Carmen Jordà, che noi tutti conosciamo per l’avvenenza e non per le sue doti sportive, aveva proposto qualche tempo fa di formare una categoria motoristica di alto livello appositamente per donne, in modo che potessero superare l’enorme ostacolo statistico di fronte a loro: la maggioranza dei piloti dell’altro sesso. Poi, più recentemente, ha spiegato alle attonite “colleghe” che la Formula E sarebbe più adatta a loro rispetto alla F1 perché quest’ultima sarebbe troppo faticosa.
La Jordà, che ai tempi del monomarca Renault Sport prendeva carriolate di secondi dal penultimo qualificato, non ha colto esattamente il nocciolo della questione. Prima di tutto, le donne possono guidare quello che vogliono, basta vedere le statistiche del campionato europeo truck o il ritmo gara di Pippa Mann alla Indy 500 per dimenticarsi della questione fisicità.
E la statistica che non premia le donne? Proprio perché le donne nel motorsport sono poche bisogna fare in modo che abbiano lo stesso grado di possibilità degli uomini, né più, ne meno. Ma fin dall’inizio.
Mi spiego meglio. Arriviamo, nel 2018, da MILLENNI di potere maschile, imposto con la forza dei tiranni e con leggi inique. Comportamenti barbari che hanno devastato culturalmente la società, rendendo schiave le donne per lunghi periodi. Anche oggi le donne fanno una fatica boia a ottenere parità di trattamento, stipendi uguali, stesse opportunità. Per non parlare dei femminicidi e delle molestie, perpetrati da uomini insulsi che non accettano di essere sopraffatti da chi si mostra loro superiore in quanto a dignità.
Nel mondo del motorsport, che è specchio della società, si vivono gli stessi problemi. Le donne che si mettono alla guida di auto e di moto da corsa sono però in aumento, e i risultati dunque migliorano semplicemente per una maggiore varietà statistica. Se io ho una donna sola in mezzo a centinaia di maschi con il casco in testa, e questa donna si chiama Carmen Jordà, allora so già che per le donne non ci sarà scampo. Ma se invece io ho una donna in mezzo a centinaia di maschi e questa donna si chiama Courtney Force, o Michelle Mouton, o Christine Nielsen, allora c’è davvero molta speranza.
C’è solo un esempio rilevante, sui campionati femminili motoristici. Trattasi del mondiale femminile motocross, in grado di presentare una griglia di almeno una ventina di agguerrite motocicliste a ogni appuntamento in calendario. Questa titolarità è arrivata in un campionato che costa relativamente poco. E il progetto è stato pianificato e portato avanti molto tempo fa.
Quello che serve negli altri campionati non è relegare le donne a una specifica categoria (e filiera a corredo, cosa costosa da mettere in piedi e francamente ridondante), ma una cultura diversa prospettata a esse, fin dalla tenera età.
E qui entriamo in un grande argomento che per molti è tabù. Come si crescono i figli?
Un appassionato di motori gioca in casa, ovviamente: prima o poi, maschio e femmina che sia, l’erede avrà accesso alla passione del genitore. Ma in assenza di un impallinato o di un’impallinata a casa, allora la faccenda diventa seria. Attualmente il paradigma vigente è: maschi in azzurro, pallone, macchinine e trenini, oltre ai robot; femmine in rosa, bambole, pettini e cucine con i frutti di plastica. Ovviamente con questo sistema non ci saranno mai e poi mai delle schiere di donne in grado di approcciarsi ai maggiori campionati automobilistici. Né, dall’altra parte, frotte di maschi appassionati di danza stile Roberto Bolle. I numeri saranno sempre sproporzionati, a differenza magari di altre categorie lavorative nelle quali si è arrivati vicini alla parità statistica: comparto medico, giuridico oppure tennistico, per fare un esempio sportivo.
Cambiamo il concetto di infanzia: visto che i figli sono spugne, portiamoli a fare un po’ di tutto, senza MAI dire loro che una cosa è da maschietti o da femminucce (vero, Lewis?). A quel punto sarà più probabile avere tante bambine capaci di appassionarsi a un’automobile o a una motocicletta. Da cosa nasce cosa, dai primi passi si arriva a correre e infine da uno sparuto numero si arriva ad aggiungere zeri alle decine e alle centinaia.
Se Tatiana Calderon potesse crescere in velocità a tal punto da ottenere un sedile in F1, evitando l’imbuto nel quale venne risucchiata Simona De Silvestro, potremmo già vedere dei risultati nell’immaginario delle bambine worldwide. Ma più che al futuro visibile, c’è da sperare che siano le millennials a dare una spallata alle schiere di piloti maschi… nel futuro remoto. Una testimonial farebbe comodo, in effetti.
Come sempre, la colpevole di tutto è la voglia di generalizzare. Purtroppo, nonostante l’uomo sia in grado di produrre astronavi, di sconfiggere malattie e di elevarsi culturalmente, a leggere la base su Facebook si trovano sempre le stesse cose: “i ciclisti non rispettano le regole stradali”, “gli uomini che ballano sono checche”, “il rosa è un colore da femmine”, “le donne devono stare in cucina”, “l’uomo è quello che porta lo stipendio”, “le donne non possono sostenere certi sforzi fisici” e… “donne al volante pericolo costante”. Bisogna lavorare tanto a livello culturale, perché siamo messi mediamente male.
Evidentemente bisogna fare qualcosa anche con Carmen Jordà: ad esempio legarla a una sedia e farle vedere per due giorni di fila le immagini di Sabine Schmitz al Nurburgring. Poi, però, andrà anche perdonata. Perché il problema non è lei, ma chi l’ha messa a occuparsi di donne che vogliono fare la storia del motorsport, pur sapendo che al massimo potrebbe battagliare con Taki Inoue e Ricardo Rosset nella gara a chi si rende più imbarazzante in un’auto da corsa.
Immagine: Carmen Jordà Twitter
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