Uno strike al via, un motore in fumo, un vincitore non scontato, un mondiale che prende la via non ipotizzata.
È bastato questo a risvegliare dal torpore appassionati e non di Formula 1 durante e dopo il GP della Malesia. Come assopiti da un tran tran ormai conosciuto e consolidato, un Gran Premio fuori dagli schemi è servito per ridare un minimo di interesse a tutto il Circus, con la casualità del GP del Giappone già alle porte (si corre questa domenica) che potrebbe servire a mantenere alta la tensione del pubblico.
Imprevedibilità è la parola del giorno: perché non ti aspetti che un Vettel falloso in partenza vada a fare strike alla prima curva, dovendosi ritirare e costringendo alla rimonta non uno qualsiasi, ma uno dei due candidati al titolo. Perché non ti aspetti che nel 2016 un motore termico possa tirare le cuoia (su una Mercedes, per giunta). Perché non ti aspetti che il tanto pubblicizzato nuovo fenomeno della F1, Verstappen, non riesca a cogliere l’occasione ghiotta per vincere. Perché, soprattutto, non ti aspetti che si esca dalla Malesia con Rosberg avanti 23 punti in classifica.
Imprevedibilità, appunto. Caratteristica non più naturale in una categoria talmente standardizzata da essere assolutamente prevedibile. Ovviamente lo strike in partenza non era caratteristica fissa di un tempo che fu, ma l’ansia per il proprio pilota in passato contemplava anche la speranza che la monoposto non avesse problemi e resistesse fino a fine gara. Ora non è più così. I problemi tecnici sono limitatissimi, le Power Unit sono talmente infarcite di elettronica che anche il minimo guasto può essere individuato e rattoppato strada facendo. In questo, la standardizzazione delle componenti in chiave contenimento dei costi (politica falsa e tendenziosa) ha avuto un ruolo chiave. Non si sperimenta più, non ci si spinge più oltre, non c’è più il rischio di rompere come accadeva tempo fa. Una PU che deve durare quattro o cinque GP è roba da endurance, non da celodurismo motoristico dei bei tempi, quando i team portavano in pista due motori diversi per qualifica e gara potendo osare senza il rischio di perdere posizioni in griglia. La rottura di Hamilton fa gridare allo scandalo perché non ci siamo più abituati ma un tempo questo era un fattore molto più comune e, di suo, rendeva le gare molto meno prevedibili.
Imprevedibilità era e dovrebbe essere anche e ancora questo, non l’indovinare quanti giri dureranno le gomme o azzeccare al sabato l’assetto per la domenica, quando il tempo potrebbe cambiare completamente. Imprevedibilità era poter sfruttare quella mezz’ora di warm up al mattino della domenica per, chissà, azzardare qualcosa, giocare l’asso nella manica, tentare l’impossibile all’insegna del più sfrontato “o la va o la spacca”.
Imprevedibilità era anche il risultato di quando i team potevano testare quanto, come e dove volevano, per poie presentarsi in pista con soluzioni sempre nuove e, soprattutto, con la possibilità di rimediare ad un inizio di stagione storto con il vero lavoro in pista. Niente simulatori ipermilionari (sempre per il contenimento dei costi) niente studio dei miglioramenti su un PC molto costoso ma sulla lista dei tempi in pista, sul campo di gara, quello che parla meglio di qualsiasi diavoleria tecnologica.
Imprevedibilità era anche tentare un sorpasso senza che questo comporti un’indagine, una sanzione, un richiamo. Ogni azione dalla minima toccata, anche se non comporta danni, viene ora sezionata, rivista, messa sotto la lente d’ingrandimento quasi come a voler standardizzare anche questo, limitare le azioni di scambio della posizione unicamente alle zone DRS. I piloti non possono più rischiare, non sono più portati a farlo a meno di essere dei Verstappen, perché non è più questione di sorpassare ma di farlo senza la minima toccata, pena finire nel girone dei cattivi.
L’imprevedibilità era naturale, lo spettacolo a tutti i costi è artificiale. Forse, per guardare con positività al futuro, bisognerebbe girare lo sguardo al passato.
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