausa di riflessione per un totale di 61. E porta a casa solo un trofeo con la vittoria di Richmond in Cup Series, successo che non gli basta per qualificarsi alla Chase. Per fortuna Kyle è in grado di reagire, grazie alla fiducia confermatagli dal JGR e anche grazie al matrimonio con Samantha. E il 2013 e 2014 tornano sulla falsariga degli anni precedenti: tante vittorie complessive (21 nel 2013 e 15 nel 2014) ma il successo più agognato (il titolo della Cup Series) sembra sempre lontano.

Inizia così il 2015, un anno importante per Kyle dato che compie 30 anni. Il suo debutto ufficiale a Daytona in Xfinity Series rischia di essere anche la fine della sua stagione: a 9 giri dalla fine sul rettilineo principale arriva il big-one e la vettura di Busch punta dritta verso il muro interno prima di curva 1. Kyle riesce a scendere dalla vettura e basta, la diagnosi è severa: frattura di tibia e perone della gamba destra e del piede sinistro. Dopo che diversi sostituti si prendono cura della #18 (fra cui da notare l’unica gara in Cup Series di Matt Crafton proprio alla Daytona500 del giorno dopo), Busch annuncia il suo ritorno alla All-Star Race dopo tre mesi di convalescenza e per sua fortuna l’esistenza della Chase non gli ha fatto perdere l’anno. Quel che basta è vincere una gara ed essere nella top30 in campionato. La seconda pratica è semplice, la prima – essendo Kyle Busch – ancora di più dato che in cinque gare estive ne vince quattro di cui tre consecutive. Rowdy è tornato e a Bristol in Xfinity Series ottiene anche la vittoria n°150 in carriera. I playoff sembrano andare come tutti gli anni passati, senza vittorie, ma alla fine grazie ad un terzo round di ottimo livello riesce a qualificarsi per il gran finale di Homestead. E’ la prima vera chance che ha di conquistare il titolo e ovviamente non se la lascia scappare. Dopo il campionato della Xfinity Series del 2009 arriva per Busch anche quello della Cup Series e a questo punto non si possono più muovere critiche al suo palmarés.  

Queste ultime stagioni di Busch sono in linea con le precedenti, con tante vittorie, seppur limitate dai nuovi regolamenti che gli impediscono di correre quanto vuole in Xfinity e Truck Series (ora il numero massimo è rispettivamente di sette e cinque gare stagionali), ma non per questo i record non continuano ad arrivare. Nel 2017 bissa la tripletta di Bristol del 2010, nel 2018 con la vittoria alla CocaCola600 di Charlotte diventa il primo pilota della storia della Cup Series ad aver vinto almeno una gara su tutti i circuiti in cui ha corso (dopo possiamo discutere se il nuovo roval gli abbia rovinato di nuovo il tabellino oppure no), e infine ad Atlanta lo scorso febbraio sorpassa le 51 vittorie nella Truck Series di Ron Hornaday Jr.

Il conto alla rovescia è iniziato da tempo, ma durante questo inverno il ticchettio si è fatto più rumoroso. Dal -6 della off-season, dopo Atlanta si è scesi a -5, poi dopo il weekend in casa a -3, il cappotto di Phoenix lo ha portato ad un solo passo dal numero magico. Arriva così il weekend di Fontana, proprio là dove venne fermato a 16 anni quando era in testa alle libere dei Truck e dove ottenne i primi risultati di rilievo in Cup Series nel 2005. Al sabato domina la gara della Xfinity Series ma poi una penalità lo ricaccia in fondo al gruppo e la rimonta finale, unita ad un ottimo Cole Custer, lo obbligano a rinviare le celebrazioni di almeno 24 ore. Si capisce che domenica mattina Kyle si è svegliato arrabbiato e domina di nuovo la gara. Poi incappa in un’altra penalità come il giorno prima, ma stavolta la fortuna lo aiuta con una caution al momento adatto. Anche la sorte si deve inchinare al talento immenso di Busch e il sorpasso a Logano e Keselowski in un colpo solo per ritornare in testa lo dimostra ampiamente. La bandiera con scritto 200 lo accompagna per il giro d’onore e anche gli avversari devono riconoscere che non c’era possibilità di battere Kyle (anche) oggi.

Cosa manca adesso a Kyle Busch? Due cose sono sicure, la vittoria della Daytona500, talmente sospirata che a casa nello scaffale dei trofei ha lasciato lo spazio vuoto appunto per l’ “Harley J. Earl Trophy” e un titolo nei Truck che completerebbe una tripletta di campionati mai realizzata da nessuno. Manca la “quota 100” – è a 94 – nella Xfinity Series, dopo la quale ha ammesso che si ritirerà dalla categoria, e dopo la vittoria di Phoenix ha dichiarato che vuole raggiungere anche le 100 vittorie in Cup Series (ora ne ha 53). Qualsiasi cosa manchi, o qualsiasi numero irreale voglia raggiungere, Kyle Busch ha dalla sua due vantaggi, il primo l’amore per questo sport – e questo anche i suoi numerosissimi haters, compresi quelli del “Ti piace vincere facile?”, devono ammetterlo – e la seconda è l’età. Sembra incredibile ma Rowdy ha ottenuto tutto questo e non ha ancora compiuto 34 anni. Davanti a sé potrebbe averne ancora 10 di carriera e ciò spaventa sicuramente i suoi avversari. Intanto ha lasciato la sua impronta anche in questo 2019 in cui si è preso il ruolo di favorito nonostante siano passate solo cinque gare. Si è qualificato per Homestead in quattro delle cinque edizioni e dovunque si corra (escluse forse solo Daytona e Talladega) bisogna inserirlo sempre tra i favoriti.

Per le 200 vittorie di Kyle Busch non possiamo parlare di record perché è l’unico in Nascar che ha mai tentato un’impresa del genere, l’unico che si è impegnato su più fronti in ogni weekend. Parliamo allora di traguardo storico, anche perché sarà quasi impossibile batterlo. Poi si può discutere quanto si vuole sulla posizione nella classifica dei migliori piloti di tutti i tempi, ad esempio alla sua età Jeff Gordon e Jimmie Johnson avevano vinto più gare e/o titoli in Cup Series, ma di questo è meglio parlarne alla fine della carriera. E a proposito di cifre tonde, la prossima milestone sarà decisamente più facile da ottenere: quella di domenica a Fontana era la sua gara n°998 in carriera, sabato nei Truck ci sarà la 999 e infine domenica a Martinsville, proprio sul tracciato più antico della Nascar, ci sarà la bandiera verde numero 1000. E quasi quasi c’è il dispiacere che i due dati impressionanti non siano arrivati in contemporanea bensì a sette giorni di distanza.

Quello che è certo è che davanti a dei numeri del genere e davanti a una carriera così, possiamo solo inchinarci, così come ama festeggiare Kyle Busch dopo ogni vittoria.

Qui trovate un file Excel completo con la lista delle vittorie di Kyle Busch

Fonti: en.wikipedia.org; espn.com; usatoday.com; youtube.com; jayski.com; sports.yahoo.com

Immagini: foxsports.com; GettyImages; giphy.com

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