Essere Mattia Binotto nel 2022

di Alessandro Secchi
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Pubblicato il 29 Agosto 2022 - 01:56
Tempo di lettura: 9 minuti
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Essere Mattia Binotto nel 2022

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Quello di Mattia Binotto è un ruolo difficile tra doveri e responsabilità. E, a volte, criticato senza senso logico

La Ferrari lascia il Belgio con un’altra gara dalla quale prendere appunti, in un mondiale sempre più nelle mani della Red Bull e di Max Verstappen. Ma non è tanto questo l’argomento del quale voglio parlare: la mia intenzione è affrontare un tema più ampio che parte da un nome e cognome, quelli di Mattia Binotto. Perché proprio lui? Perché, volente o nolente, spesso e volentieri è l’esponente Ferrari di cui si parla di più, anche più degli stessi piloti in pista.

In questa stagione il Team Principal della Ferrari è stato (e lo è ancora) oggetto di molte critiche riguardanti i problemi che hanno sbarrato alla Rossa la strada per lottare in questo mondiale, soprattutto dal secondo terzo di campionato in poi. Ora, sono diversi gli approcci che si possono utilizzare per analizzare l’andamento di questo 2022.

Apro una parentesi: io stesso, qualche settimana fa, mi sono chiesto se si può perdere il titolo con la macchina migliore. Sul concetto di migliore, ovviamente, ci sono diverse interpretazioni. I filoni, in linea generale e non tutti dipendenti da essa, sono quattro: performance pura (intesa come velocità), affidabilità, strategia, piloti. Onestamente credo che la Ferrari abbia dimostrato più volte di essere più forte della Red Bull in termini di performance pura, non solo in qualifica (il numero delle pole parla abbastanza chiaro), quanto anche in gara, dove diverse vittorie sono state minate dall’affidabilità o da errori.

Spa ha rappresentato la seconda gara con Miami nella quale la Red Bull ha mostrato superiorità, nonostante le vittorie totali e la classifica indichino una differenza maggiore di valore assoluto. Se devo fare un paragone, questa Ferrari ricorda la McLaren MP4-20 del 2005. Velocissima ma carente in affidabilità. Di per sé, se pensiamo alle ultime due stagioni, il miglioramento è comunque stato netto sotto il profilo motoristico, se parliamo di pura velocità. L’affidabilità è un problema, ma il regolamento permette modifiche in tal senso. Ed è meglio, in ottica futura, poter rendere affidabile una PU veloce che non poterne migliorare una senza problemi tecnici.

Chiusa questa lunga divagazione, torno a Mattia Binotto. Come detto, nelle ultime settimane il Team Principal della Ferrari è finito più volte sotto l’occhio del ciclone per quanto successo in pista. Senza tornare ai fatti di Monaco, mi riferisco alle ultime strategie di Silverstone, dell’Ungheria ed anche al pit stop finale di Leclerc a Spa, con la penalità di cinque secondi (questa figlia più della sfortuna, con il sensore del pit limiter cotto dal problema della visiera nella presa dei freni) e la posizione persa su Alonso.

Abbiamo analizzato anche noi questi episodi e, per dovere di cronaca, riportato quelle che abbiamo ritenuto essere delle incongruenze tra le dichiarazioni post gara di Binotto e quello che i dati – oggi fortunatamente a disposizione – dicevano riguardo tempi, distacchi e possibilità o meno di agire in un modo diverso in determinate situazioni. Giova ricordare anche che è poco conosciuto il numero di persone che nel corso di un Gran Premio, al muretto o in quello che viene denominato “Remote Garage”, controllano live tutti i dati provenienti dalla pista per poter decidere in tempo reale come agire. Pertanto, alla fine di una gara, certi episodi risultano a volte ancora più difficili da comprendere.

binotto

Uno dei dettagli che più ha infiammato e infiamma i tifosi della Rossa sono le strenue difese del Team Principal nei confronti della squadra a fronte di determinati episodi contestati. Qui si apre un discorso a parte, relativo all’esposizione del malcontento da parte di addetti ai lavori o semplici appassionati, che in determinati casi rasenta la denuncia. C’è sempre modo e modo per esprimere il proprio malessere per una determinata situazione, ma spesso si sceglie la soluzione di pancia senza smaltire la rabbia del tifo. Opzione valida per chi vive questa passione in modalità bar, anche se spesso manca un filo di immedesimazione.

Come ho avuto più volte modo di scrivere, l’immedesimazione – o anche il solo tentativo di mettersi nei panni di qualcuno, in questo caso un Team Principal come Binotto, ma vale anche per un pilota – può aiutare a riparametrare un pensiero o un giudizio in funzione delle difficoltà o della responsabilità di un ruolo. È evidente che a tutti noi piace essere allenatori di calcio o Team Principal senza averne le responsabilità, e questo ogni tanto porta a “spararla grossa”. Però, se si vuole portare avanti una discussione ragionata (o almeno tentare di farlo) bisogna anche cercare di entrare nel personaggio, ovviamente per quanto possibile.

È evidente che Mattia Binotto (come può essere Chris Horner o Toto Wolff) sia un dipendente della Ferrari e, in quanto tale, il suo ruolo sia quello di riflettere l’immagine del Team e farne da portavoce seguendone una linea “editoriale”, per intenderci. Voglio dire, credete di poter sentire mai nella vita un qualsiasi TP dire in mondovisione “siamo stati degli imbecilli”? Difficile.
Anche se, dopo aver perso Alonso e probabilmente anche Piastri, a qualcuno in Alpine potrebbe scappare…

Ora però voglio fare un confronto. L’attuale politica della Ferrari è quella di difendere la squadra, anche quando gli eventi sono negativi. Per inciso, non è che Binotto non abbia mai ammesso che alcune decisioni sarebbero potute essere diverse, ma a volte si fa prima a non sentire. Vi faccio, però, una domanda. Ricordate la Ferrari del decennio scorso?

La Rossa che ha affrontato gli anni tra il 2010 ed il 2019 ha cambiato quattro Team Principal (Stefano Domenicali, Marco Mattiacci, Maurizio Arrivabene e, appunto, Mattia Binotto) e “perso”, diciamo così, ingegneri del calibro di Chris Dyer, Aldo Costa, James Allison, Lorenzo Sassi, di cui gli ultimi tre approdati in Mercedes. Alcune di queste uscite sono state di pancia, per dare una risposta alla gogna mediatica figlia di un risultato negativo.

Penso al mondiale perso proprio nel 2010 o all’inizio pessimo del 2011, con l’onta del doppiaggio di Barcellona a casa di Alonso. Eppure qual è stato il risultato di questi continui ribaltoni ed avvicendamenti? Nessuno, a parte il fatto che Costa, Allison e Sassi hanno poi vinto mondiali a ripetizione tra Brackley e Brixworth.

A parità di critiche pubbliche, che arrivano sempre e comunque (a volte anche quando si fa tutto correttamente) cosa è meglio tra continuare a far saltare teste per “dare un segnale” o cercare di fare gruppo? E tra punzecchiare pubblicamente i propri piloti (come ho sentito fare ad Arrivabene) o prenderne le difese anche quando sbagliano?

binotto

Fortunatamente (o sfortunatamente) ho vissuto da giovane tifoso l’era della grande rinascita della Ferrari. Un’era della quale lo stesso Mattia Binotto ha fatto parte, poiché all’interno del team da oltre 25 anni. Quella squadra basò le sue fondamenta sulla forza di un gruppo coeso, cresciuto e diventato sempre più forte nel tempo. Partendo dal 1996, da quando cioè l’investimento miliardario di Schumacher si scontrava con i semiassi persi per strada ed i motori in fumo nei giri di ricognizione, ci vollero quattro lunghi anni per tornare a conquistare un titolo, quello Costruttori nel 1999, per poi arrivare a quello Piloti nel 2000.

Cinque stagioni trascorse tra batoste incredibili come Jerez ’97, drammatica anche mediaticamente per la sportellata inutile a Villeneuve; si è scoperto solo ultimamente che una crepa ad un radiatore della Ferrari non avrebbe comunque permesso a Schumacher di finire la gara. Per non parlare di situazioni drammatiche come la gamba rotta di Michael nel ’99 a Silverstone, la gomma di Irvine persa ai box al Nurburgring che grida ancora vendetta, i sogni infranti che sembravano rendere impossibile la rincorsa al titolo anno dopo anno.

Eppure quel team non si sfaldò. Fece quadrato attorno ai suoi protagonisti soprattutto nei momenti più difficili e continuò a lottare fino a diventare l’armata della prima metà del nuovo millennio, capace di vincere 6 titoli costruttori e 5 piloti di fila. Mattia Binotto proviene da quel periodo e credo ricordi bene, più di tutti, con quali metodologie e approcci si arrivò a quei risultati.

Torniamo al giorno d’oggi. Ovviamente stiamo parlando di una Formula 1, quella del 2022, che nulla ha a che fare con quella di fine anni ’90. Niente più test in pista, niente più “gruppo” che lavora insieme da mattina a sera, forse meno empatia e più numeri dei simulatori in cui credere. Una F1 più “fredda” e calcolatrice, diciamo così. Eppure sono convinto che l’elemento umano, in qualsiasi gruppo, sia sempre fondamentale, così come la capacità di coesione e di puntare tutti insieme verso un obiettivo comune.

Che la Ferrari 2022 abbia avuto ed abbia ancora dei problemi di affidabilità o a livello strategico non è un’offesa dirlo o sottolinearlo. Che Mattia Binotto difenda il suo team strenuamente anche quando alcune defaillance possono sembrare palesi, è quello che pubblicamente farebbe o dovrebbe fare qualsiasi dipendente, con la differenza che nel suo caso si parla di Ferrari e, la Ferrari, è sempre sulla bocca di tutti, più di tutti. E non ho dubbi che Binotto sia cosciente, nel dietro le quinte, che alcune dinamiche devono essere riallineate se in futuro si vuole lottare definitivamente per il titolo mondiale, con meno errori al muretto e una Power Unit che non mandi in penalità i piloti spesso e volentieri.

Quello che lascia più di un dubbio è la pretesa di un ribaltone. I social sono tutti un “Via Binotto”, “via questo”, “via quello” accompagnati da epiteti poco replicabili ma mai da una controproposta, un nome, un’argomentazione. Un ribaltone che, semplicemente, riporterebbe Maranello indietro di 10 anni, a quando certe pratiche erano all’ordine dell’anno con il risultato di non ottenere comunque assolutamente nulla se non confusione, scaricabarili, incertezza e, indovinate un po’? Critiche copiose.

Se fino a due mesi fa potevano esserci ancora speranze (ed ero stato, con la dovuta moderazione, critico anche io) ora la matematica è impietosa. E allora a cosa dovrebbe servire smontare tutto, anche quello che di buono è stato fatto? Sfamare la sete di tifosi inferociti che non ricordano più in là di dieci anni? Sapete quanti ferraristi di vecchia data avrebbero firmato per avere questa monoposto nel 1996 o 1997, con la prospettiva di renderla affidabile successivamente?

La butto lì: non vale la pena, forse, lasciare che si provi e magari si sbagli ancora per capire definitivamente dove migliorare in vista del 2023? Certo, se tra un anno saremo ancora qui a parlare delle stesse dinamiche, i discorsi saranno diversi ed anche lo spessore delle critiche, anche nei confronti di Binotto. Ma al primo anno di un nuovo ciclo regolamentare il “tutto e subito, altrimenti fuori” è probabilmente il ragionamento peggiore possibile. E di prove, nel recente passato, ce ne sono state anche abbastanza.

Immagini: Media Ferrari, ANSA

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