Intervista a Manuel Poggiali: vittorie, sconfitte e nuove sfide da affrontare

Interviste
Tempo di lettura: 15 minuti
di Andrea Ettori @AndreaEttori
9 Maggio 2020 - 10:00

Chi scrive queste righe non ha nessun problema a dire che Manuel Poggiali è stato uno dei suoi beniamini motoristici all’inizio degli anni 2000, quando il fenomeno arrivato da San Marino cominciava un percorso che lo avrebbe portato a vincere due mondiali ma anche ad un prematuro ritiro in età ancora giovanissima, pochi anni dopo questi splendidi risultati.

Manuel Poggiali è stato questo ed è anche per una carriera così intensa, nelle vittorie e nelle sconfitte, che continua ad essere apprezzato dagli appassionati. Oggi, a 37 anni, l’ex campione del mondo della 125cc e della 250cc vive una sorta di seconda carriera con il suo lavoro di Riders Coach nel team Gresini. Manuel ha raccontato a P300.it la sua carriera in maniera non banale ma soprattutto sincera, oltre a soffermarsi sul suo attuale lavoro che lo impegna in una costante ricerca della perfezione per aiutare i piloti che segue.

Innanzitutto ti chiedo come stai e come stai passando questo periodo complicato.
“Mi sento bene. Io e la mia famiglia stiamo bene ed è la cosa più importante, visto quello che ci ruota intorno. Sto cercando nuove idee per la mia attività, sto investendo il mio tempo in quello che può farmi crescere; le altre realtà con cui collaboro, a partire dal team Gresini, mi impegnano poco perché la Federazione italiana ha dato determinate linee guida per quanto riguarda gli allenamenti e la ripresa degli stessi per i nostri piloti. Poi faccio colloqui in videocall con la Federazione e con altre squadre per cercare di portare avanti anche il campionato italiano, per il 2020 in primis ma con un occhio al 2021, perché ci aspettiamo difficoltà anche per la prossima stagione”.

Come pensi che possa cambiare il tuo lavoro in conseguenza di questa situazione?
“Bisogna guardare il singolo caso, perché come ho già accennato lavoro su più fronti. Parlando di Gresini, il mio ruolo nel mondiale riguarda più il lavoro in pista e quando ripartiremo non penso che cambierà molto, a parte i tragitti e i trasporti verso ogni impianto e i controlli di accesso ai circuiti; per quanto riguarda il campionato italiano sarà tutto più impegnativo, ci saranno delle scelte da fare e queste spetteranno a Fausto e non a me, io ascolterò le varie ‘campane’ e dirò quello che penso, come ho già fatto di recente. Bisogna pensare a come potrebbe cambiare uno scenario da vari punti di vista, a quali potrebbero essere le soluzioni per sopperire a queste problematiche e a dove investire in maniera più importante qualora dovessero aprirsi nuove ‘finestre’: ad esempio, ora sembra che nel mondiale ci sia stato un grosso passo in avanti ma la situazione dei trasporti internazionali diventerà molto problematica e i tempi si allungheranno, mentre a livello italiano questa situazione sarebbe più ‘snella’, salvo qualche eccezione; in questo caso non ci sarebbe più una competizione internazionale a rubare la scena e investire di più sulla visibilità di un campionato nazionale potrebbe essere interessante. D’altra parte anche lo scenario degli sponsor potrebbe diventare più complicato: tante squadre avranno difficoltà che normalmente verrebbero ‘ricompensate’ da servizi i quali, tuttavia, senza sponsor verranno a mancare. Bene o male, a livello internazionale, il nostro mondo riesce comunque ad autogestirsi grazie ai diritti televisivi, mentre a livello nazionale bisognerà agire diversamente. Il campionato italiano 2020 si correrà su otto tappe divise in quattro weekend, invece di 12 gare su sei weekend, proprio perché si pensa che l’economia delle squadre coinvolte sarà in difficoltà, quindi con meno tappe e meno tragitti si può permettere a tutti di iniziare e concludere la stagione. Poi queste scelte non dovranno comunque limitare troppo la crescita di giovani ragazzi che sono il futuro del motociclismo italiano”.

È più complicato il tuo ruolo attuale o vincere un mondiale da pilota?
“Di sicuro la vita del pilota professionista è fantastica. Con delle responsabilità certamente, perché comunque sei il ‘finalizzatore’ di un lavoro, ma è davvero fantastica. Sei sotto stress, ma non è che in un’altra veste non lo si abbia. A livello organizzativo i metodi di lavoro sono in continua evoluzione, poi ogni circostanza è diversa e ogni pilota è diverso, con esigenze e caratteristiche differenti, il mio lavoro consiste nel trovare soluzioni per rendere il tutto più ‘performante’ possibile. Sembra un concetto molto astratto ma è un lavoro che richiede molto tempo e non è facile”.

Quanto ti sta aiutando l’avere avuto una carriera come la tua? Se tu non fossi stato un pilota vincente, pensi che le cose sarebbero state diverse adesso?
“Non credo che le vittorie che ho conseguito siano state un caso. Sono arrivate grazie al talento, che mi ha portato molto velocemente a vincere un mondiale. Ho iniziato a correre in minimoto nel 1994, nel 1997 ho fatto la mia ultima stagione in minimoto, nel 1998 sono passato al campionato italiano ed è stato tutto molto veloce, perché il mio obiettivo ad inizio stagione era il Trofeo Honda e ho finito per esordire anche nel mondiale 125cc a Imola. Solo l’anno prima correvo con delle minimoto da 40cc di cilindrata, il passo è stato davvero importante. Nel 1999 mi sono ritrovato a fare la mia prima stagione completa nel mondiale e nel 2001 ho vinto il mio primo titolo, poi l’ho perso e infine ho vinto all’esordio in 250cc nel 2003. Buona parte del mio passato agonistico è dovuta al mio talento, che mi ha portato a raggiungere tanti risultati, poi anche io ho avuto a che fare con le sconfitte e con il Motomondiale stesso, perché i metodi di lavoro sono cambiati e a mia volta ho dovuto fare dei cambiamenti importanti. Ho dovuto lavorare in modo più professionale sotto molti punti di vista, sono dovuto diventare un atleta a tutti gli effetti e ho iniziato a vivere una vita diversa da tutti i miei coetanei. Se hai obiettivi ben chiari la testa ti porta a lavorare in maniera differente e credo che questo mi abbia aiutato, poi io sono una persona molto metodica e cerco sempre di capire come poter migliorare: se arrivi secondo, e questa è una cosa che ho imparato nel 2002, è devastante, ma bisogna anche saper accettare che qualcuno possa avere fatto meglio di te, perché questa è comunque una cosa che ti dà possibilità di migliorare”.

Visto che hai accennato al 2002, ti chiedo: in quella stagione, soprattutto nella seconda parte, cosa è successo?
“Sono sorte, e credo che sia successo nella carriera di tanti piloti, delle cose che hanno ‘macchiato’ il clima della squadra. Cose che nelle performance si fanno sentire, che lo si voglia o no. Aumenta lo stress, calano le certezze del pilota e il clima in generale diventa brutto, perché emotivamente si soffre. Ai tempi, poi, non esisteva ancora un ruolo di cui diversi piloti della MotoGP odierna usufruiscono, ossia il mental coach. Probabilmente con una figura di questo tipo sarebbe andata meglio, ma dall’altra parte devo dire anche la squadra, avendo preso già accordi differenti per l’anno successivo, non è stata all’altezza di quanto avevamo costruito nell’anno e mezzo precedente: si rompevano dei cilindri, la moto grippava con maggior frequenza e mi sono dovuto adattare ad una situazione peggiore, lo sviluppo non era più lo stesso e l’ambiente era cambiato, ero più nervoso e le situazioni erano diventate meno gestibili. Non ho mai voluto creare polemiche e credo che questo sia stato apprezzato dalla gente, ci sono situazioni nascoste che è anche giusto che non vengano allo scoperto. Per fare un esempio: non credo sia un caso che molti piloti di MotoGP, negli ultimi anni di carriera, si costruiscano delle squadre personalizzate, con capitecnici personalizzati, cercando di costruire un percorso con loro a prescindere dalla moto che guidano; così come non è un caso che qualcuno decida di cambiare, perché tutti possono fare errori ma poi dipende da come li gestisci, a volte si devono cercare soluzioni drastiche per problemi semplici. Il mio ruolo attuale è importante anche per riuscire a tranquillizzare i piloti nell’approccio alle gare, meglio se lavorando già da casa perché alle gare bisogna arrivarci pronti, ma questo è un mondo ancora da esplorare”.

E questa, per te, è sostanzialmente una nuova vita…
“Mi piace pensare ad un motociclismo che cambia e ad una vita che cambia. Bisogna creare un clima che permetta di migliorare le performance, un clima familiare ma allo stesso tempo professionale, e avere persone in grado in insegnare dei valori, perché questi possono davvero portare un pilota ad esprimersi ancora meglio in pista”.

Sei una persona con il cervello sempre in funzione e credo che questo sia stato un ‘plus’ nei tuoi anni migliori. Potrebbe essere stato però anche un limite, successivamente?
“Il mio limite più grande, per buona parte della mia carriera, è stato proprio quello di non riuscire a gestire le negatività. Questo è un aspetto che ho riconosciuto con l’esperienza. Non sono stato in grado, forse per mancanza di una ‘figura’ o forse per mancanza di idee, di gestire certe situazioni. Ora chiaramente parlo con la testa di un 37enne, a 20 anni è tutto diverso e mi rendo conto della differenza di ragionamento tra adesso e allora, ai tempi ero più istintivo e meno razionale. Ci vuole il giusto mix, solitamente, anche se a volte in un ambiente come il nostro l’istinto premia. Oggi probabilmente è tutto più estremizzato perché il livello generale si è alzato, ma una delle cose che più ha caratterizzato la mia carriera, forse anche inconsciamente, è stata quello di vedere il pilota come un atleta, il curare ogni particolare dall’allenamento all’alimentazione. Ragionavo in una maniera particolare per quel periodo, studiavo molto questo tipo di cose. Durante i test in moto usavo il cardiofrequenzimetro, monitoravo come stavo lavorando in ogni specifico frangente, ero molto avanti per quel periodo e la cosa ha dato anche dei risultati. Ora è la normalità. Io non arrivavo mai stanco alla fine delle gare, è un po’ come vedere Márquez oggi: alla fine delle gare non è mai sudato, è lucido, e quello che non spendi dal punto di vista fisico lo guadagni in lucidità; vincere gare in volata, e io ne ho vinte tante così, richiede lucidità perché ti ritrovi a fare certe considerazioni a certe velocità dopo 45 minuti di gara. Avevo una certa lungimiranza come atleta, avevo un metodo che mi sono costruito nel tempo e cercavo sempre di migliorarmi, le lacune erano a livello emotivo e avrei potuto gestirle meglio, ma talvolta le cose non mi sono state nemmeno facilitate. Il motociclismo sembra uno sport individuale ma dietro c’è una squadra, ci sono persone con un ruolo ben chiaro, e bisogna saper costruire un clima che renda il tutto più ‘performante’”.

Quello di vincere il mondiale 2001 era davvero un tuo obiettivo all’inizio della stagione?
“Decisamente no, il nostro obiettivo era quello di finire nei primi cinque. Però durante quell’inverno, cosa che poi è successa anche nel 2003, abbiamo fatto un lavoro eccezionale, costruendo le basi e parte delle mura di una struttura molto solida, perché comunque ero sempre nelle primissime posizioni. Già adesso in Moto3 è diverso se pensiamo ad esempio ad Albert Arenas, che ha vinto la prima gara della stagione ma in passato ha alternato buoni risultati ad altre gare in cui ha fatto fatica anche a prendere punti”.

Hai deciso di difendere entrambi i tuoi titoli, senza mai passare di categoria da campione come spesso vediamo fare oggi. Nel 2004 avevi avuto la possibilità di fare il salto in MotoGP?
“Nel 2004 sono stato etico ma anche sfigato, però voglio anche raccontare del mio primo titolo. Dopo il mondiale del 2001 mi mancava ancora qualcosa, avevo ancora bisogno di crescere soprattutto al punto di vista dell’individuare una difficoltà e trasferirla ai miei tecnici per poter migliorare. Ho voluto lavorare sulla razionalità piuttosto che sull’istinto. Nel 2002 siamo andati bene finché non si è deciso di essere ‘conservativi’ sotto certi aspetti, dunque abbiamo perso giustamente. Un momento massacrante, ma mi sentivo pronto per passare di categoria, credo di avere firmato con Aprilia già a settembre: un biennale con opzione per il 2005. Già nel 2003 mi sono arrivate due proposte per passare in MotoGP con team privati, ma ho ragionato in termini di etica: avevo un contratto con Aprilia, stavo bene con loro, non mi correva dietro nessuno. Una scelta di cuore, ho voluto rispettare il contratto. Nel 2004 però si sono verificati tre eventi particolari. Il primo alla presentazione del team, che venne organizzata a San Marino e per la quale ovviamente decisi di invitare le persone a me più vicine: a quell’evento però ritrovai alcune figure, per tornare anche al discorso di prima, che mi dissero che subito dopo avrei dovuto prendere un elicottero per andare a presenziare al Festival di Sanremo, io mi opposi perché c’erano persone venute apposta per me e perché avrebbero dovuto organizzare molto meglio questa apparizione a Sanremo; mi dissero subito, chiaramente, che me l’avrebbero fatta pagare. Il secondo è stato il fallimento dell’Aprilia di Ivano Beggio, verificatosi poco dopo, che ha creato un clima pessimo nel team e tra le persone con cui lavoravo: non era una guerra ma poco ci mancava. Il terzo luogo richiesi di implementare sulla moto 2004 dei particolari che nel 2003 mi avevano dato un grande aiuto ma mi vennero negati, perché con la moto nuova non si potevano avere; tuttavia un bel giorno, in Brasile, mi ritrovai quei particolari montati sulla moto già al giovedì, quando fino al giorno prima questa cosa non era possibile, e dopo avere vinto il Gran Premio sfondai il cupolino a pugni. In quella stagione mi sono preso responsabilità di tutto, risultati inclusi, ma dopo quella gara in Brasile rilasciai dichiarazioni un po’ troppo ‘a caldo’, per le quali mi multarono e decisero di ritirarmi il materiale messomi a disposizione per quel weekend. Da lì scoppiò la bomba e il resto della stagione fu un disastro. Ero molto istintivo e gestii la situazione con troppa cattiveria, il momento era già difficile, per fortuna avevo comunque lo sponsor dalla mia parte e non smetterò mai di ringraziarli per il loro appoggio, spesso furono proprio loro a confortarmi nelle difficoltà. Questa situazione però mi ha scosso in maniera molto, molto importante. Di Aprilia ufficiali per il 2005 non ce n’erano più, tornai in 125cc con tutte le difficoltà del caso e senza più fiducia nell’ambiente e nelle persone. Quella fu colpa mia, totalmente. Il 2004 mi ha ‘macchiato’ a livello personale, avevo perso fiducia in tutti, il 2002 fu difficile per i risultati ma riuscii comunque a reagire”.

Eri giovane sì, ma se non eri tu nella posizione di poter importi dopo avere vinto un mondiale 250cc da rookie, chi altro poteva farlo?
“Non ho mai voluto fare polemica e credo sia una cosa che mi dà valore, di queste cose ne parlo oggi perché sono passati tanti anni e perché comunque queste domande mi vengono fatte spesso. Parlo solo di cose vere, con tutto quello che ho vissuto in questo periodo potrei scriverci un libro. Poi con la mia azienda stiamo lavorando all’uscita di qualche pezzo unico… mi sto dando da fare sotto molti punti di vista, come dicevo all’inizio”.

Che bilancio fai di questi 20 anni? Perché quel quinquennio che hai vissuto tu, comunque, difficilmente lo si può ritrovare in altri piloti…
“Un bilancio positivo, mi sento orgoglioso di quello che ho fatto ma anche di quello che ho sbagliato, perché anche se allora ho vissuto il tutto come una sconfitta, oggi ho un’esperienza che posso essere in grado di trasferire. Cercare di riempire un bicchiere mezzo vuoto è uno stimolo per migliorarmi, è una cosa che mi ha fatto fare la differenza ai tempi ed è un valore che cerco di trasferire oggi. Finché ho questo messaggio mentale da trasmettere avrò da lavorare. Lavorare mi piace, mi stimola e non mi pesa. Quando raggiungi i risultati hai grande soddisfazione ma deve essere una ricerca continua. L’anno scorso abbiamo vinto il mondiale MotoE con Matteo Ferrari perché nell’ultima gara abbiamo affrontato una situazione molto tesa, lui era teso, perché era una situazione nuova. L’ho tranquillizzato e l’ho fatto ragionare su aspetti meno tecnici. Lui tutt’oggi mi ringrazia ed è una cosa che mi porto dentro. Matteo è un grande professionista e un grande lavoratore, mi rivedo un po’ in lui. Ognuno gli ha dato quello che gli serviva per vincere questo titolo. Abbiamo fatto un grande lavoro anche durante l’ultimo inverno perché abbiamo analizzato quello che non è andato bene, come se non avessimo vinto, e anche dal punto di vista fisico ci stavamo preparando nel migliore dei modi. Il primo test a Jerez è andato molto bene, nei tre giorni è stato il più veloce”.

Hai mai pensato a fare una gara di MotoE, anche da wildcard?
“Fausto mi aveva anche proposto l’impegno come pilota. Mi sono guardato dentro e mi sono chiesto se avessi davvero voglia di gareggiare, consapevole che questo avrebbe limitato la mia crescita nel mio ruolo attuale. In alcune gare avrei dovuto fare il pilota e il coach, magari anche in turni consecutivi. Era giusto dare una priorità al mio futuro piuttosto che al mio passato. Sono fiero di quello che ho fatto, avrei potuto fare di più ma questo lo direi a prescindere, anche se avessi vinto tutti i mondiali che ho corso. Quello che apprezzo della mia carriera, poi, non è tanto quello che ho vinto ma più che altro l’avere emozionato e l’avere lasciato dei valori alle persone che mi hanno seguito. Tuttora ricevo tanto affetto dalle persone che ai tempi seguivano le gare. È la cosa che mi rende più felice”.

Ringraziamo Manuel Poggiali per questa intervista e gli auguriamo un buon proseguimento della sua “seconda carriera”.

Immagini: archivio Manuel Poggiali

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