Imola ’94 | Roland, il caduto “protetto” da Ayrton

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di Alessandro Secchi @alexsecchi83
30 Aprile 2019 - 14:10
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Ci sono secondi che non si possono dimenticare. Venticinque anni fa ero seduto sulla stessa sedia dalla quale, il giorno prima, avevo assistito al volo della Jordan di Rubens.

Come in un rituale le telecamere stanno seguendo ancora una Williams, quella di Damon Hill, intenta ad affrontare proprio la Variante Bassa, luogo dell’incidente del brasiliano. Come in un funesto passaggio di consegna, passano a ciò che resta di una Simtek che, senz’anima, ruota su se stessa nell’erba verso la curva della Tosa. Attraversa spanciando il cordolo, mostrando all’obiettivo il lato sinistro devastato. Si ferma nel silenzio. La forza centrifuga ha terminato il suo effetto: il casco di Roland Ratzenberger si muove inizialmente in avanti e poi, lentamente, si reclina all’indietro, inerme, fino ad incontrare il poggiatesta dove si ferma di netto. La visiera è parzialmente aperta dalla forza dell’impatto. Ma quello che resta maledettamente nel cervello, dopo 25 anni, sono quelle macchie rosse proprio attorno alla visiera. Non è il rosso della bandiera austriaca, portata con orgoglio nella livrea. Mette ancora i brividi.

La scocca è distrutta, squarciata: si vede il gomito del pilota in basso. Roland non c’è già più. Lo capisci, si vede. Ancora i medici, ancora il Prof. Sid Watkins, ma questa volta hai la sensazione che è più grave. Quelle macchie, quel casco che si muove in modo quasi innaturale. I replay mostrano un flap dell’ala anteriore volare via prima dello schianto. Capisci cosa è successo: fatalità, sfiga, disgrazia, chiamala come vuoi. Poteva capitare a chiunque.

Lo estraggono, tentano il massaggio cardiaco, lo portano via in elicottero. Ayrton si porta lì. Vuole sapere, capire. Non passa molto tempo dalla notizia ufficiale che getta Imola nello sconforto. Dopo il rischio di Rubens arriva un ceffone tremendo e in quel sabato proprio nessuno può immaginare che la Formula 1 non ha ancora visto tutto. 

Per certi versi la morte di Ratzenberger, la prima vissuta in diretta, ha un qualcosa di più intenso rispetto a quella di Ayrton. Un qualcosa a cui non vorresti mai essere preparato da adulto e che, sicuramente, non contempli quando sei piccolo e vivi i primi eventi sportivi con l’innocenza e la spensieratezza del tuo essere bambino, undicenne nel mio caso. 

Iniziai a chiedermi perché un uomo fosse disposto a morire per correre in macchina. Me lo chiedo ancora oggi. È la base del rispetto.

Forse non è bello da dire, o forse bello non è nemmeno l’aggettivo giusto, ma credo che quanto successo il giorno dopo ad Ayrton abbia reso più giustizia anche a Roland nell’arco di questi 25 anni. Se l’austriaco, l’ultimo arrivato in F1 (con, comunque, una carriera alle spalle), il pagante per cinque Gran Premi, fosse stato il solo a perdere la vita in quel weekend, non si sarebbe probabilmente messo in moto tutto il meccanismo che ha portato la Formula 1 ad essere quella di oggi. Si sarebbe cercato di circoscrivere il tutto nell’ambito della semplice fatalità, dell’evento – la morte – che volenti o nolenti è implicito nel mondo del motorsport.

In qualche modo Ayrton, con la sua tragica scomparsa frutto a sua volta di una fatalità (il braccetto pochi centimetri più in su non sarebbe forse stato fatale) oltre che di una modifica oggetto di un processo, ha preso Roland sotto la sua ala protettrice lanciando un messaggio chiaro: la Formula 1 doveva cambiare. Non solo in nome del più amato ed acclamato, ma anche in quello di uno degli ultimi. Piloti di livello diverso ma, prima di tutto, uomini. E, per questo, da rispettare allo stesso livello.

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