F1 | Storia del Gran Premio degli Stati Uniti

di Francesco Ferrandino
Pubblicato il 19 Ottobre 2016 - 12:45
Tempo di lettura: 8 minuti
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F1 | Storia del Gran Premio degli Stati Uniti

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Data l’annosa “distanza” che nei decenni, tra alterne vicende, si è creata e consolidata fra i Gran Premi di Formula 1 “all’europea” e il mondo delle corse americane, sembra sorprendente constatare che furono proprio gli Stati Uniti i primi a seguire l’esempio europeo, organizzando nel 1908 quello che fu denominato “American Grand Prize”, svoltosi secondo la formula stabilita appunto dall’Automobil Club di Francia, che nel 1906 aveva dato vita al primo Gran Premio di tutti i tempi. Viene scelto un circuito situato vicino la città di Savannah (Georgia), teatro di una grande battaglia tra la Benz (con Hémery e Hanriot) e la FIAT: la Casa italiana prevale con Wagner che batte il compagno Felice Nazzaro all’ultimo giro, a causa di una foratura che colpisce le ormai esauste coperture dell’italiano, unico tra tutti a non fermarsi per cambiare le gomme, grazie alla sua leggendaria guida di velluto.

Nel 1909, come risultato della crisi economica mondiale, nessun “Grand Prix” viene disputato, né in Europa né negli States. L’American Gran Prize torna nel 1910 e per due anni sarà addirittura l’unico “Grand Prix” del mondo (in Francia l’Automobil Club locale non riesce a organizzare la gara di casa), mentre comincia a splendere la stella dell’ovale di Indianapolis. La corsa americana si disputa sempre a Savannah ma su un circuito di 27,804 km da ripetersi 24 volte: la Benz si prende la rivincita trionfando con Bruce-Brown. Quest’ultimo concede un applaudito bis vincente l’anno successivo, ma stavolta a bordo di una FIAT S74, che così trionfa per la seconda volta nel Gran Premio americano.

Nel 1912 la corsa si svolge a Milwakee, ma è sempre una FIAT a vincere, ancora una volta col modello S74, stavolta guidato da Caleb Bragg, in una edizione purtroppo funestata dalla morte che colpisce proprio l’eroe vittorioso dei due anni precedenti, il popolarissimo David Bruce-Brown: gli è fatale lo scoppio di una gomma.

Un anno di pausa (per gli eccessivi costi di organizzazione), e il Gran Premio americano torna nel 1914, sul veloce circuito di Santa Monica: per la prima volta la gara è vinta da una vettura americana, la Mercer di Pullen. L’anno successivo si corre a San Francisco, e vince la Peugeot EX-5 dell’anglo-americano (ma nato in Italia) Dario Resta, pilota di vertice in quegli anni che lo vedranno vincere anche la Vanderbilt Cup (sempre nel 1915) e la Indy 500 del 1916, anno in cui per l’ultima volta viene organizzato l’American G.P. (di nuovo a Santa Monica) con il bis della portentosa Peugeot EX-5, stavolta condotta da Wilcox e Aitken.

Finita la spinta europea, i Gran Premi negli Stati Uniti muoiono rapidamente e per oltre quattro decenni non se ne sentirà più parlare. Il pubblico mostra chiaramente di preferire le piste ovali, piccole e dotate di comode tribune che consentono una visione globale. La 500 miglia di Indianapolis si afferma saldamente come unica competizione di richiamo internazionale, e negli anni ’20 viene inserita nel primo tentativo di istituire un Campionato Mondiale per Marche (1925-1927), così come, nel dopoguerra, entra a far parte del Mondiale Piloti per le prime undici stagioni (1950-1960) ma in pratica i due mondi, quello europeo e quello americano, restano profondamente distanti.

Sul finire degli anni ’50, rinasce il Gran Premio degli Stati Uniti, che nel 1959 sul circuito di Sebring vede la prima vittoria del giovanissimo Bruce McLaren, nel giorno del primo mondiale vinto dal suo compagno Jack Brabham. Dopo un’edizione a Riverside vinta da Moss su Lotus, nel 1961 il Gran Premio trova la sua sede stabile sulla pista di Watkins Glen, nello stato di New York, dove la gara si correrà per i successivi vent’anni, periodo in cui la vittoria del Gran Premio sarà molto ambita dai piloti per via del favoloso montepremi messo in palio dai generosi organizzatori.

Negli anni ’60 i dominatori sono Jim Clark e Graham Hill, con tre vittorie a testa. Il primo riesce addirittura a portare al successo nel 1966 il mastodontico motore BRM a 16 cilindri, mentre Hill proprio su questa pista incappa in un terribile incidente nell’edizione del 1969 (prima vittoria di Rindt), che in pratica segnerà il tramonto della sua carriera come pilota di vertice. Nei due anni successivi il Glen (modificato nel 1971 e passato da 3,7 a 5,4 km) sarà teatro della prima vittoria anche per Fittipaldi e Cevert, ma mentre per il brasiliano sarà l’inizio di una lunga e brillante carriera, il giovane francese troverà la morte su questo stesso circuito nel 1973 in un terribile incidente in prova, una tragedia che si ripete anche l’anno successivo quando Helmut Koinigg muore in gara. Entrambi sono vittime delle lame dei guard-rail, installati in nome della sicurezza ma ancora lontani da una razionale sistemazione.

Dal 1976 il Glen viene affiancato da un GP organizzato a Long Beach in California, che viene ufficiosamente denominato GP degli USA-Ovest per distinguerlo da quello disputato sulla costa orientale: curiosamente, per due anni consecutivi i due Gran Premio stagionali saranno vinti dallo stesso pilota, infatti nel 1978 Carlos Reutemann (vittorioso anche nel 1974 al Glen) vince entrambi i Gran Premi su Ferrari, mentre l’anno successivo è Gilles Villeneuve, sempre su una rossa di Maranello, a trionfare nei due appuntamenti americani.

La vittoria di Alan Jones su Williams nel 1980 è il canto del cigno per il Glen, che non ospiterà mai più un Gran Premio. Per quasi tutti gli anni ’80, Ecclestone vara diversi tentativi, per lo più estemporanei, per mantenere viva la presenza della Formula 1 negli States organizzando vari Gran Premi, anche se essi non vantano più la denominazione di “Gran Premio degli Stati Uniti”. Emblematico il 1982, quando il Paese nordamericano ospita addirittura tre gare valide per il Mondiale: a Long Beach (che nel 1983 vedrà la sua ultima edizione) si affiancano il “Caesars Palace Gran Prix”, disputato addirittura nel parcheggio dell’omonimo hotel di Las Vegas, e il Gran Premio di Detroit, che fino al 1988 resterà l’unico presidio della Formula 1 negli USA. Un altro effimero tentativo viene fatto nel 1984, correndo tra i muretti di Dallas con l’asfalto che si spacca a poche ore dalla gara, esperienza emblematica delle difficoltà della F1 di risvegliare interesse nel mondo delle corse americane.

Dal 1989 al 1991 torna ufficialmente il “Gran Premio degli Stati Uniti” tra le strade della città di Phoenix in Arizona: Ayrton Senna, dopo aver regalato l’edizione del 1989 al compagno-rivale Prost a causa di un guasto, domina senza discussioni i due successivi eventi, tra la persistente indifferenza del pubblico americano, cosa che porterà nuovamente al ritiro della Formula 1 dagli Stati Uniti per quasi dieci anni.

Il mercato nordamericano è però troppo importante per il Circus, e allora Ecclestone ci riprova a partire dal 2000, quando Mr. E si accorda con Tony George portando il Gran Premio degli USA nientemeno che nel mitico catino di Indianapolis, utilizzando però un tracciato stradale interno, unito a una parte dell’ovale. Michael Schumacher è l’indiscusso dominatore di questo inedito circuito, vincendo con la Ferrari ben cinque edizioni tra il 2000 e il 2006, lasciando solo la gara del 2001 a un Mika Hakkinen che ottiene la sua ultima vittoria prima dell’annunciato ritiro, e quella del 2002 al compagno Barrichello per un famigerato “malinteso” in un arrivo in parata mal congegnato.

Ma la vittoria del 2005 è di quelle che restano negli annali, e purtroppo non per vicende sportive: la Michelin, che fornisce i propri pneumatici alla maggioranza dei team, dopo alcune preoccupanti forature in prova (culminate nell’incidente della Toyota di Ralf Schumacher), dichiara di non poter garantire la sicurezza delle proprie coperture sulla curva 13 (quella sopraelevata che sottopone gli pneumatici a elevati stress), e così i team gommati Michelin si ritirano clamorosamente dopo il giro di ricognizione, lasciando in pista solo sei vetture, cioè le Ferrari, le Jordan e le Minardi (gommate Bridgestone). Il pubblico americano insorge e protesta verso l’incredibile situazione, arrivando persino a lanciare oggetti verso la pista.

L’ultima edizione a Indianapolis, nel 2007, è appannaggio della McLaren Mercedes guidata dal giovane debuttante Lewis Hamilton, che batte il più esperto compagno Alonso. Il 2007 segna l’addio di Indianapolis alla Formula 1: gli organizzatori locali non si accordano con Ecclestone sui costi e così si deve attendere il 2012 e la costruzione del Circuit of the Americas, un autodromo messo in piedi appositamente per la Formula 1, per rivedere il circus negli States. Ed è lo stesso Hamilton, quattro anni dopo l’addio di Indianapolis, a vincere davanti a Vettel ed Alonso. L’edizione del 2013 è stata vinta da Sebastian Vettel su Red Bull, mentre l’inglese è il mattatore delle ultime quattro edizioni negli States. Quella del 2015 gli ha regalato il terzo titolo mondiale in carriera.

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