Dakar 2021 | Tricolore nel Deserto: intervista a Ferdinando Brachetti Peretti

IntervisteMotorsport
Tempo di lettura: 13 minuti
di Alyoska Costantino @AlyxF1
25 Gennaio 2021 - 11:00

Prima di una serie di interviste ai piloti italiani di questa Dakar in Arabia Saudita. “Seguo la Dakar da quando ero diciottenne”.


P300.it, a inizio 2021, ha deciso di seguire per la prima volta la competizione della Dakar, tra report e aggiornamenti in tempo reale tramite i propri profili social.

Molti sono stati i protagonisti di quest’edizione, molti i colpi di scena, ma nonostante il successo dell’edizione P300.it non ha voluto fermarsi qui.

L’idea era anche di rendere giustizia a quel poco di Italia che ha deciso di affrontare un’avventura simile. In questa settimana la rubrica “Tricolore nel Deserto” vi proporrà delle interviste con alcuni dei piloti italiani capaci di raggiungere Jeddah lo scorso 15 gennaio, che ci hanno gentilmente concesso un’intervista.

Il primo intervistato è Ferdinando Brachetti Peretti. Nato a Roma il 13 gennaio del 1960, il Conte e amministratore delegato del Gruppo API ha deciso di tentare, all’età di 61 anni, l’avventura della Dakar. L’ha fatto partecipando alla categoria SSV con un Polaris RZR PRO XP del team XtremePlus Polaris Factory, in coppia con l’esperto Rafael Tornabell Cordoba sul mezzo #441.

Il duo si è classificato in 27a posizione (37a nella classifica globale dei veicoli leggeri) e al 16° tra i debuttanti. Segue l’intervista.

Che cosa l’ha spinta a tentare la Dakar 2021?

“Mi ha spinto questo: per pura casualità ho conosciuto una persona a una cena, il cui fratello aveva un team con cui organizzava dei rally. Mi ha messo in contatto col fratello, ho parlato anche con lui ed è stato piuttosto convincente nel dirmi di provare, mettendosi a disposizione sotto tutti i punti di vista; quindi siamo andati a provare la macchina in Tunisia per due giorni, mi sono divertito e mi sono detto “Va bene, proviamo”.

Seguo la Dakar da quando ero diciottenne, ovvero da quando iniziò nel ’78: mi ha sempre affascinato, anche perché in quel periodo feci con un amico l’attraversata dell’Australia nell’84, di cui si parlò molto: vinsi anche il premio “Miglior Motoavventura dell’Anno” della FIM, e fui premiato dall’allora presidente Zerbi. Feci 18.000 chilometri, più del doppio di quelli della Dakar. Ci misi un mese e dieci giorni, ma avevo ventiquattro anni e un altro fisico. Ho fatto anche dell’altro: ho corso in Africa, in Sudamerica, facendo dei raid per conto mio, fermandomi quando volevo, dormendo in albergo, facendo la “vita comoda”; era solo una passione per le motociclette, niente di più”.

In quanto appassionato di motori, avrà qualche punto di riferimento del passato. Di chi è stato tifoso nel mondo motorsportivo?

“Il mio punto di riferimento numero uno è Giacomo Agostini, in quanto in primis l’ho conosciuto quando avevo quattordici anni, nel ’74, quando lui vinceva tutto. Mi ricordo ancora con emozione quando lo massaggiavano nel furgoncino del team prima della gara: la mia famiglia e la nostra azienda, la API, era il suo sponsor e lui correva coi marchi API e Marlboro in MV Agusta. Quindi noi andavamo nei box, lì l’ho conosciuto e l’osservavo come se fosse una divinità. Poi è diventato un mio carissimo amico e sono stato pure suo testimone di nozze, più di venticinque anni fa. Siamo molto amici da sempre: altro giorno mi ha detto “Tu sei matto a fare la Dakar alla tua età!” ed io gli ho risposto “Ma io mica sono vecchio come te” scherzandoci su. Tra l’altro mi risulta che lui sia il campione motorsportivo di tutte le categorie al mondo che abbia più titoli mondiali, quindi sarà anche nei Guinness World Record, immagino”.

Ci parli un po’ della preparazione fisica e atletica. Come ci si prepara a due settimane di maratone di 300, 400 o anche più chilometri?

“Io mi son preparato, a 61 anni compiuti il 13 gennaio, con il mio personal trainer, Angelo Bellobono (è anche maestro di sci), a cui mi affido da trent’anni. Mi ha fatto fare, un giorno sì e un giorno no, mezz’ora di ginnastica a corpo libero utilizzando macchinari, un po’ di addominali, stretching, eccetera. Veramente niente di speciale: non ho fatto nessun tipo di preparazione specifica, come un qualsiasi sportivo che ogni giorno fa venti minuti o mezz’ora di attività fisica per tenersi in forma. Niente di più”.

È il secondo anno che la carovana corre in Arabia Saudita, scelta tra l’altro abbastanza criticata per ragioni politiche e ideologiche. Lei ha un pensiero su questo tema?

“Non entro nel merito del discorso politico ed ideologico, non m’interessa. Il paese lo vedo solo sotto l’aspetto paesaggistico, che ho trovato deludente in tutte le città e anche nel deserto; dalle fotografie e dai filmati di YouTube dello scorso anno mi sembrava straordinario, forse migliore anche del Sahara in Africa, ma ho trovato solo qualche punto molto bello. La zona attorno a Neom è molto bella con le sue coste rocciose; però tutto il resto è abbastanza abbandonato, nonostante sia uno dei paesi più ricchi del mondo avendo il petrolio”.

Può parlarci del mezzo con cui ha disputato la gara?

“Era un Polaris RZR, non l’avevo mai visto in vita mia. Marco Piana, proprietario del team, ha un contratto con la Polaris americana da anni e quindi corre con queste macchine. L’unica pecca che ho trovato è che sono un filino delicate, in confronto ai Can-Am è più facile avere dei guasti, però è una macchina molto comoda, molto piacevole da guidare, migliorata dal modello precedente che avevo provato una volta e da cui facevo fatica ad uscire, perché sono alto 1,87 m. L’ho trovata una macchina piuttosto piacevole e divertente da guidare, soprattutto non difficile.”

È soddisfatto del risultato ottenuto?

“Alla fine sono arrivato 16° tra i rookie ma ho scoperto successivamente che dei quindici prima di me tutti avevano fatto dei rally prima; quindi, come rookie “vero”, mi sento al primo posto. Tutti gli altri avevano già delle esperienze come il Rally del Marocco o altre competizioni fatte in America come la Baja 2000. Io non ero mai entrato su una macchina simile in vita mia: essere 16° tra i rookie per me è soddisfacente. Nella generale sono arrivato 27°, ma dopo la squalifica di un mio compagno di squadra sono stato classificato 26°; su una sessantina di T3 e T4 mi sembra piuttosto soddisfacente. Avremmo anche potuto fare meglio se non avessimo perso del tempo”.

Qual è il ricordo più bello che ha, legato alla Dakar?

“Il ricordo è generale, di una nuova esperienza che non avevo mai fatto e che volevo fare, dopo un anno orribile di pandemia in azienda, a lavoro e in una situazione tuttora drammatica, complicata e preoccupante per il futuro. Mi volevo togliere una soddisfazione, per quindici giorni sono andato a divertirmi in mezzo al deserto provando a fare qualcosa di diverso. Un frangente particolare da ricordare, fra il drammatico ed il ridicolo però c’è stato…”

Qual è stata la tappa più difficile?

“La penultima. Sono arrivato al bivacco alle 3:30 di notte dopo cinque ore e mezza fermo per un problema alla macchina ed è stato piuttosto divertente quello che è successo.

Si era rotta una componente del motore e la macchina non andava più, quindi ci siamo fermati. Erano le 19:05 ed eravamo sulle dune, più o meno a metà della speciale ed era già buio, avevamo già i fari accesi.

Abbiamo chiamato l’assistenza ovvero Marco Piana, che era iscritto alla gara e seguiva le macchine del suo team. Si trovava a tre ore di distanza da noi, guardando il GPS. Abbiamo cominciato a smontare e a tentare di sistemare il problema. Mentre eravamo fermi dopo tre quarti d’ora passati al freddo, con me sudato per aver guidato molto concentrato sulle dune, sdraiato sulla sabbia a pancia in giù per non prendermi un malanno, è arrivato un camion di spagnoli che conosceva il mio copilota Rafael Tornabell, il quale ha chiesto loro di trainarci.

Abbiamo legato la corda per farci trainare. Rafael è sceso per dire loro che eravamo pronti, ma loro hanno dato gas mentre lui scendeva; ha tentato di risalire al volo sulla macchina ma, siccome quelle auto non sono comode per salire, è caduto sulla sabbia e i camionisti hanno cominciato a trainare me alla guida del mio mezzo senza nemmeno guardare nello specchietto retrovisore! Io cercavo di inchiodare col freno fino in fondo tutto il tempo per fare resistenza, ma il camion ovviamente non ne risentiva e mi hanno trainato per circa 700, 800 metri. Quando finalmente si sono fermati ed io sono sceso per avvertirli che Rafael era rimasto 500 metri indietro a piedi, sono ripartiti trainando la mia macchina senza me dentro!

Una scena ridicola… sono rimasto a piedi e loro hanno trainato per un chilometro la macchina vuota, fino a che non si è spezzata la corda. A quel punto, non sentendo più resistenza dietro, si son fermati e hanno visto il gancio spezzato e la macchina senza nessuno dentro. Alla fine abbiamo dovuto aspettare l’assistenza per due ore e mezza e in totale abbiamo perso cinque ore e 30’. Abbiamo riparato la macchina con il meccanico e Marco Piana e, in un’oretta di lavoro, ho ripreso a fare i miei sette-otto chilometri di dune fino ad arrivare al bivacco. Siamo arrivati alle 3:30 e il mattino dopo, alle 9:00, dovevamo affrontare l’ultima tappa, che per fortuna era corta… alle 15:00 avevamo già finito. In ogni caso, una scena quasi surreale, molto divertente”.

Purtroppo qui in Italia non c’è una considerazione molto elevata di questa gara. Secondo lei perché?

“Per un motivo solo: perché non è pubblicizzata. Le televisioni dovrebbero parlare della Dakar in quei quindici giorni come parlano della F1, della MotoGP o del calcio. È uno sport che appassiona da sempre  moltissimi italiani, tanto che quando era pubblicizzato dalle televisioni e dai media con Thierry Sabine, che era in TV tutti i giorni per un’ora o un’ora e mezza su due o tre canali, c’erano una marea di italiani che partecipavano, con personaggi come i vari Meoni, De Petri, eccetera. Ora non esistono più perché la gente non ne sente più parlare: l’altro giorno, mentre mi faceva gli auguri di buon compleanno, un banchiere mi ha detto “La Dakar? Esiste ancora? Ancora la fanno?”. Una persona della mia età non sapeva dell’esistenza della Dakar e questo è solo per colpa delle televisioni. Se qualcuno non pubblicizza le cose la gente non ne è a conoscenza. Anche certi sponsor si sono ritirati, come la Total tre anni fa, perché partecipare non porta risultati”.

Cosa direbbe a tutti gli amatori e professionisti di corse per convincerli a provare un’avventura simile?

“Non ho un motivo per convincere qualcuno a fare qualcosa, nella vita ognuno fa ciò che lo appassiona e io ho tante passioni come la fotografia, piloto elicotteri da trentacinque anni e sono un appassionato di motori in generale. Il proprio tempo libero bisogna saperlo sfruttare bene. Mi avrebbe divertito farla con uno o due amici per mettermi in competizione con loro e per ridere la sera insieme, ma niente di più”.

Non sono mancate le polemiche in quest’edizione. In cosa la Dakar 2022 dovrà migliorare?

“Secondo me l’organizzazione era piuttosto buona sotto l’aspetto logistico, però con svariate pecche: ad esempio, mi sono fermato per l’incidente di Pierre Cherpin (che sarebbe poi scomparso pochi giorni dopo), abbiamo attivato il segnalatore GPS e siamo stati fermi una ventina di minuti. Rafael è sceso dalla macchina ed ha aiutato fisicamente i medici a mettere Cherpin in barella sull’elicottero. A quanto ne so non sono stati riconosciuti, come invece descritto dal regolamento, quei venti minuti di tempo in cui siamo stati fermi per il soccorso. Mi hanno detto che li avrebbero sottratti automaticamente ma tuttora non so se sono stati restituiti. Qualcosa va migliorato nei confronti dei piloti: probabilmente gli organizzatori pensano molto, e solo, all’organizzazione logistica delle partenze e degli arrivi, i tempi da rispettare; quello mi sembrava funzionasse abbastanza bene. Certo è che se non avessi preso un camper per dormire lì, me ne sarei andato dopo due giorni: dopo aver visto come dormono gli altri, anche quelli del mio team, sull’asfalto o sulla sabbia in una tenda congelata e vestiti con la giacca a vento perché fa troppo freddo, mi sarei detto che non avevo più l’età per soffrire in quel modo”.

Parteciperà alla Dakar 2022?

“Non lo so, non ne ho la più pallida idea. La voglia di rifare la Dakar poi ritorna, vedremo. Magari fra un anno avrò un altro progetto in testa e la Dakar sarà l’ultimo dei miei pensieri, oppure sarà il primo. Dipenderà dal mio lavoro, dalla mia famiglia, dai miei impegni temporali in quel periodo futuro”.

Com’è stato disputare la Dakar in coppia con un’altra persona?

Fantastico, mi sono trovato benissimo con Rafael Tornabell sin dal primo momento. Grande esperto di Dakar, una persona carina, simpatica, educata e perbene. Ci siamo conosciuti in Tunisia dove abbiamo provato due giorni“.

Com’è stato il lavoro con Rafael Tornabell Cordoba?

“Mi correggeva spesso, mi rimproverava quando andavo troppo forte dicendomi “Vai più piano, devi arrivare in fondo”, anche quando vedevo una macchina che volevo superare ma non potevo, oppure quando bucavo una ruota e mi diceva “Ma non l’hai visto quel sasso?” ed io non l’avevo visto per davvero!

Ci mettevamo a ridere e mi diceva che avevo la testa bella dura, ed io ripetevo la stessa cosa a lui. Mi sono trovato davvero bene, una persona fantastica. Ho avuto una gran fortuna che Marco Piana mi abbia affidato lui come copilota, perché era spaventato del fatto che io potessi stancarmi, non arrivare alla fine delle tappe per stanchezza o inesperienza, così mi ha messo vicino un grande esperto. Non mi sono mai stancato e anzi Rafa commentava spesso dicendomi “Sono molto sorpreso di te, per essere un rookie che partecipa per la prima volta a una gara del genere, guidi con questa sicurezza e rilassatezza anche sulle dune dove la gente va nel panico”. Però durante la prima settimana mi comandava come se fossi a scuola, mi trattava come uno scolaretto; una cosa a cui io sono poco abituato facendo il capoazienda, sentirmi dire di fare questo o fare quello mi faceva abbastanza ridere”.

Ora che è tornato in Italia, quali sono i suoi progetti futuri? Disputerà altre gare?

“Per il momento non ci penso nemmeno! Oggi ho avuto la prima giornata di lavoro intenso e sono appena tornato a casa. Ora lavorerò e starò con la mia famiglia, niente di più. Spero anche che la situazione, qui in Italia, possa migliorare un po’”.

L’intervista di oggi si chiude qui, a domani con la seconda sessione di domande e risposte. Ringraziamo nuovamente il signor Brachetti Peretti per averci raccontato la sua avventura.

Fonte immagine: dakar.com

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