Due decenni oggi dal giorno che ha cambiato la storia della Ferrari, di Michael e di tanti tifosi
Un ragazzo di diciassette anni, un divano letto in salotto con le lenzuola sparpagliate, il suo cagnolino di un anno vicino a lui. Davanti un televisore Westinghouse da 28 pollici a tubo catodico, a due metri di distanza, fa da ponte col Giappone, Suzuka.
Inizia così la giornata che mai, quel ragazzo, potrà dimenticare. “Solo chi c’era può capire” non è solo un modo di dire ma una sentenza, suffragata da quello che per vent’anni si è poi letto, ascoltato da parte di chi non c’era, non conosce la storia di quel periodo, non può immedesimarsi o non vuole farlo per un’altra scelta, legittima, di tifo.
Suzuka 2000 non è una gara, un campionato, una vittoria. È un inno alla rinascita, la conferma che tutto è possibile. La fine di un incubo, una rincorsa durata cinque lunghi anni che tanti, troppi dimenticano.
Perché è facile oggi dire “Per forza tifavi Schumacher, ha vinto tutto”. Ma in quel momento, sulla griglia di partenza del Gran Premio del Giappone di vent’anni fa, Michael era un due volte campione del mondo che aveva, fino a quel momento, fallito.
Era arrivato alla Ferrari nel 1996 per un mucchio di soldi, non “per un tozzo di pane” come aveva ricordato l’Avvocato Agnelli. Dopo un anno di semiassi persi e motori in fumo, con tre gare vinte non si sa come (lo si sa, in realtà), il sogno iridato si era infranto nel ’97 con una sportellata sulla Williams di Villeneuve a Jerez. Un’azione vergognosa, figlia del nervosismo, di qualcosa che non andava e che dopo 23 anni non si riesce a sapere con certezza, anche chiedendo informazioni a chi c’era. Stupida, perché sarebbe bastato entrare in quella curva come in tutti gli altri giri e chissà cosa sarebbe successo. Polemiche, teste richieste sul piatto ma forza di resistere e difendere il fortino, atteggiamento che ora non esiste più.
Nel ’98 la seconda delusione, con la posteriore destra che scoppia proprio a Suzuka dopo una rincorsa folle. La macchina che si spegne sulla griglia (per un problema, non per un errore, si scoprì più in là), la partenza fulmine, il rientro nelle prime posizioni e poi il ritiro. Era stata la stagione dei miracoli: la penalità scontata in pitlane a Silverstone, le tre soste in Ungheria, il sorpasso incrociato alla Roggia a Mika. Ma anche quella delle polemiche di Spa, di quel piede alzato in traiettoria con una nube d’acqua alle spalle di Coulthard e quella corsa al box della McLaren per regolare i conti a modo suo. Niente da fare, è Hakkinen campione per la prima volta.
Si sperava nel quarto anno ma il 1999 finì sul muro della Stowe a Silverstone. Una vite di spurgo sul freno posteriore destro salta così come la gamba destra di Michael. Sei gare saltate, Eddie che si lancia alla rincorsa del titolo, le polemiche per la ruota del Nurburgring che si sentono ancora adesso. Il rientro nella prima volta di Sepang e quel secondo in qualifica al compagno gridano ancora vendetta per ciò che poteva essere quella stagione. C’era ancora da attendere, ma intanto erano passati già quattro anni.
Anche quel 2000 viaggiava sul filo di lana. Dopo un inizio di stagione fantastico si era vissuta un’estate torrida, condita da errori, ritiri ed un rientro in classifica di Hakkinen che aveva risvegliato fantasmi di qualsiasi tipo. Ed ora c’era da sudarsela, ancora una volta: come nel ’97, come nel ’98, come nel ’99, con un risultato di 3-0 per gli avversari.
Dopo quattro anni e tre “finali” perse per la Rossa, sulla griglia di partenza del Gran Premio del Giappone del 2000 non c’era lo Schumacher dominatore ma quello che, fino a quel momento, non era riuscito nell’obiettivo. C’era quello che aveva lottato, perso, sbagliato più di quello vincitore e trascinatore. Perché alla fine, se il mondiale non lo porti a casa, puoi essere forte quanto vuoi ma rimani il secondo, “il primo dei perdenti”.
Alla prima curva, con Hakkinen scattato meglio, quasi cinque anni di pressione diretta e ventuno di attesa del popolo rosso si posarono sulle spalle di un pilota il cui destino dipendeva da quella gara (ed eventualmente la successiva). Non propriamente roba da poco. Nessuno, in quel momento, poteva sapere come sarebbe andata, ma chi ha vissuto quel tempo ricorda bene cosa era stato il pregresso fatto di delusioni, sfighe, quasi iatture per un titolo che, nonostante tutto, non ne voleva sapere di arrivare. Nessuno sapeva che da quel giorno tutto sarebbe cambiato; viveva il momento senza conoscerne il futuro, un momento fatto di incertezza e di un pilota ancora lontano dal diventare e rimanere per quindici anni il più vincente di sempre.
È facile parlarne ora che si conosce il risultato e, soprattutto, il post Suzuka. È facile dire che Schumacher ha dominato cinque anni guardando solo i numeri, includendo annate come 2000 e 2003 che niente hanno a che vedere col dominio e un 2001 in cui anche il suo compagno fece la metà dei punti. Facile parlare dimenticando il “pre”, fondamentale. Senza il periodo 1996-2000 non ci sarebbe stato il 2001-2004. Senza quella vittoria di Suzuka, con un Hakkinen iridato per la terza volta, oggi si direbbe ben altro.
In quel momento, su quel divano, nell’attesa dello spegnersi dei semafori c’era un ragazzo che come tanti aveva vissuto le delusioni degli anni precedenti ed era pronto, nel caso, a viverne un’altra. Sapendo di dover ripartire l’anno dopo da zero, ancora una volta, ma con la stessa intatta fiducia nel suo pilota preferito.
Quel giorno, invece, tutto cambiò. La strategia perfetta, un cambio gomme decisivo, il dubbio della pioggia, la gioia sulla linea del traguardo e l’emozione sportiva più forte, straripante, dirompente che quel ragazzo possa ricordare a vent’anni di distanza. Una giornata indimenticabile, impareggiabile: la fine di una rincorsa, l’inizio di una nuova era, colma di successi e numeri che, piano piano, stanno per essere raggiunti e superati.
Era lo stesso Michael a dire che i record sono fatti per essere battuti. Eppure i suoi, per me e per tanti, resteranno comunque idealmente imbattibili: figli di un percorso, di una strada dissestata, di un lavoro instancabile in pista a qualsiasi ora di qualsiasi giorno; figli di infortuni sportivi e fisici, di una fiducia data a tempo indeterminato, di un’attesa paziente, di un patto ripagato dopo una lunga avventura.
E, come da sette anni a questa parte, è difficile riguardare quel podio, quella direzione dell’inno italiano, nascondendo il magone e gli occhi lucidi per ciò che resta oggi; un ricordo, una voce, un figlio che vive il dramma in casa per poi mostrare il sorriso in pista. Un coraggio da leone, un cognome che fa spavento, un futuro che non conosciamo. Proprio come quel giorno.
Vent’anni, una vita fa. Pugni sul volante, “Give Corinna a big kiss from me”. Un messaggio che oggi fa tenerezza, mette malinconia, voglia di fargliene arrivare milioni. Uno per ogni tifoso che, quel giorno, impazziva dopo un’attesa interminabile.
“We did it, we did it”. Come se fosse ieri. Oggi e per sempre.
È vietata la riproduzione, anche se parziale, dei contenuti pubblicati su P300.it senza autorizzazione scritta da richiedere a info@p300.it.