F1 | Nella crisi di Lewis. Gli anni ad effetto suolo, l’ambientamento difficile ma non per i predecessori a Maranello

Autore: Alessandro Secchi
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Pubblicato il 5 Agosto 2025 - 18:00
Tempo di lettura: 6 minuti
F1 | Nella crisi di Lewis. Gli anni ad effetto suolo, l’ambientamento difficile ma non per i predecessori a Maranello
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Il sette volte iridato è alle prese con la crisi più profonda da quando è in F1. Poteva essere prevista, ma non in questi termini

È incredibile pensare alla distanza tra l’attesa vissuta, per tutta la stagione 2024, per l’arrivo di Lewis Hamilton in Ferrari e quanto questo 2025 ci sta mostrando. Sebbene, per diversi motivi, anche su queste pagine avessimo previsto che le cose, al di là dell’entusiasmo iniziale, sarebbero potute non essere facili con a fianco Charles Leclerc, la portata di questa crisi è oltre ogni limite di immaginazione.

Nessuno avrebbe potuto pensare che, dopo quattordici gare, non tanto i risultati quanto il morale del sette volte iridato sarebbe potuto finire sotto i tacchi com’è emerso, clamorosamente, dalle ultime dichiarazioni di Budapest. Suggerire che, forse la Ferrari dovrebbe cambiare pilota è un qualcosa di inascoltato e stucchevole, segno di una profonda problematica anche psicologica che sta attanagliando il sette volte iridato. Il quale, forse, si starà chiedendo se quella scelta di abbandonare il porto sicuro di Mercedes sia stata quella giusta.

L’ambientamento e i predecessori

Uno dei punti che vengono chiamati a giustificazione delle prestazioni di Hamilton è il difficile ambientamento a Maranello dopo tanti anni alla corte di team di stampo inglese, come McLaren a Woking e Mercedes a Brackley. Su questo va però ricordato che lo stesso non è successo per diversi dei predecessori di Lewis in Italia.

Andando a ritroso, Sebastian Vettel conosceva l’Italia per i trascorsi a Faenza ma poi si era accasato in Red Bull dal 2009 al 2014. In Ferrari vinse alla seconda gara portando a casa 13 podi nella prima stagione. Fernando Alonso, debuttante in Minardi, visse poi ad Enstone dal 2002 al 2009 con la parentesi di McLaren, a Woking, nel 2007. Arrivato in Ferrari, vinse alla prima gara e si giocò il titolo al primo anno.

Kimi Raikkonen fu uomo McLaren dal 2002 al 2006, eppure appena arrivato a Maranello vinse prima gara e titolo alla fine del 2007, l’ultimo campionato piloti della Ferrari. Michael Schumacher, prima di arrivare in Ferrari nel 1996, era stato un altro figlio di Enstone dal 1991 al 1995. Nessun problema di ambientamento e tre gare vinte al primo anno, con una delle monoposto più problematiche della storia della Ferrari: la F310. Monoposto ricordata più per i guasti che per gli aspetti positivi.

Tutti i piloti sopracitati sono arrivati a Maranello prima dei 30 anni. Lewis Hamilton ne ha 40 e la sua lunga esperienza avrebbe dovuto, nel caso, compensare in qualche modo un cambiamento di abitudini e mentalità tra il mondo anglosassone e quello italiano. È per questo che il discorso sull’ambientamento regge fino ad un certo punto.

Soffrire Leclerc

Forse, si potrebbe puntare più sulle attenzioni ricevute all’interno del team. Hamilton è sempre stato un pilota con la necessità di essere coccolato e riconosciuto come leader indiscusso del team per poter rendere al 100%. Quando questo non è successo, i limiti caratteriali sono venuti a galla in più occasioni: con Fernando Alonso al primo anno (o almeno all’inizio di stagione) in McLaren, con Jenson Button successivamente. Le telemetrie pubblicate su Twitter per dimostrare un vantaggio tecnico del compagno fecero scalpore.

Con Nico Rosberg in Mercedes, si ricordano le accuse sugli scambi di meccanici e le promesse di un libro che, l’anno prossimo, dovrebbe essere teoricamente in uscita. Anche con George Russell non sono mancati i momenti di attrito in alcune occasioni. In Ferrari, Hamilton ha trovato dall’altra parte del box il miglior Charles Leclerc che la Rossa abbia mai visto. Non ci è dato sapere se Hamilton abbia dato per scontato che sarebbe stato al livello o forse superiore al monegasco, già al settimo anno nel team: se sì, evidentemente ha sottovalutato il compagno.

Ed è forse questo l’aspetto più imprevisto in questi primi otto mesi a Maranello: nessuno poteva mettere in preventivo un divario del genere in pista con Leclerc e poco conta chiamare in causa le due Sprint (una vinta, l’altra sul “podio”), che non contano per le statistiche reali e si sono rivelate, a conti fatti, delle eccezioni in un rendimento globale assolutamente non all’altezza del palmares. L’essersi riaffidato subito ad Angela Cullen può essere servito agli inizi per avere al suo fianco una figura conosciuta in un ambiente nuovo, ma non può risolvere i problemi al volante.

Il ciclo ad effetto suolo

Tenendo a mente che, durante il ciclo stradominante di Mercedes dal 2014 al 2021, Hamilton ha “concesso” un totale di 50 Pole Position e 30 vittorie ai suoi compagni Nico Rosberg (2014/2016) e Valtteri Bottas (2017/2021), numeri comunque alti, il ritmo dell’inglese sembra essere calato in corrispondenza dell’introduzione del regolamento ad effetto suolo, con in quale si è trovato in estrema difficoltà sin dal 2022 quando George Russell l’ha raggiunto in Mercedes.

Con questo regolamento la necessità principale è quella di tenere il più possibile la monoposto bassa per poter generare carico, pena problemi con di bilanciamento soprattutto al posteriore. Lewis Hamilton, sin dagli esordi, è sempre stato un pilota con uno stile di guida che predilige un posteriore piantato a terra. In questo, Lewis è simile a Sebastian Vettel: e, infatti, il tedesco è andato in difficoltà quando il ciclo degli scarichi soffianti che lo ha “aiutato” in Red Bull è stato soppiantato dall’inizio dell’era ibrida, nel 2014.

Con Hamilton è successo qualcosa di molto simile: prova ne sono i problemi che Mercedes aveva nel gestire il porpoising, soprattutto al primo anno, con le conseguenze che poi tutti ricordiamo: da un lato la necessità di tenere la monoposto bassa (più per lui che per Russell, il quale i risultati li coglieva), dall’altro lo spanciare aggressivo della W13 che portò al famoso mal di schiena di Baku. La controprova definitiva fu il miglioramento in termini di prestazioni di Hamilton appena introdotta la direttiva tecnica TD039, che impose un limite al porpoising a tutti i team fornendo, indirettamente, la possibilità all’inglese di risalire la china.

Questo non fu comunque sufficiente, per la natura stessa del regolamento, a far trovare confidenza con queste monoposto al sette volte iridato anche nei successivi due anni, con George Russell che si è trovato globalmente meglio nonostante, alla fine del triennio in comune, i due siano arrivati appaiati in termini di punti conquistati proprio ad Abu Dhabi 2024.

Gli indizi sul fatto che Hamilton non abbia digerito questo regolamento ci sono e, di riflesso, spostarsi verso un nuovo team con metodologie di lavoro differenti e un pilota in casa già carico (e al massimo del suo splendore agonistico) non poteva che rappresentare una difficoltà in più. Una difficoltà globale che potrebbe essere stata, forse, sottovalutata.

Il 2026 resta un’incognita, di cui va ricordato un dettaglio: con il nuovo regolamento il carico totale delle nuove monoposto calerà del 15% circa rispetto alle attuali sulla base delle ultime informazioni della FIA, con l’effetto suolo che sarà parzialmente ridotto. Ad oggi è difficile dire se, con queste regole, Hamilton potrebbe ritrovare un po’ di fiducia almeno dal punto di vista tecnico. Dovremo aspettare le prime gare del 2026 per scoprirlo.

Le dichiarazioni

Per l’investimento operato da Ferrari (e dagli sponsor principali, HP e Unicredit, arrivati a ruota con l’annuncio di Hamilton), le dichiarazioni del sette volte iridato sono oggettivamente sconcertanti. “Forse la Ferrari dovrebbe cambiare pilota” e “Succedono cose dietro le quinte che non sono gradevoli” sono affermazioni che si scontrano con i documenti e i dossier preparati in ottica 2026, altro argomento scottante delle ultime settimane. La lunga esperienza non si nega a chi ha corso 370 GP, ma la situazione attuale e il divario di prestazioni con Leclerc rende certe uscite meno digeribili.

Inoltre, va da sé che il concetto di uomo squadra, spesso affibbiato a Lewis, vacilla di fronte a certe frasi pronunciate pubblicamente, cosa già successa con Fernando Alonso al tempo dello svarione “Geni/Scemi” via radio in qualifica a Monza. Diverso, molto, l’approccio tedesco di Schumacher e Vettel, meno portati a lanciare sassi e tirare indietro le mani, almeno pubblicamente, riguardo dettagli oscuri o cose che non andavano particolarmente bene.

In conclusione

È molto difficile dire oggi come si possa invertire una tendenza così negativa. Mancano ancora 10 gare alla fine della stagione e il morale di Hamilton ha già raggiunto livelli bassissimi. Sicuramente, da qui alla fine dell’anno, potrebbe presentarsi l’occasione per portare a casa un buon risultato, ma rappresenterebbe comunque l’eccezione all’interno di un’annata che nessuno si sarebbe atteso in questi termini. La speranza, ormai, va direttamente al 2026: che, a questo punto, sarà già l’anno decisivo per l’avventura del sette volte iridato alla corte di Maranello.

Immagine di copertina: Media Ferrari

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