Intervista a Carlo Cavicchi: tra Osca, giornalismo, F1 e Rally

IntervisteP300
Tempo di lettura: 14 minuti
di Andrea Ettori @AndreaEttori
26 Febbraio 2020 - 16:01
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P300.it ha il piacere di pubblicare una lunga intervista a Carlo Cavicchi, storico direttore di Autosprint oltre che di Quattroruote. In questa intervista Cavicchi parla della realizzazione del suo libro “Dentro l’Osca” e, prima di passare all’attualità sportiva con Formula 1 e Rally, si sofferma sul presente del giornalismo analizzandone a fondo le difficoltà e le differenze rispetto al passato, con uno sguardo al futuro.


Direttore, iniziamo da “Dentro l’Osca”: come le è venuto in mente di scrivere questo libro? Ho letto che è andato a cercare materiale in vari archivi fotografici.

“Abbiamo messo le mani sull’archivio di Walter Breveglieri: è stato un grandissimo fotografo che ha fotografato grandi personaggi ed eventi. Forse il più grande della storia di Bologna: ha finito la sua carriera in televisione, Zavoli lo prese con sé e fu il fotografo di Enzo Biagi, di Goldoni, insomma di grandi giornalisti dell’epoca.

La copertina del libro di Carlo Cavicchi, “Dentro l’Osca”

Abbiamo scoperto, strada facendo, che era stato anche un ottimo pilota: ha corso anche in Formula 1 e per sei anni ha corso con le vetture Osca. Aveva sempre seguito l’Osca dalla nascita, quindi con fotografie dall’interno: era amico, infatti, dei fratelli Maserati. Queste foto erano belle e tante, perché erano circa 2500 scatti – ne abbiamo scelti 250 a mio avviso bellissimi – e bisognava mettere insieme un libro. Io non avevo voglia di fare il classico volume – ne esistono anche in Inghilterra e in Italia, ben fatti, divisi anno per anno e gara per gara con tutti i piloti – ma volevo qualcosa di più interessante per la gente. Ho trovato gli ultimi tre operai della Osca ancora viventi e li ho fatti andare a ruota libera. Uno di loro si trova anche lontano: li abbiamo riuniti e quando ci si trova dal vivo si parla con più facilità. Da soli ricordano poco perché sono tutti oltre gli ottant’anni. È stato molto bello, sono venute fuori delle storie anche molto diverventi che meritavano di accompagnare le foto dell’epoca”.

Quanto è stato difficile realizzare un libro di questo tipo?

“È stato bello, non difficile perché di elementi ne avevamo. La Osca la gente l’ha dimenticata ma è stata una casa che in vent’anni ha vinto praticamente tutto; ci hanno corso piloti grandissimi, da Moss che ha vinto a Sebring a Castellotti, Scarfiotti, Behra, Farina, Chiron, Villoresi, Fagioli. Nonostante avessero motori piccolissimi battevano le Ferrari, le Maserati, le Aston Martin, le Connaught, insomma le grandi macchine dell’epoca. Di materiale ce n’era tanto”.

Lei fa parte dei grandi maestri che hanno raccontato la storia del motorsport, che consiglio darebbe ad un giovane che vuole intraprendere la carriera da giornalista nel mondo di oggi?

“Oggi è veramente difficile perché il mondo è molto liquido. Una volta un giornale era un punto di arrivo, un riferimento. Oggi abbiamo un’informazione che gira per mille canali, non sempre accurata ma comunque immediata. Questo ha portato a svilire il lavoro della ricerca: è difficile crescere la gente perché oggi basta dire, urlare, arrivare prima. Allora succede che i giornali, quelli più importanti, che ancora tengono un po’ di testa, sono restii a prendere chi non sa, perché devono allevarlo e non c’è tempo di allevare la gente. Gli altri li sfruttano e spesso non li pagano.

Il vero problema della vostra generazione, dei giovani, è che è arrivata l’era digitale. Che non è un male, anzi, per tanti aspetti è un bene; ma mentre prima il mestiere del giornalista ti assicurava una vita serena, una famiglia da tirare su – se eri bravo facevi carriera, se lo eri meno restavi con un livello economico che ti permetteva di vivere dignitosamente – l’era digitale ha sostituito il vecchio giornalismo ma non ne ha presi i vantaggi economici, uccidendolo. I ragazzi sono sfruttati nella maggioranza dei casi. La rete ha insegnato che deve essere tutto gratis per forza e quindi c’è tanta gente che si offre volontaria e va avanti così finché ce la fa; poi deve trovarsi un altro lavoro e lascia il posto ad altri volontari.

Non c’è la scuola, non ci sono i passaggi: io scrivevo qualcosa, un altro me lo leggeva, poi c’era un capo servizio o un capo redattore che lo leggeva ancora e poi finiva in pagina. Adesso bisogna andare fuori subito, chi scrive va direttamente su un sito. La scuola non c’è più, in questo senso è finita.

Onestamente non saprei consigliare, anzi, mi verrebbe da dire cambia lavoro, che è brutto detto da chi ha fatto sempre questo. Però, effettivamente, io penso al mio ultimo giornale che ho diretto, Quattroruote. Un giornale così non può prendere un ragazzino, deve prendere uno che sappia già fare, che s’è fatto la pelle, la scuola, uno che si è visto che è bravo”.

Che rapporto ha con i social network visto che, in questi giorni, abbiamo visto anche le presentazioni delle Formula 1 viaggiare su questi canali.

“Oggi comanda la fretta: la parte commento, la parte analisi ormai è ristretta a pochi, che saranno poi quelli che resisteranno. Alle presentazioni una volta andavano quaranta giornalisti accreditati, oggi con il digitale è uguale per tutti. Però è molto difficile da questo modo di presentare gli eventi poter trarre della analisi. Sì, hai fatto vedere la macchina, è bella, è rossa, è opaca, hai tre parole uguali per tutti ma poi dovremo andare a vedere un cronometro, perché finché non vedremo quello che gira non avremo idea di com’è, perché tutti ne parlano soltanto bene. Ormai si racconta l’evento così com’è ma non si commenta, non c’è dietro un lavoro. Quando raccontavamo le presentazioni negli anni ‘80 o ‘90 su Autosprint, con le foto che arrivavano la notte con una fatica enorme – perché era una fatica con Ferrari avere qualcosa di comodo – partivano i quattro o cinque più bravi nella redazione che si buttavano ad analizzare prima di scrivere tutto quello che potevano vedere. Oggi invece si scrive vedendo l’immagine”.

Non è che sia stata un po’ anche colpa “nostra”?

“Non c’è dubbio (lo dice ridendo, ndr). Ma non è una colpa. Io capisco perfettamente: tutti siamo partiti con una passione, però io ricordo che quando venivano da me quelli che dicevano “io vorrei andare a seguire la Formula 1, ci vado anche per niente e a spese mie pur di scrivere e poter andare” rispondevo “non se ne parla nemmeno, perché così tu stai facendo dumping sugli altri, non esiste”. È un mestiere: un mestiere deve avere le sue regole, chi va deve essere pagato e invece c’è un’offerta esagerata di gente che, pur di fare, accetta compromessi indegni: c’è gente che oggi scrive per dei quotidiani e gli danno 5€ a pezzo lordi. Non c’è più dignità per questo mestiere, si vive sulla quantità e non sulla qualità e questo non va bene.

Si è ammazzato quello che è un lavoro di fatica. Un pezzo deve essere sofferto. La gente a casa, magari, non capisce le sfumature ma le sente, sente se un pezzo è frutto di fatica o se è scritto così, al volo. Il lettore ha molto più fiuto di quello che noi crediamo. E poi dà peso: questo ha portato alla fine di tanti giornali e alla crisi. Si è ucciso un sistema che funzionava e si è sostituito con un sistema bello, immediato, veloce ma che non funziona”.

Come crede che questo sistema possa cercare di risollevarsi in qualche modo?

“Non credo ci sia un modo. Va tutto così veloce che dovremo trovare altri modi. Si salveranno quei grandi giornali che riusciranno a far capire a qualcuno che ci sono delle cose che si possono avere solo pagandole. Allora, se ci saranno delle entrate, potranno essere girate per far sì che il livello di chi scrive, che deve farsi pagare, sia alto. Il New York Times riesce a stare in piedi pur essendo un giornale cartaceo, però gli articoli si pagano. Da noi se un sito chiede solo di registrarsi per poter leggere delle cose la gente va via. Allora non so cosa dire. Ho passato una vita a fare questo e vedo un declino nella qualità.

Oggi sui social, a prescindere da quelli che sono, vengono permessi dei commenti indicibili. Tu scrivi perché hai conosciuto le persone e ti viene risposto “ma che cavolo dici”. Perché ti puoi permettere di dire questo? Perché se uno scrive che la nuova macchina Pinco Pallino è bella qualcuno ti dice “hai preso i soldi”? Perché devi pensare che tutti facciano quello che tu faresti? Io i soldi li prendevo perché mi pagavano i giornali e il mio editore per fare il mio lavoro. A nessuno è venuto in mente, quando sono partito con le crociate per lo sterzo di Senna rischiando cause miliardarie – con mia moglie che non dormiva la notte – e per sei mesi siamo andati avanti tutte le settimane a chiedere la verità, di dire che io lo facevo perché mi pagava qualcuno. Oggi sarebbe tutto un “se lo dice è perché ha degli interessi”. Ed è disarmante.

I mezzi sono cambiati: le stupidaggini una volta si dicevano al bar. Oggi il bar è diventato internazionale, globale e quindi diventano globali anch’esse. Io sono dell’idea – quando lo dico mi danno del vecchio e quindi mi taccio – che se tutti quelli che scrivono mettessero nome e cognome sarebbe già un primo passo. Io che scrivo un articolo lo faccio con nome e cognome e tu, che mi insulti su quello che io ho scritto, lo fai in maniera completamente anonima. Io esco allo scoperto ogni volta che scrivo”.

Cambiamo argomento: siamo nei giorni dei test, inizia ufficialmente il 2020, ultimo anno prima del cambio dei regolamenti. Secondo lei che anno sarà? Sarà sulla falsariga degli ultimi?

“Ogni anno siamo qui a chiedercelo. E tutti siamo prudenti, è inutile sparare sentenze. È un anno di speranza perché la Ferrari non aveva chiuso malissimo; anche se la Mercedes, nelle ultime gare, era tornata quella di prima. Quindi qualche speranza c’è, per lo meno di lottare. La Ferrari sulla carta ha la coppia di piloti più forte, il che non è mai significato avere la squadra più forte. Il rischio è che c’è, all’interno della Ferrari, un manager che pesa troppo e decide troppo. Il figlio di Todt, il manager di Leclerc, è troppo forte in seno alla squadra e questo non può esserci, perché ha condizionato e condizionerà moltissimo le situazioni in pista, mettendo molto in difficoltà quello che non è il suo uomo, in questo caso Vettel. Questo è un problema serissimo, il povero Binotto ha un problema che non auguro a nessuno”.

Oltretutto Todt Jr. sta portando anche i suoi giovani nella FDA…

“Sì, poi ha inserito anche uno che è tutto tranne che giovane, ovvero il fratello di Leclerc, che all’età che ha (19 anni, ndr) non ha vinto niente, ha corso solo nelle categorie minori non vincendo nemmeno. Qui ci dimentichiamo che Charles aveva vinto tanto, è stato bravissimo in tutte le categorie. Verstappen era molto forte, Vettel era stato entusiasmante così come Hamilton.

“Il campionato può essere bello, io spero che lo sia com’è stato l’anno scorso. L’inizio della Mercedes ci aveva fatto pensare a un campionato brutto. Se non avessimo avuto una metà d’anno tutta grigia per una serie di concause – anche sfortunate per la Ferrari – avremmo avuto un campionato combattuto con diversi vincitori e con delle situazioni molto belle. L’inizio ha fatto pensare a un campionato come il 2002 della Ferrari, diventata campione già a Magny Cours; quella è la morte per chi segue. L’anno scorso si diceva che ormai era tutto finito e poi ci sono state delle gare bellissime, prima grazie a Leclerc e poi da Singapore in poi anche grazie a Vettel”.

Verstappen potrà essere, in relazione al mezzo che avrà a disposizione, uomo da titolo?

“Dipende tutto da Newey. Gli ultimi sette/otto anni ha prodotto macchine che partivano sempre male per poi finire benissimo. Le metteva a posto durante l’anno per farle poi diventare formidabili. Se riuscirà ad essere formidabile anche all’inizio per forza Verstappen sarà un candidato, perché è fortissimo. Che poi, oggi, di piloti in Formula 1 che vanno piano ce ne sono veramente pochi. Non siamo ai tempi che tutti ricordiamo con entusiasmo con Mansell, Prost, Senna e Piquet quando poi dietro c’era Boutsen. Adesso se consideri i non campioni del mondo c’è tanta gente che su una macchina vincente potrebbe sorprendere”.

Passiamo ai rally. Abbiamo visto il Rally di Montecarlo e quello di Svezia. Le volevo chiedere se secondo lei il binomio Ogier-Toyota, partito un po’ in sordina, può permettere al francese di raggiungere Kankkunen come pilota capace di vincere con tre marchi differenti o se le prestazioni di Evans e Rovanpera possono essere un campanello d’allarme.

“Ogier ha molte gare dove può essere fortissimo, quando si andrà a correre sull’asfalto avrà da sparare delle cartucce mica male. È forte, ma poi ci vuole che tutto vada dritto per vincere un mondiale. Il livello è alto, le macchine vanno fortissime, forse troppo”.

A proposito di questo. C’è una similitudine tra le vecchie Gruppo B e le WRC+?

“No, assolutamente no. Mi spiego: le macchine di oggi vanno più forte ma, parlando in generale, erano meno potenti in assoluto delle Gruppo B: quelle erano inguidabili perché non c’era l’elettronica, per cui i piloti avevano paura a guidare. Le reazioni erano lente, la potenza era esagerata, la macchina non aveva tutti quegli ausili che permettevano il controllo. A parte l’eccezione di Toivonen, che riusciva a guidare la S4 in una maniera che agli altri, anche i grandi campioni, metteva terrore, oggi invece tutti guidano senza timore. L’unico dubbio che viene è che queste macchine abbiano un potenziale talmente alto che nessuno riesce fisicamente a fare di più. E questo spiegherebbe i distacchi così ridotti. Una volta anche tra i grandi campioni c’eano distacchi di 5, 20, 40 secondi se la prova era di 50 o 60 km. Oggi vanno tutti uguali. Il mio sospetto è che queste macchine vadano talmente forte che il fisico, la reazione, l’occhio, di più non riescano a fare, altrimenti non mi spiego come piloti con caratteristiche, scuole, crescite e carriere diverse facciano sempre lo stesso tempo.

In Formula 1 abbiamo gare in cui troviamo sette, otto, dieci piloti in pochissimi decimi in qualifica. In gara, quando i giri crescono, i distacchi diventano molto alti e non si tratta del decimo del sabato moltiplicato per il numero di giri, ma diventano venti secondi. Questo perché sulla gara il mestiere, il capacità, la situazione, il controllo fanno la differenza. Non può essere che su prove di trenta chilometri arrivino in quattro o cinque in due secondi. C’è un appiattimento verso l’alto, anche se non è il termine più appropriato. Questi piloti sono dei fenomeni, vanno ad una velocità inumana, in più le macchine sono resistentissime, permettono di saltare sopra ostacoli, appoggiarsi, strisciare e questo esaspera il tutto ancor di più. Prima le gare bisognava finirle e poi vincerle, ed erano anche più lunghe. Oggi i piloti sono molto più allenati di quelli di prima, le gare sono molto più corte, le prove sono tutte di giorno tranne qualche caso raro; si è appiattita tutta una serie di elementi e abbiamo delle macchine formidabili. Questo fa sì che si sia persa anche un po’ la capacità di giudicare i piloti. Quando tutti fanno lo stesso tempo chi è il più bravo?”

Forse chi ha la macchina migliore.

“Ma è sempre così nelle corse. La macchina migliore è fondamentale perché se tu, la macchina migliore, non la dai al pilota migliore, è molto difficile che vinca. Poi capitano le eccezioni come Vettel a Monza, Damon Hill a Spa ma sono situazioni che rimangono nella memoria. Se Hamilton guida tutte le gare la Toro Rosso non vince. Potrebbe vincere delle gare ma mai un campionato. La macchina nelle corse c’è sempre stata, non lamentiamoci. Oggi le gare sono molto più vivaci di un tempo, un tempo erano molto più noiose ma è tutto annegato nelle emozioni. Una volta il pilota era il cavaliere del rischio”.

Un ringraziamento speciale a Carlo Cavicchi per l’intervista.

Grazie ad Alessandro Secchi per la collaborazione.

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