Nel mondo del motorsport non tutti hanno le occasioni buone per esprimere il proprio talento, a volte è anche questione di sfortuna o destino e la giornata buona per far scrivere il proprio nome nei titoli dei giornali non arriva mai. E non perché alla fine si è fatto qualcosa di sbagliato, ma solo perché era così che doveva andare. In altre occasioni invece la chance per far parlare di sé sfugge via in un attimo e non torna più. Ma nonostante ciò la vita scorre via felice perché ci sono ben altre soddisfazioni per cui gioire. Questa in sintesi è la storia di Dave Blaney.
Gli inizi
Dave Blaney nasce nella municipalità di Hartford, Ohio il 24 ottobre 1962. Pianura, terra di contadini e infatti il territorio è stato diviso in quadrati di sei miglia di lato e poi assegnati ai coloni nella prima espansione a Ovest dopo l’indipendenza. Siamo ad appena 50 km da Columbus, capitale (e caso raro) città più grande dello stato, ma è come se fosse distante centinaia di miglia.
Nella famiglia Blaney di contadini ce ne sono pochi, dato che seguono la principale passione che c’è in questa parte del Midwest: le corse sui dirt track. Lou, il papà di Dave, è un figlio della guerra essendo nato nel 1940 e non aveva seguito il mestiere di suo padre (operaio in una segheria) ma si dedicò ben presto alle gare. Dagli anni ’60 in poi ottenne oltre 600 vittorie e numerosi titoli fra sprint car e Modified, al punto da essere inserito nella National Sprint Car Hall of Fame. Gli ultimi risultati di rilievo sono del 1996, quando ormai aveva già passato la torcia ai figli Dave e Dale (nato nel 1964).
Infatti entrambi scesero subito in pista come il padre partendo da Hartford conquistando il Midwest, con Dave che ottenne più successi di Dale. Anche perché il fratello minore al college a West Virginia University si dedicò al basket, al punto da venire scelto al 4° giro del Draft NBA del 1986 (92esima scelta assoluta) dai Los Angeles Lakers! Ma Dale anziché andare in California scelse di abbandonare il parquet per la terra dei circuiti. E chissà come sarebbe potuta cambiare la sua carriera, anche perché in quella stagione i Lakers di Magic Johnson e di Kareem-Abdul Jabbar (ma non solo) sarebbero diventati campioni NBA. Per la cronaca la scelta #1 di quel Draft da parte dei Cleveland Cavaliers fu Brad Daugherty, l’attuale comproprietario del JTG Daugherty, il team che schiera Buescher e Preece in Cup Series.
Ma torniamo al nostro protagonista, ovvero Dave, il quale aveva già iniziato ad ottenere successi a ripetizione. A 19 anni nel 1983 era “rookie of the year” nel circuito delle sprint car. L’anno successivo disputò il suo primo campionato nazionale (denominato Silver Crown, ma le vetture sono le stesse) sanzionato da una istituzione rinomata come la USAC e portò subito a casa il suo primo titolo, diventandone il campione più giovane della storia, succedendo nell’albo d’oro a piloti del calibro di AJ Foyt e Mario Andretti e precedendo di qualche anno Jeff Gordon, Tony Stewart e Ryan Newman. Da lì in poi ha corso soprattutto nel campionato “World of Outlaws” – un’altra serie nazionale di sprint car – ottenendo numerosi successi. Uno dei più famosi è sicuramente quello del 1987 in un piccolo ovale del natio Ohio, allora conosciuto da pochi ma che ora è famoso a tutti, ovvero Eldora.
Il periodo di gloria di Dave è però quello fra 1993 e 1997, soprattutto negli anni dispari. In quelle tre stagioni Blaney porta a casa il prestigiosissimo Chili Bowl di Tulsa, due King’s Royal a Eldora, una “Gold Cup Race of Champions” al Silver Dollar Speedway in California, un successo all’altrettanto prestigioso Knoxville National e il campionato “World of Outlaws” interrompendo la striscia di cinque titoli di Steve Kinser, quasi certamente il miglior pilota di sprint car di tutti i tempi visti i suoi 20 (!) trionfi fra il 1978 e il 2005.
E’ il 1998, Blaney ha 36 anni ma è ugualmente uno dei piloti più forti – insieme ad un certo Tony Stewart che è appena approdato in IndyCar – dei dirt track. Ormai questo sembra il suo mondo, e invece cambia vita all’improvviso, prende la palla al balzo e si tuffa nel mondo della Nascar!
Busch Series
A dire il vero Dave aveva già debuttato in Nascar. Era il 1992 e l’Hover Motorsport lo aveva scelto per far esordire la propria vettura #80 in Cup Series. La prima gara è a Rockingham e Blaney mette subito la macchina in griglia e ottiene un 31° posto. Ad Atlanta, nell’ultima gara stagionale, non ha la stessa fortuna e non si qualifica, ma in fondo questo dato non stupisce visto che nei 15 anni successivi di storia del team ci sono state più DNQ che partenze.
Esclusa questa brevissima avventura di sei anni prima, Dave è completamente a digiuno di Nascar, ma Bill Davis lo sceglie per il suo team nella Busch (ora Xfinity) Series. L’inizio della stagione part-time non è dei migliori. Dopo 14 gare disputate (su 23 di campionato) i migliori risultati sono due 14esimi posti a Nashville e Milwaukee, ma ci sono anche due DNQ a Darlington e in Michigan. Da qui in poi però Blaney cambia marcia e nelle ultime otto gare è sempre nella top20, ottiene ben tre sesti posti e la prima pole in carriera a Charlotte. Bill lo conferma anche per il 1999 e Dave lo ripaga ampiamente: quattro pole, cinque top5, 12 top10 e settimo posto in campionato malgrado salti la gara di South Boston perché Davis lo fa ri-debuttare in Cup Series in Michigan al fianco del titolare Ward Burton. Alla fine della stagione saranno ben cinque le gare nella categoria regina, anche se non c’è il risultato di rilievo. Ma questo non importa, Bill Davis ha fiducia nell’ormai 37enne dell’Ohio e per la stagione 2000 il team in Cup Series non avrà più una, bensì due vetture, una per Burton e una per Blaney, anche grazie al contributo del proprio sponsor Amoco.
Il primo appuntamento con la storia: Darlington 2003
Le due stagioni disputate con Bill Davis non sono esaltanti. Blaney raccoglie nel complesso appena otto top10 e un 22° posto in campionato mentre nell’altra metà del box il veterano Ward Burton ottiene nel 2001 la vittoria a Darlington e nel 2002 una in New Hampshire ma soprattutto conquista la Daytona500. Non sanno però che quelli saranno gli ultimi successi (cinque in totale, tutti di Burton) della storia del team.
A fine 2001 Dave, preoccupato per questioni di sponsor, decide di firmare per un altro team ormai sul viale del tramonto, il Jasper Motorsports. Il 2002 è un anno che segna solo un lieve progresso per Blaney, le top10 sono cinque e a fine anno è 19°.
Dave ha ormai 40 anni e si appresta a vivere in teoria un’altra stagione – non a causa sua – di risultati mediocri. E invece nel primo mese di gare il suo nome compare sui giornali. A Daytona è 24° ma la settimana successiva ottiene la sua prima pole in Cup Series a Rockingham e al traguardo è ottimo 10°. Segue poi il ritiro di Las Vegas e l’ottavo posto di Atlanta. Sette giorni dopo Dave è a bordo del treno per la storia.
16 marzo 2003, Darlington, South Carolina. E’ in programma la “Carolina Dodge Dealers 400”, la gara meno nobile delle due che si disputano su questo circuito. Sembra una gara normale, dalla pole parte Elliott Sadler e Dave è 18°. La prima metà di corsa è tutta in mano a Dale Earnhardt Jr., il quale trascorre in testa 91 dei primi 116 giri, poi durante un long run il testimone passa a Mark Martin, almeno fino all’incidente di John Andretti a circa 100 giri dalla fine. Nel giro di soste a prendere il comando è Jeff Gordon e tutto sembra in discesa per il quattro volte campione, anche dopo un’altra caution ai -56.
Gli ultimi 52 giri però passeranno alla storia. Jeff non riparte bene e sia Kurt Busch (che in precedenza ha mancato la pit lane in un giro di soste sotto green) che Elliott Sadler gli sono attaccati, mentre Ricky Craven è quarto e poco distante. L’attacco del giovane Kurt ai -50 in curva 3 non riesce, così Sadler lo passa e Gordon può respirare. Sadler segue Gordon e può concentrarsi solo su di lui, anche perché Kurt comincia ad accusare problemi al servosterzo, e Busch a sua volta può stare tranquillo dato che fra la sua Ford #97 e la Pontiac #32 di Craven c’è ancora il doppiato Mike Skinner. Sul long run Gordon però cede: ai -24 Sadler lo attacca all’interno in curva 1, ma in curva 2 è riuscito a mettere solo il muso all’interno. Facendo così si rallentano a vicenda e Busch li passa entrambi andando in testa. Mentre Jeff affonda dopo essere finito anche a muro, Kurt scappa via seguito da Sadler e Craven il quale finalmente si è liberato di Skinner.
Ricky però è scatenato, ha saputo gestire al meglio le gomme e si porta in seconda posizione a 16 giri dalla fine. Ha 3″ di ritardo da Busch, ma giro dopo giro recupera. Ai -3 lo raggiunge e subito prova l’attacco di slancio in curva 1 però deve desistere. Craven è nettamente il più veloce in uscita dall’ultima curva e affianca Kurt all’inizio del penultimo giro. E qui parte la leggenda: Ricky perde il controllo in ingresso mettendo due ruote sull’apron e si appoggia alla #97 e la manda a muro, Kurt nell’incrocio tocca, anche come piccola vendetta, la #32 e ripassa davanti. Ultimo giro: Ricky stavolta decide di giocarsi tutto all’ultimo, mette il muso all’interno, si allarga in uscita mentre Busch invece stringe e le due vetture si incollano fianco contro fianco fin sul traguardo. Ma chi ha vinto?
Finisce così, Craven vince (tra l’altro è l’ultimo successo della Pontiac nella storia della Cup Series) e Kurt Busch è sconfitto per soli due millesimi nel finale più spettacolare del terzo millennio, se non della storia della Nascar. Si sono sportellati e nessuno dei due è finito in testacoda, o ha forato oppure è finito a muro al punto da rompere qualcosa. No, sono arrivati fino al traguardo così, come incollati. Dietro di loro, nell’inquadratura frontale, c’era una vettura che stava rimontando molto velocemente. E’ la gialla #77 del Jasper Motorsports guidata da Dave Blaney. Per tutto l’ultimo stint è stato in quinta posizione a gestire le gomme, poi appena Craven ha cambiato passo lo ha seguito. Insieme hanno passato Skinner e poi Gordon e infine Sadler. In questa fase però Ricky ne ha di più e decimo dopo decimo lo stacca mentre entrambi recuperano su Busch, ma al momento del duello è troppo distante. Bastava un giro in più, oppure un contatto in più e i due o sarebbero stati raggiunti oppure si sarebbero eliminati e Dave avrebbe vinto la prima gara in carriera. E invece ha fatto solo da spettatore in prima fila ad uno show incredibile.
La sua carriera avrebbe potuto cambiare in positivo, al contrario prende la direzione opposta. Dopo Darlington Blaney è settimo in campionato, ma da lì in poi otterrà solo un nono posto a Pocono e a fine stagione sarà 28° in campionato. La carriera in Nascar sembra già finita. Ha 41 anni ed è senza sponsor. L’unico che crede veramente in lui è Bill Davis che lo richiama “a casa”, anche se solo per un programma limitato. Con lui disputa sei corse (con due buoni 11esimi posti) e debutta anche nei Truck (sesto a Dover), poi inizia a girare varie scuderie a tappare dei buchi lasciati da altri, come quando va da Childress a sostituire il debuttante Johnny Sauter, fatto fuori a metà stagione, o come a Charlotte dove sale sulla #99 al posto di Jeff Burton che è diventato il sostituto definitivo di Sauter e quindi – indirettamente – ha preso anche il suo posto.
L’unica rocambolesca vittoria
Dopo il 2005 sulla terza vettura del Richard Childress Racing (forse l’unica vettura veramente vincente che abbia mai guidato, ma conclude solo 26° in campionato), nel 2006 Blaney torna definitivamente a casa al Bill Davis Racing. Ma i fasti di un tempo sono passati. Il primo anno è una stagione di transizione, c’è solo un quarto posto a Richmond da salvare, ma il team è ormai proiettato al 2007, quando sarà una delle squadre, insieme a Michael Waltrip Racing e Team Red Bull, a far debuttare la Toyota. Ma a nulla serve l’impegno del costruttore giapponese, il team è ormai agli sgoccioli. Dave in due anni cava fuori solo una pole in New Hampshire, un terzo posto a Talladega e altre cinque top10. Alla fine del 2008 il Bill Davis Racing chiude i battenti.
Blaney è di nuovo a piedi. Gli anni sono diventati 46 e può portare nel palmarès solo un incredibile successo ottenuto in Xfinity Series nel 2006 a Charlotte. E’ al volante della #30 del Braun Motorsports, un altro team non di primo piano, e a tre giri dalla fine è in terza posizione dietro a Carl Edwards e Casey Mears. In curva 4 Casey attacca all’esterno Carl che pian piano si allarga verso l’esterno. Mears perde il controllo della vettura e finisce prima nella fiancata della #60 e poi a muro con lo stesso Edwards. Dave evita l’incidente ed è in testa alla gara. Quello che non è avvenuto tre anni prima a Darlington fra Ricky Craven e Kurt Busch è successo invece ora. C’è ancora l’overtime di mezzo e dietro di sé ha Kenseth. Matt attacca all’ultimo giro all’interno di curva 1 ma Dave resiste. Sono affiancati per mezza tornata, poi la #17 finisce loose in curva 3 e Kenseth è costretto ad alzare il piede, ma non basta per evitargli il testacoda. Dave ormai è andato via e deve solo completare pochi metri prima di esultare finalmente per la prima vittoria in carriera. E – per la prima volta da quando è in Nascar – è al posto giusto al momento giusto.
Il secondo appuntamento: Daytona 2012
Blaney trova un sedile per il 2009. Il problema è che è con il Prism Motorsports. Un team start&park, ovvero una squadra senza sponsor che si qualifica e ritira la vettura dopo pochi giri di gara con motivazioni fasulle per intascare il premio del piazzamento che comunque è maggiore delle spese. Tanto non hanno ingaggiato una pit crew e quindi il personale da pagare è ridotto all’osso. Un anno e mezzo così, poi viene chiamato per qualche gara dal Front Row Motorsports e infine per il 2011-13 dal team di Tommy Baldwin con cui è ancora una volta terzo a Talladega.
Il secondo treno per la gloria passa negli ultimi giorni di febbraio del 2012. Si apre la stagione con la classica Daytona500. Per Dave è l’inizio della seconda stagione completa con il TBR. Ci sono 49 iscritti per 43 posti in griglia e quindi i Duel per definire i qualificati sono una battaglia incredibile, ma Blaney porta al traguardo la vettura #36 al 12° posto e quindi la qualificazione per la gara più importante dell’anno è al sicuro.
La Daytona500 è in programma per domenica 26 febbraio, ma la Florida è sotto una perturbazione molto intensa, al punto che la Nascar è costretta a posticipare la gara (per la prima volta nella storia) al giorno successivo. Anche al lunedì piove e la partenza arriva soltanto alle 19:00 locali e diventa così la prima Daytona500 a disputarsi interamente in prima serata. La gara è la solita: gruppo compatto, scambi di posizione in vetta e qualche incidente, anche se manca il big one.
La prima caution arriva al secondo giro e la vittima di peso è Jimmie Johnson, la cui gara finisce subito. Poi va tutto secondo il programma, tre quarti di gara sono già alle spalle e in testa, dopo un veloce recupero in seguito ad una ripartenza, c’è Matt Kenseth. Al giro 157 il motore della Toyota #30 di David Stremme esplode e la vettura finisce in testacoda in curva 3 per la settima caution della serata. Tutti i piloti vanno ai box perché da qui in poi è quasi certo arrivare al traguardo. Ci vanno tutti tranne un gruppetto di vetture di seconda fascia guidato da Dave Blaney, il quale è seguito da Landon Cassill, Tony Raines e David Gilliland.
Poco dopo, al giro 159, Juan Pablo Montoya esce dalla pit lane e si sta per riaccodare a velocità sostenuta – ma non eccessiva – al gruppo. Via radio sul rettilineo opposto a quello dei box comunica al suo crew chief che c’è qualcosa che non va sulla macchina e sente una vibrazione. Pochi metri più avanti, all’ingresso di curva 3, si rompe un elemento della sospensione posteriore e la vettura finisce in testacoda.
Lungo il muro in curva 3 c’è un mezzo dei commissari che sta ripulendo la pista dall’olio lasciato da Stremme. E la vettura di Montoya ci si sta dirigendo contro senza controllo. L’impatto è inevitabile e crea uno squarcio nel serbatoio montato sul rimorchio del pick-up dei commissari. Nel serbatoio ci sono circa 760 litri di kerosene da jet che serve appunto per alimentare l’enorme soffiatore che spazza via ogni detrito. Tutto finirebbe qui (o quasi) se non fosse che pochi secondi dopo Terry Labonte passa sulla scena dell’incidente. La sua vettura striscia sull’asfalto e crea una scintilla che – come in una scena da film – scatena un incendio. E in pochi secondi Daytona si trasforma nell’inferno.
La corsa ovviamente dalla situazione di caution passa a quella di bandiera rossa. Per fortuna Montoya e tutti i commissari sono usciti sani e salvi dall’incidente, ma l’emergenza non è finita viste le fiamme che si alzano dal banking di Daytona. Nel frattempo il gruppo è stato fermato sul rettilineo opposto e un giovane Brad Keselowski, campione a sorpresa a fine stagione, prende il cellulare che tiene in vettura (allora era ancora ammesso), fa una foto e la twitta. Sarà praticamente questo scatto che renderà Twitter il social network più famoso tra tutti gli sportivi d’America e poi del mondo.
Fire!
My view pic.twitter.com/RWn3xMn6— Brad Keselowski (@keselowski) February 28, 2012
L’incendio viene spento in cinque minuti dai pompieri e solo allora si scopre l’entità del danno: l’asfalto è stato praticamente mangiato dal fuoco e correrci sopra è impossibile. Inoltre un po’ di pioggia ha bagnato la pista, anche se non in maniera seria. Cosa si fa? Sono passate le 22:00 e dopo un rinvio di un giorno, una bandiera rossa lunga già più di un’ora e una pista non più sicura, chiudere la gara qui sembrerebbe la decisione più saggia, dato che metà corsa è già in archivio. Dave Blaney ci spera, incrocia le dita, questa sarebbe una vittoria incredibile. Ha quasi 50 anni e forse non ci sperava più di andare in victory lane in una gara della Cup Series. E poi è la Daytona500, la gara più prestigiosa della Nascar. Sarebbe in sintesi una storia da favola.
Purtroppo la Nascar non è di questo avviso: pur di concludere la gara prima assorbono il carburante e lavano l’intera porzione di asfalto con normale detersivo da bucato in polvere (il famosissimo Tide), poi riparano l’asfalto con un prodotto chiamato StreetBond che serve a ricreare una superficie uniforme e che si lega – in teoria – perfettamente all’asfalto sottostante. L’improvvisazione dei commissari funziona e la pista viene ritenuta idonea per la prosecuzione della gara. Alle 23:57, ora della Florida, dopo una bandiera rossa durata 2h05′ Dave Blaney viene respinto per la seconda volta nella carriera dal treno della storia. Le auto si muovono ed i quattro audaci devono rientrare ai box per effettuare la loro sosta necessaria per arrivare fino al giro 200. Matt Kenseth ritorna al comando della gara e non lascerà la prima posizione fino alla bandiera a scacchi, quando ormai è già martedì, conquistando così la sua seconda Daytona500.
Dave Blaney arriverà al traguardo in 15esima posizione, ma conta nulla rispetto alla beffa subita. L’ultimo treno è passato e il capolinea è là in fondo al rettilineo. Dieci giorni prima di Daytona il Tommy Baldwin Racing ha annunciato di aver ingaggiato per sei gare nella Xfinity Series un giovane e talentuoso pilota. E’ suo figlio Ryan, nato alla fine di quel 1993 che segnò l’inizio della seconda fase d’oro di Dave con le sprint car. Ad agosto debutta pure nella Truck Series con il team di Brad Keselowski ed è subito sesto e questo lo fa finire nell’orbita del Team Penske. E’ grande nel giovane Ryan il talento e la storia della famiglia Blaney, iniziata con Lou e poi passata per Dave e Dale, è destinata a proseguire. Il 15 settembre Ryan – alla terza gara nei Truck – è già in victory lane e all’età di 18 anni, 8 mesi e 15 giorni è (allora) il più giovane vincitore nella storia della categoria. Una settimana più tardi Dave viene chiamato da Roger Penske per qualificare in New Hampshire la vettura #22 dato che Sam Hornish Jr. è impegnato con la Xfinity Series e, memore della pole del 2007, stampa un incredibile 10° tempo.
Dave però non vuole ancora ritirarsi. Disputa il campionato 2013 ancora con il Tommy Baldwin Racing (17° alla Daytona500 e 16° a Talladega), ma è l’ultima annata che disputa a tempo pieno. E allora siamo ai saluti: Brad Keselowski gli fa un regalo e lo ingaggia per la gara inaugurale dei Truck a Eldora e dunque padre e figlio gareggiano insieme per lo stesso team. Dave non fa sconti e sfrutta le conoscenze di ormai 20 anni prima concludendo al nono posto (e questa è la terza top10 su tre gare disputate nei Truck in carriera) mentre Ryan è battuto e 15°.
Ryan scala in fretta le gerarchie e viene ingaggiato ufficialmente dal Team Penske. Continuerà a puntare sui Truck per quella stagione (sarà secondo in campionato), disputerà qualche gara in Xfinity, ma soprattutto Roger gli fornisce una terza vettura – la #12 – per debuttare in Cup Series in Kansas. Dave c’è quel giorno, almeno quello delle qualifiche. Ha iniziato la stagione 2014 col derelitto Randy Humphrey Racing. In sette gare è riuscito a qualificarsi solo due volte. Ci sono 44 iscritti e dunque solo una vettura tornerà a casa in anticipo. Ryan è buon 21° mentre Dave è a rischio, dato che il suo team è appena nato e praticamente non ha owner points in classifica e, per le regole in vigore allora, deve essere almeno nella top36. Dave fissa un tempo che gli vale la 40esima posizione, poco più di un decimo di quanto gli servirebbe. Le regole ovviamente non hanno cuore e Dave Blaney è DNQ e non potrà correre con suo figlio Ryan pure in Cup Series. Ma lo stesso può festeggiare a fine mese: viene introdotto – così come suo padre – nella National Sprint Car Hall of Fame.
Un mese più tardi il team collassa e si ritira dal campionato. Dave però trova un’ancora di salvezza ed è quella che ormai è diventata la sua seconda casa, il Tommy Baldwin Racing. Un accordo di tre gare che gli garantisce un 26° posto a Pocono, un 33° in Michigan e – purtroppo – un ritiro con ultimo posto a Bristol. In Michigan in qualifica ha avuto modo di incrociare ancora suo figlio, ma solo perché Ryan è stato chiamato dal Wood Brothers a sostituire Trevor Bayne impegnato a Mid-Ohio con la Xfinity Series.
Gli ultimi anni
La carriera di Dave Blaney in Nascar termina così esattamente cinque anni fa. E’ durata – se si esclude la rapida parentesi del 1992 – ben 16 anni e non nella fascia di età consueta, bensì da quando ne aveva 36 ai 52, ma ha fatto in tempo a disputare quasi 600 gare fra le tre categorie con una vittoria, 16 top5 e ben nove pole position. Ha fatto in tempo a vedere dal vivo i primi successi di suo figlio e le altre due figlie, Emma ed Erin, diventare grandi, con una loro famiglia, e complici di Ryan dentro e fuori dalla pista. Ora è ritornato alle amate sprint car e continua ad ottenere successi. Inoltre ha acquistato e gestisce lo Sharon Speedway di Hartford, Ohio, quello dove nacque la storia della famiglia Blaney a partire da suo padre Lou, venuto a mancare prematuramente nel 2009 a causa del morbo di Alzheimer.
Ryan invece ha proseguito la sua scalata: già a settembre del 2013 ha pareggiato i conti con suo padre nella voce vittorie in Xfinity Series, poi nel 2015 l’impegno part-time – 19 gare previste – in Cup Series con il Wood Brothers (e anche qui tante delusioni a causa delle DNQ per la pioggia che azzerava i tempi e riportava tutto al conteggio degli owner points) e infine nel 2016 la prima stagione a tempo pieno.
L’11 giugno 2017 a Pocono Ryan vendica (anche se sicuramente suo padre non la pensa così) Darlington 2003 e Daytona 2012 andando a conquistare il primo successo nella categoria regina battendo in un doppio duello mozzafiato piloti del calibro di Kyle Busch e Kevin Harvick. L’anno successivo l’ultimo gradino ed il passaggio alla rinata terza vettura a tempo pieno del Team Penske, culminata nella vittoria di rapina alla prima gara sul Roval di Charlotte.
Il penultimo capitolo di questa storia non lo regala però Ryan, né Dave, bensì Justin Haley. Ryan è appena finito nel big one del giro 119 e la sua CokeZero400 a Daytona è finita qua. Anche questa gara, come quella del 2012, è stata rinviata di 24 ore a causa della pioggia e anche ora il maltempo incombe. Un gruppetto di piloti composto da Justin Haley, Ty Dillon, Matt DiBenedetto, Landon Cassill (sì, proprio come nel 2012), Corey LaJoie e JJ Yeley esce indenne dall’incidente. Di questi solo Justin Haley (il quale per la cronaca ha fatto la gavetta e debuttato nella Truck Series proprio con il Braun Motorsports) non si ferma ai box ed è in testa alla gara, grazie anche alla gentile concessione di Kurt Busch, William Byron e Jimmie Johnson. Poi arrivano i fulmini che impongono la bandiera rossa. Inizia pure a piovere, ma non in maniera decisa. Non c’ero nel 2012, ma ci scommetto che il volto e le preghiere di Justin fossero uguali a quelle di Dave sette anni prima. Sembra che si debba tornare a correre e i piloti sono già pronti per riaccendere i motori, ma ricadono un paio di fulmini e poco dopo arriva pure il diluvio. Stavolta, dopo una bandiera rossa durata circa 2h10′, quindi più o meno come allora, la Nascar ne ha abbastanza e decide che la gara si chiude qua. Justin Haley ha appena vinto la prima gara in Cup Series e facendo così – almeno nella mia mente – vendica la beffa subita da Dave Blaney in quella notte di febbraio del 2012, quando un pilota e un piccolo team sognavano di ottenere un successo prestigioso e forse insperato in condizioni anomale.
L’ultimo capitolo lo scriverà sicuramente Ryan invece. Ha il talento per conquistare altre vittorie e anche dei titoli, e sicuramente non sarà una questione di rivincita sulle sfortune del passato, ma il coronamento della storia di una famiglia che ha scritto 50 anni di storia delle corse in Ohio e non solo. E quando Ryan vincerà, quasi certamente Dave non sarà in prima fila a farsi vedere da tutti, ma dietro le quinte sarà presente. Lo si è visto alle gare in poche occasioni, anche perché è ancora impegnato in pista in prima persona, però sicuramente in quei momenti sarà il papà più felice del mondo.
Fonti: en.wikipedia.org; motorsport.com; nascar.nbcsports.com; autoweek.com; basketball-reference.com; theinsidegroove.com; nwsprintcarhistory.com; pennlive.com; racing-reference.info; gaf.com; newyorker.com
Immagini: autoweek.com; twitter.com/vntgsprintcars (Eldora Speedway/Larry Reese photo); LAT Photographic per autoweek.com; GettyImages per motorsport.com; GettyImages per nascar.nbcsports.com
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