Danke Seb, prima uomo che pilota. Una carriera divisiva, un addio troppo in grande per pensare ad un ritorno

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di Alessandro Secchi @alexsecchi83
21 Novembre 2022 - 16:50
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Il Sebastian Vettel che lascia la F1 è un personaggio opposto a quello arrivato nel Circus, sicuramente migliore. Non succede a tutti

Quando ho visto l’omaggio di Fernando Alonso per Sebastian Vettel, un casco con i suoi colori da sfoggiare in questo weekend di addio alla F1, ho realizzato che questa uscita di scena sarebbe stata qualcosa di diverso rispetto alle altre.

Perché diverso, rispetto agli altri, è stato proprio lui, Sebastian Vettel. Anche se non credevo che lo sarebbe stato al punto da vedere trasformato l’ultimo GP dell’anno in una sorta di lungo congedo tra cene, regali, dimostrazioni di affetto, corsette in pista e tutto quello che si è visto in questi quattro giorni.

“Don’t worry for me in the first lap, enjoy”. “Non preoccuparti per me nel primo giro, goditela”. Alonso ha aperto e chiuso così un weekend in cui ha mostrato la vicinanza più insospettabile al pilota che gli ha strappato dalle mani non uno ma ben due titoli mondiali. E, parere personale, si tratta di un gesto assolutamente encomiabile da parte di Nando, che avrebbe avuto tutte le giustificazioni a limitarsi ad un saluto e un ricordo normale, con ancora una punta di fastidio nel pensare a come sarebbe potuta essere la storia con un po’ più di fortuna.

C’erano tante cose, in positivo e negativo, che mi aspettavo da questo fine settimana. Proprio per questo, ho deciso di attendere la sua conclusione per dedicare due righe a Sebastian. Tra quelle che non mi aspettavo c’è proprio l’atteggiamento di Fernando. Ne sono rimasto sorpreso, ancor più dell’invito generale a cena di Lewis che resta comunque un gesto di classe. Perché la lotta tra Nando e Seb è stata molto più serrata e dura sotto molteplici aspetti rispetto a quella con Lewis. Il tempo, evidentemente, appiana tutto, fa crescere, riflettere ed ora quei commenti sulla lotta “contro Newey” piuttosto che “contro Sebastian” può essere collocata forse diversamente, nella foga del momento o della frustrazione del dover sempre rincorrere.

Il tempo fa crescere, appunto. E credo che nessun pilota negli ultimi trent’anni almeno abbia subito la trasformazione personale che si è vista con Sebastian. Arrivato con la spocchia del ragazzino impertinente pronto a vincere tutto e a cannibalizzare record, vittorie, titoli – cosa che ha fatto durante il suo ciclo – se n’è andato acclamato e ringraziato da tutti. Quel ditino alzato, tanto odiato ai tempi dei successi – soprattutto dai tifosi della Ferrari – è diventato forma di saluto al momento dell’addio, cosa impensabile ai tempi.

Ascoltando in questi giorni le parole degli altri piloti si possono tracciare i lineamenti di un ragazzo che, diventato uomo e padre, è maturato al punto tale da svestire i panni dell’acchiappatutto col ditino al cielo per vestire quelli del fratello più grande. Gasly, Ricciardo, Leclerc, Norris, Albon, hanno raccontato di chiacchierate e consigli spassionati e costanti ricevuti per la loro carriera. Charles ha ricordato quando riceveva i complimenti per il lavoro svolto al simulatore ancora nel 2017, quando era in F2 ma faceva già parte della FDA.

E poi c’è Mick. Ha detto senza mezzi termini “È come un papà” e possiamo solo immaginare, purtroppo, il peso di queste parole. Sebastian si è preso in carico, come se fosse un dovere morale, l’essere vicino al piccolo Schumi così come il grande Schumi era stato vicino a lui, come per restituire il favore a distanza di anni, creando un legame che va e resterà oltre la pista.

Nella girandola delle manifestazioni d’affetto non è mancata un po’ di sana ipocrisia, ma questo era ampiamente prevedibile. Quando un pilota si ritira c’è sempre spazio per diventare tutti buoni e gentili, anche se in passato si è detto di tutto con spiccato sarcasmo senza perdonare una virgola. Credo sia sempre utile cercare di comportarsi in modo da non doversi rimangiare le parole, soprattutto se quello che si dice ha molta risonanza. Non siamo tutti uguali, purtroppo o per fortuna. E, al tempo stesso, non tutti hanno la memoria corta.

Ora, comunque, capisco quando quest’anno un collega mi ha raccontato di averlo intervistato, dicendomi “Umanamente parlando è un gradino sopra tutti gli altri”. C’erano alcuni tasselli che mi mancavano, ma ora ci sono tutti e sì, quanto visto in questi giorni è una specie di sigillo sul Sebastian fuori dalle piste.

sebastian

Nel giorno in cui Sebastian Vettel si inchinava davanti alla sua Red Bull RB9, che gli aveva appena permesso di conquistare gara in India e quarto titolo di fila nel 2013, si parlava di lui sì come di un pilota che avrebbe potuto raggiungere i record di Schumacher ma, anche, di quanto questa cavalcata fosse stata favorita eccessivamente dal potenziale della monoposto.

Le nove vittorie di fila di fine 2013 – uno dei record che ancora mantiene – hanno ampliato questa sensazione di supremazia, lasciando dietro di sé la storia dei “quattro mondiali di culo” che, nella narrazione globale, fanno il paio con i “cinque con la macchina migliore” dell’epoca Schumacheriana.

Finita la carriera di Vettel forse è il caso di affrontare la realtà dei fatti, i quali raccontano qualcosa di diverso se si vuole approfondire il tutto con un minimo di raziocinio. Per due mondiali conquistati con una macchina oggettivamente di un altro pianeta, la RB7 del 2011 e appunto la RB9 del 2013 (questa, soprattutto, a fine stagione), ce ne sono due arrivati all’ultima gara, di cui uno totalmente imprevisto (il 2010) ed uno portato a casa con due rimonte dal fondo nelle ultime due gare, il 2012.

Entrambi conquistati contro quel Fernando Alonso che l’ha omaggiato per quattro giorni, entrambi portati a casa con appena 5 vittorie; entrambi con due monoposto, la RB6 e la RB8, sì velocissime ma azzoppate da un’affidabilità carente, stile McLaren 2005 tra alternatori e motori che saltavano solo a guardarli.

Per percentuale di vittorie sul totale delle gare disputate, il “dominio” Red Bull perde di significato nel momento in cui ha conquistato appena il 53% dei successi senza mai fare doppietta in campionato. Nemmeno nel 2011 e 2013 Webber è riuscito ad arrivare secondo, cosa invece successa con Barrichello nel 2002 e 2004. Un ciclo non comparabile a quello Ferrari, con il 67% di vittorie in 5 stagioni, per non parlare di quello Mercedes, al 74% e con cinque volte il secondo pilota giunto secondo in sette stagioni.

La differenza di racconto e focus tra macchina e pilota nei confronti del ciclo del team di Toto Wolff è drammatica, ove i sei titoli conquistati da Hamilton sono narrati come cavalcata trionfale più del pilota che della macchina quando i numeri, che solitamente sono imparziali, parlano al contrario. Ma va da sé che il potere politico e mediatico, dal punto di vista prettamente sportivo, è cosa di cui Vettel si è preoccupato ben poco nella sua carriera, e lo si è visto.

Altro caso indicativo a livello mediatico è quello del 2014, nel quale un Sebastian sotto le attese e pronto a lasciare il team di Horner è stato annientato dalla stampa per essere stato messo sotto da Ricciardo al primo anno in Red Bull. Mentre, nel 2022, si è cercata ogni sorta di giustificazione per un anno comunque negativo per il sette volte campione del mondo a confronto con l’arrembante George Russell. Un anno che meriterà un’analisi a parte tra monoposto, porpoising e TD039.

Resta, a conti fatti, un dato certificato dai numeri: Sebastian per vincere alcuni dei suoi titoli ha dovuto sudare ben di più di quanto abbia dovuto fare Lewis. Non è colpa di nessuno, è semplicemente un dato di fatto sul quale ognuno, poi, ricama la propria storia.

Sull’esperienza del Vettel vestito di rosso è inutile ripetere quanto scritto in una trilogia ben dettagliata ed approfondita, che può essere recuperata dal link qua sopra e dal cui pensiero non mi sposto di un millimetro nonostante siano passati due anni e mezzo, soprattutto nel raccontare il punto che ha fatto prendere una strada diversa alla sua carriera. Prendetela come integrazione a quanto scritto qui.

Quello che posso aggiungere è che, a completezza della carriera di Sebastian, al di là del fatto che non ci fossero valide alternative una volta lasciata Red Bull, probabilmente l’esperienza Ferrari ha rappresentato più un danno che un vantaggio. Dopo un periodo di entusiasmo generale la fiamma si è lentamente spenta, complici forse le divergenze che col tempo sono affiorate tra l’insistenza a non voler rivedere metodi di lavoro interni ed il rifiuto a fare un po’ di spesa da altri team. Pratica, ad esempio, che Mercedes ha utilizzato a più riprese, reclutando ingegneri e tecnici scartati proprio da Ferrari per mancanza di risultati andando poi a vincere mondiali a ripetizione.

Sebastian credeva di poter ripetere quanto fatto da Schumi: mai errore più grosso poteva essere commesso per differenze con Michael in termini generali (non me ne vogliate, parliamo di livelli diversi), del gruppo che lo attorniava (che non ha avuto forse la stessa fiducia della Red Bull), di possibilità regolamentari (come i test illimitati) e via dicendo. Spiace, perché la volontà si vedeva, era sincera e sarebbe stata una bella storia. Ma non tutto, purtroppo, funziona come si vuole o spera.

Dopo un 2020 imbarazzante da separato in casa a Maranello, Vettel ha scelto Aston Martin per ricostruirsi un’immagine severamente offuscata. Forse pensava – e non solo lui – che dall’eredità di una Racing Point capace di fare benissimo i capitali portati da Lawrence Stroll gli avrebbero permesso di lottare per punti pesanti. Non è stato così.

L’ultimo biennio della carriera lo ha visto mostrare a sprazzi alcuni colpi del vecchio campione. La nota paradossale è che, dopo aver annunciato il ritiro, quando cioè si attendeva il crollo definitivo, ha inaspettatamente alzato il livello sfoderando alcune gare di tutto rispetto in rapporto al mezzo che aveva a disposizione. Qualcuno che si è anche chiesto “perché si ritira? Effettivamente è strano vedere un pilota dare il meglio proprio quando non c’è più motivo di rischiare. Ma, forse, questa è la dimostrazione di come, in un certo modo, gli ultimi anni in rosso abbiano pesato sulle motivazioni per come le cose (non) sono andate.

Mi auguro che questo addio sia definitivo e non ci sia un ripensamento. Perché la portata di questo congedo lungo quattro giorni è stata troppo grande per pensare che possa esserci un dietrofront; rovinerebbe un weekend unico per il saluto ad un pilota che appende il casco al chiodo, almeno a mia memoria.

Quello che lascia è il terzo pilota per numero di vittorie in carriera e non è cosa da poco. Un pilota velocissimo nella sua prima parte di carriera, i cui numeri dipendono anche dalla durata del suo ciclo, interrotto dall’avvio dell’era ibrida. Fosse durato al pari di quello successivo, parleremmo di altre statistiche. È stato un pilota divisivo per quasi tutta la sua avventura in F1, se pensiamo solo al punto di vista sportivo. Ha vissuto tre epoche ben distinte partendo da quella dell’esplosione in Red Bull, dove è stato capace di stupire da subito e vincere a ripetizione.

Poi è arrivata quella della grande sfida persa in Ferrari, che forse ha sottostimato cadendo in errore fuori e dentro la pista, decidete voi come ordinare cronologicamente le due cose. Infine, quella della consapevolezza in Aston Martin.

Con il team britannico si è aperto al mondo definitivamente per quelle che sono le sue battaglie sociali e questo, dopo anni privatissimi a livello personale, ha ribaltato e riabilitato la sua immagine fuori dalla pista, pur mantenendo una privacy ferrea nei confronti della sua famiglia e dei suoi figli, di cui non si conoscono nemmeno i volti. Cosa che apprezzo particolarmente.

Credo che la sua mancanza si sentirà più fuori pista che sul tracciato, per quelli che sono stati gli ultimi anni. Credo anche che, per la persona che si è dimostrata, non meritasse una buona fetta di gogna mediatica che ha subito in alcuni momenti, anche da parte di alcuni che sabato sera partecipavano alla corsa di saluto sul tracciato di Abu Dhabi. Il tifo porta anche a questo, anche se l’etica è una cosa diversa.

Personalmente ricordo come ieri la sua prima vittoria a Monza sotto l’acqua. L’ho seguita seduto su un cartone, il televisore a terra nel pieno di un trasloco. Sono passati tre lustri e non vederlo in griglia l’anno prossimo farà comunque effetto. La bacheca parla per lui: ognuno, poi, ha il suo modo di pesarla.

Danke, Seb.

Immagini: ANSA

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