Intervista a Sébastien Tortelli, “eroe dei due mondi” del motocross

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Tempo di lettura: 14 minuti
di Federico Benedusi @federicob95
14 Aprile 2020 - 09:50
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P300.it ha avuto il piacere di intervistare Sébastien Tortelli, stella del motocross mondiale negli anni ’90 e 2000 e vincitore di due titoli iridati.

Francese, 41 anni ad agosto, Tortelli ha debuttato nella classe 125cc nell’ultimo round del mondiale 1994, mettendosi subito in luce tra i piloti più veloci. Nel 1996 è diventato il più giovane campione del mondo di motocross nella storia, a pochi giorni dal suo 18° compleanno, record battuto solo nel 2011 da Ken Roczen.

Il successo che ha veramente consegnato Tortelli alla storia è però quello del 1998, nella classe 250cc, ai danni di uno Stefan Everts reduce da tre titoli mondiali e battuto nel leggendario Gran Premio di Grecia a Megalopolis. Nello stesso anno, nel mese di gennaio, si era già tolto la soddisfazione di vincere la sua prima gara nel Supercross 250cc a Los Angeles.

Passato negli Stati Uniti, Tortelli non ha avuto altrettanta fortuna. Diversi infortuni gli hanno impedito di conquistare un titolo anche dall’altra parte dell’Atlantico, dove però ha avuto modo di battagliare con piloti come Jeremy McGrath e Ricky Carmichael. Rientrato in Europa nel 2006, ha rinnovato il suo duello con Everts nella rinominata classe MX1, ma un infortunio all’anca nel Gran Premio del Portogallo ha messo anticipatamente fine alla tanto attesa rivincita e alla carriera stessa del pilota francese.

In questa intervista abbiamo ripercorso insieme a Sébastien i momenti salienti della sua carriera, ovviamente senza tralasciare la sua attività di coach e qualche pensiero sull’attuale situazione del motocross mondiale. Ecco cosa ci ha raccontato.

Innanzitutto, grazie per l’intervista. Come stai passando questo momento di emergenza sanitaria e quali sono i tuoi programmi per quest’anno?
“Sto passando questo periodo come un po’ tutti, a casa mia a Barcellona. Passo il mio tempo in famiglia e mi muovo in bicicletta. I miei piani per quest’anno riguardavano i piloti che sto seguendo: Suff Sella ed Edgar Canet nell’europeo 125cc, Virginie Germond nel mondiale femminile e Carl Ostermann nel Supercross”.

Hai seguito la prima metà del Supercross e le prime gare della MXGP? Che opinione ti sei fatto a riguardo?
“Ho seguito il Supercross ‘da lontano’, guardando alcune gare, e sono contento di quanto stia andando bene Roczen dopo tutti gli infortuni subiti negli ultimi anni. Ho presenziato ai primi due round del mondiale e sono rimasto soddisfatto di come Tom Vialle abbia confermato la velocità mostrata l’anno scorso, con buoni risultati e con molta maturità nella sua guida. Per quanto riguarda la MXGP direi che Gajser e Herlings sono una spanna sopra tutti, sono stati loro due a giocarsela, ma dobbiamo vedere se sarà ancora così dopo la pausa forzata. Cairoli e Prado stanno recuperando dai loro infortuni e sarebbero arrivati a al top solo più avanti, senza lottare per il campionato. Fortunatamente per loro, questa pausa darà modo ad entrambi di rientrare nella corsa per il titolo”.

Pochi piloti possono dire di avere vinto un titolo mondiale duellando fino all’ultimo con Stefan Everts, direi solo tu e Greg Albertyn… Cosa ricordi di quel mondiale 1998 e soprattutto del weekend di Megalopolis?
“Quella del 1998 è stata una stagione lunga e difficile per me e Stefan. Abbiamo dato vita a battaglie epiche durante tutto l’anno, eravamo molto più forti di tutti gli altri e guadagnare punti era molto difficile perché nessuno riusciva a mettersi in mezzo a noi, quindi siamo arrivati alla fine, all’ultima manche, con due punti di differenza. A quel punto era tutto tra lui e me. Prima di lasciare la tenda del team dissi a mia moglie che la prima volta in cui mi avrebbe rivisto, io sarei stato campione del mondo, per qualche ragione non avevo dubbi a riguardo. Avevo un piano molto chiaro in mente. Sapevo di essere più forte di Stefan dopo i 20 minuti di gara e quindi dovevo aspettare fino a quel momento per entrare al 120% nella battaglia. Alla partenza, Stefan fece holeshot e io recuperai il secondo posto dopo due curve. Quindi aspettai e lo seguii finché il mio meccanico non mi diede il segnale dei 20 minuti. Lo superai in maniera aggressiva, portandolo verso i cartelloni pubblicitari. Dovevo dare tutto per avere una possibilità di staccarlo. Mi misi a testa bassa e diedi davvero il massimo. Non realizzai che Stefan era caduto nella curva successiva al mio sorpasso finché non mi venne indicato dai box. Non ci potevo credere. Mi voltai diverse volte per esserne sicuro. Gli ultimi dieci minuti di quella gara durarono un’eternità, ascoltai ogni rumore della moto, avevo paura di saltare troppo in lungo perché atterrando sul piano avrei rischiato di rompere una ruota. Furono dieci minuti molto dolorosi, finché non passai la linea del traguardo”.

La tua esperienza americana non è stata molto fortunata, ripensando ai vari incidenti e in particolar modo a quello del 1999, ma sei riuscito comunque ad essere protagonista in un periodo molto competitivo per il motocross americano. Quali sono i tuoi ricordi più belli di quel periodo? Che differenze hai notato tra l’ambiente del mondiale e quello degli USA?
“Sì, il 1999 è stato un ottimo anno finché Doug Henry non mi ha colpito a mezz’aria (a Unadilla, ndr) facendomi cadere, rompendomi il polso e facendomi perdere i 30 punti che avevo di vantaggio a cinque gare dalla fine del National. La mia carriera negli Stati Uniti non è andata male, mi è mancato un titolo. Ho passato grandi battaglie con Carmichael nel National. Per me è stato difficile perché a livello mentale il mio avversario era una copia di me stesso. Io ero un lottatore e anche lui lo era, entrambi non mollavamo fino alla bandiera a scacchi ed è dura sapere che il tuo avversario non si arrende mai, a prescindere da cosa succede in gara. Ho tanti bei ricordi di quel periodo: Red Bud, Hangtown, Glen Helen, il Nazioni del 2000 in Francia…
Negli Stati Uniti ci sono due campionati, Supercross e National, a differenza del mondiale. Tra le gare che ho disputato, quelle del Supercross sono state sicuramente le più ricche di pubblico. Più di 60.000 spettatori e ai tempi era già tutto molto professionale, ripensando alle strutture e alla copertura televisiva. Un po’ come nel mondiale oggi. Nelle gare outdoor c’è molta più attenzione verso la qualità delle piste a scapito delle infrastrutture, cosa che dà vita a circuiti magnifici con un sacco di traiettorie possibili, come vediamo nella MXGP. Entrambi i ‘mondi’ hanno dato il massimo per migliorarsi e ora abbiamo tre campionati davvero al top”
.

Sei uno dei pochissimi piloti ad avere vinto in top class sia nel mondiale motocross che nel Supercross, in quest’ultimo riuscendoci alla tua seconda gara peraltro. Ci racconti qualcosa di quella notte del 1998 a Los Angeles? Come sei riuscito ad adattarti così velocemente ad una specialità così diversa?
“Sono stato abituato ad allenarmi sia nel supercross che nel motocross sin da quando correvo il mondiale 125cc, nel 1995. Passavo almeno un mese all’anno in California, nel ranch di Jim Castillo (creatore e proprietario della CTi, azienda produttrice di ginocchiere, ndr), per preparare la stagione partecipando ad alcuni eventi locali e anche a gare del Supercross, quindi ero abituato alle corse negli stadi. La vittoria del 1998 al Coliseum arrivò a sorpresa, la settimana precedente avevo vinto una corsa di preparazione al Perris Raceway battendo Jeff Emig, che era campione in carica sia del Supercross che del National. Al Coliseum cancellarono le prove del venerdì a causa della pioggia. Arrivammo al giorno della gara avendo passato poco tempo in pista ma ero fortunato perché in quanto parte del team Kawasaki dovevo prendere parte al press day, facendo così qualche giro di pista sull’asciutto, quindi imparai i tempismi della maggior parte dei salti. La pista era scivolosa e molto scavata, cosa non inusuale in Europa, quindi fui piuttosto veloce da subito. Mancai la qualificazione nella batteria per un incidente alla seconda curva e dovetti partecipare alla semifinale. Questa fu però una buona cosa per me perché ebbi modo di passare più tempo in pista, poi appena prima della mia semifinale venne risistemata la discesa del peristilio (caratteristica del tracciato costruito all’interno del Los Angeles Coliseum, vedere foto sotto, ndr) dove nessuno aveva saltato fino a quel momento, quindi ebbi un buon vantaggio in confronto ai miei avversari.

Per qualche ragione il mio meccanico arrivò in ritardo per il main event, quindi dovetti schierarmi al cancelletto per penultimo insieme ad Ezra Lusk, anche lui in ritardo, e ci ritrovammo entrambi agli estremi esterni, dove c’erano dei profondi canali fangosi. Partii ultimissimo ma giro dopo giro passai tutti i miei avversari giù dal peristilio e nelle sezioni più ritmiche. Passai McGrath, Emig… riconobbi la maggior parte dei big a parte uno, Mickaël Pichon. Quando arrivai alle spalle di Doug Henry il mio meccanico mi segnalò ‘2 for 2’ e siccome il mio inglese non era molto buono capii che se lo avessi passato sarei arrivato secondo, non avendo visto Pichon. Duellammo e lo passai al penultimo giro, ero felice di essere arrivato secondo. Quando arrivai sul podio Davey Coombs, attuale promoter del National e ai tempi commentatore televisivo che avevo conosciuto quando venne in Europa a seguire i Gran Premi, mi disse che avevo vinto. Io non ci credetti, non avevo visto Pichon. Mi disse che era caduto al lato della pista in un tratto di whoops, per quello non lo avevo visto. Quindi passai da un secondo posto molto soddisfacente ad una vittoria molto soddisfacente (ride, ndr).

Il tuo infortunio di Águeda, nel 2006, ci ha privati probabilmente di uno dei campionati più combattuti di sempre. Tu e Stefan avevate dato grande spettacolo in quelle prime gare. Cosa ti ha portato a tornare in Europa dopo tanti anni?
“Sono tornato in Europa perché ero esausto per gli infortuni rimediati negli Stati Uniti, avevo bisogno di rigenerarmi. Avevo bisogno di stare con i miei amici e con la mia famiglia, cose che mi erano mancate in quegli anni. Il mio piano era quello di resettare e rimettermi a posto per poi tornare a correre negli Stati Uniti”.

In un’intervista di tanti anni fa hai detto che quella del 2006 sarebbe stata comunque la tua ultima stagione, quindi l’infortunio ha solo accelerato il processo. Qualcuno ti ha offerto un contratto per il 2007 o tutti hanno rispettato la tua decisione? In fondo, l’età era ancora dalla tua parte…
“Non esattamente. Se non ricordo male, prima dell’inizio della stagione dissi a KTM che mi sarei ritirato se mi fossi infortunato nuovamente nel 2006. Ci furono alcune ragioni che mi spinsero a questa decisione. Innanzitutto il mio amico Ernesto Fonseca rimase paralizzato in gennaio, in una gara del Supercross. Poi avevo due figli e non volevo crescerli stando su una sedia a rotelle. Ero spaventato e quando sei spaventato, da pilota, non va bene. Infine avevo bisogno di una stagione di ricostruzione per tornare al massimo della forma, perché mi sono sempre ripromesso di non gareggiare mai se non fossi stato al 100%”.

Hai avuto l’onore di duellare con due delle più grandi leggende del motocross mondiale, Stefan Everts e Ricky Carmichael. Quali erano i loro punti forti e i loro punti deboli? Per rispondere ad una domanda che in tanti si pongono: a tuo parere, chi è stato il più forte?
“Non riesco proprio a dire chi sia stato il migliore tra Stefan e Ricky. Sono due piloti diversi che hanno corso in due serie differenti. So che c’è questa ‘domanda eterna’ su chi sia meglio tra Stati Uniti ed Europa ma è difficile dirlo anche per me, che ho corso entrambe le serie e contro entrambi i piloti. Ai nostri tempi nessuno poteva battere Stefan nelle piste sabbiose, era ad un altro livello, anche se mi sono avvicinato era sempre troppo lontano. Ricky era un animale sulle piste rovinate e tra i canali, ma sono condizioni tipicamente americane. Al giorno d’oggi è chiaro come gli europei stiano dominando nel motocross e gli americani stiano facendo uguale nel supercross. Ogni serie richiede allenamenti e preparazioni particolari e ogni continente ha le sue priorità sugli obiettivi da raggiungere e su quale sia il campionato più importante”.

Il movimento crossistico francese degli anni ’90 è stato probabilmente uno dei più competitivi di sempre, ma alla fine è arrivata solo una vittoria nel Nazioni, nel 2001 a Namur, peraltro in tua assenza. Tra i cinque Nazioni a cui hai preso parte ce n’è uno in cui pensi che avreste davvero potuto vincere? Se sì, cosa mancò in quel caso?
“Avremmo dovuto vincere il Nazioni del 2000. Stéphane Roncada vinse la classe 125cc davanti a Pastrana, io battei Carmichael in 250cc e nella Open avevamo Frédéric Bolley, che era campione del mondo della 250cc e avrebbe probabilmente dominato ma si ruppe il naso contro una roccia nelle prove della mattina, quindi perdemmo tutto. Ci siamo arrivati vicini diverse volte, ma siamo stati spesso i primi dei perdenti (ride, ndr). Il Nazioni è una gara speciale e io ho sempre voluto correrlo, è l’unica chance che hai per correre come una squadra in rappresentanza del tuo Paese. Gli Stati Uniti mi hanno insegnato questa meravigliosa sensazione, suonano il loro inno prima di ogni evento e in ogni occasione vedi la gente che canta in piedi. Una sensazione davvero emozionante”.

In cosa pensi che sia cresciuta la Francia capace di vincere cinque Nazioni di fila rispetto a quella dei tuoi tempi? Conoscendo quell’ambiente come ti spieghi, invece, le difficoltà degli USA che non arrivano a podio da tre edizioni?
“Penso che la Francia abbia avuto un team forte per molto tempo, con tanti piloti in lotta per la vittoria, probabilmente siamo stati i migliori nell’arrivare sempre sul podio. Nelle loro cinque vittorie è andato tutto per il verso giusto, finalmente. Gli Stati Uniti hanno perso smalto, le altre squadre difettano spesso di un elemento chiave, mentre la Francia è competitiva a tutto tondo. Credo che gli Stati Uniti abbiano un po’ spostato il loro obiettivo, hanno perso gradualmente interesse nel Nazioni quando hanno iniziato ad inanellare sconfitte, vedendo gli europei diventare più forti. Quando ancora correvo, i team statunitensi stavano già premendo per iniziare in anticipo i test per il Supercross, a dimostrazione di come l’obiettivo principale fosse quello. Il National si è adattato, anticipando il finale di stagione alla fine di agosto per lasciare spazio ad una stagione di Supercross più ampia”.

C’è un pilota dell’attuale generazione, Europa o USA non ha importanza, in cui ti rivedi particolarmente?
“Sono molto amico di Mickaël Pichon, siamo stati compagni di squadra in Honda negli Stati Uniti e le nostre figlie hanno la stessa età. Passiamo del tempo insieme, anche a sciare, e in inverno vado dalle sue parti con i miei piloti per allenarci nel fango. Vedo spesso Emig e Carmichael perché siamo ambasciatori della Fox e partecipiamo a diverse conferenze insieme. Ho ricominciato a vedere anche Everts, perché suo figlio Liam corre assieme ai miei piloti. Partecipo a tutti gli eventi dell’europeo e del mondiale femminile ma non giro mai nel paddock, sono focalizzato sulle gare dei miei piloti così come ero concentrato sulle mie quando correvo. Credo che nella vita non si cambi, quindi se si vuole cercare uno come me, bisogna cercare me (ride, ndr).

Come reputi l’attuale livello della MXGP e del Supercross rispetto ai tuoi tempi, anche dal punto di vista fisico?
“Un’altra ‘domanda eterna’ a cui non si può rispondere. Credo che ogni generazione sia grande a suo modo. Quella attuale, quella precedente e quella che verrà. Lo sport si evolve di pari passo con le performance dei mezzi meccanici. I piloti si adattano e vanno più forte che possono. Quindi, per me, ogni generazione è fantastica di per sé, ognuna con i suoi piloti di personalità e di grandezza. C’è una lunga lista di talenti che abbiamo ammirato e tuttora ammiriamo”.

Il momento più bello della tua carriera e quello peggiore.
“Ho attraversato grandi battaglie ma i miei ricordi più belli sono legati al mondiale 1998, perché nulla può eguagliare un titolo vinto all’ultimo Gran Premio, nell’ultima manche e a dieci minuti dalla fine. I miei momenti peggiori sono tutti quelli che ho passato da infortunato, ai margini, ma in particolar modo il National 2005: mi sentivo al 100%, ero più veloce del mio compagno di squadra (Carmichael, ndr) ma una settimana prima della prima gara mi sono fatto male allo stesso polso infortunato nel 1999, mentre Ricky ha vinto tutti i Gran Premi. A dire la verità, probabilmente, è ciò che ha determinato il mio ritiro a fine 2006″.

Ringraziamo di cuore Sébastien Tortelli per l’intervista che ci ha concesso e gli auguriamo buona fortuna per il suo lavoro di coach, nel resto del 2020 e non solo.

Si ringrazia Andrea Ettori per la collaborazione.

Immagini: Flickr, xgames.com, Philippe Simon Instagram


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