Dakar 1988: tra morte, rapimenti e una lettera al papa

MotorsportStoria
Tempo di lettura: 11 minuti
di Andrea Ettori @AndreaEttori
4 Gennaio 2018 - 14:00
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L’edizione 1988 della Parigi-Dakar è forse la prima che oltre al significato sportivo vede protagonista anche quello del business, del grande giro d’affari intorno alla gara. La Pioneer, ad esempio, decide di investire cinque milioni di dollari per essere identificata come sponsor principale della manifestazione mentre la Coca Cola, con le sue camionette cariche di lattine gelate, gira l’intera corsa pur di far vedere il proprio marchio.

La Dakar è diventata un vero e proprio fenomeno, sopravvissuto alla morte del suo grande fondatore Thierry Sabine avvenuta due anni prima. Una gara che non ha nulla da spartire con il resto del motorsport e che affascina, per difficoltà e luoghi da percorrere, un grandissimo numero di piloti e Case.

I numeri della Dakar del 1988 sono fenomenali: 349 vetture, 115 camion e 206 moto iscritte. I paesi rappresentanti sono ben 32 e le marche automobilistiche 30, alcune di queste con una partecipazione davvero massiccia. Dalla Lada alla Range Rover, poi Mitsubishi, Toyota, Nissan fino alla Mercedes. Nonostante tutti questi costruttori, la Peugeot si presenta al via come grande favorita grazie alla tecnologia avanzatissima della nuova 405 T16, affidata a Vatanen vincitore dell’edizione 1987, e alla collaudata 205 T16 guidata da Kankkunen, campione del mondo rally 1986 e 1987.

Al via anche diversi “formulisti”, come Laffite e Jabouille a difendere i colori della Porsche, Alliot con la Nissan, Tambay con la Range Rover e il grande uomo della 24h di Le Mans, Henri Pescarolo, schierato dalla Peugeot.

Il percorso si sviluppa in 12866 km, in gran parte inediti per la gara, ripartiti in questa maniera: 2614 di trasferimento prima delle speciali, 8321 di speciali e 1941 di trasferimenti post-speciali. Un percorso che si presenta particolarmente duro, con tappe che superano gli 800 km. Sono particolarmente duri alcuni tratti desertici a preoccupare i piloti prima del via.

Diverse anche le novità per quanto riguarda gli pneumatici. I produttori presenti al via sono tre: la Michelin che equipaggia Peugeot e Range Rover, la Pirelli al seguito della Porsche e la Bridgestone, per la prima volta presente i modo “esplicito” alla Dakar, che vede le proprie coperture montate sulle Mitsubishi e sulle Lada. Tante modifiche vengono effettuate in chiave sicurezza: ogni equipaggio deve avere il roll bar montato al fine di evitare guai seri in caso di ribaltamento e a questo si aggiunge l’obbligo di una valigetta di sicurezza, oltre che a quella del primo soccorso, con al suo interno diversi “aiuti” come la bussola oppure la cartina geografica per orientarsi nei momenti di difficoltà.

La Pioneer costringe anche l’organizzazione a montare su ogni vettura, o camion, una loro autoradio solo come scopo pubblicitario.

La prima settimana della Dakar è tragica nel vero senso della parola. Il tre volte campione del mondo della 500cc di motocross, André Malherbe, dopo una caduta rimane paralizzato a vita dopo aver passato diverse ore in pericolo di vita. Dopo poche ore il camion DAF del team De Rooy, a seguito di una carambola a oltre 180km/h, esplode letteralmente scaraventando il navigatore Van Loewezij, che muore sul colpo, a oltre 50 metri di distanza ancorato al seggiolino. Il resto dell’equipaggio, con Van De Rijt e Ross, viene estratto in gravissime condizioni. A seguito di questo lutto tutto il team DAF si ritira dalla gara. Il bilancio nerissimo della prima settimana non rimane purtroppo circoscritto a questi fatti. Gli incidenti, anche di bassa entità, sono parecchi ma un’altra sciagura si affaccia sul raid africano.

Dopo appena 22 km dall’inizio della tappa #7, la Range Ett di Boubet-Canado centra a circa 90km/h la Mercedes degli italiani Seppi-Arzuffi, che stava a sua volta procedendo velocemente. L’impatto causa il capottamento delle due vetture, con la morte di Canado e il ferimento di Boubet. Pare infatti che rispetto alla coppia di italiani, uscita indenne dall’incidente grazie alle cinture di sicurezza uscirono, il duo transalpino non fosse ancorato con le protezioni ai seggiolini della Range Ett. Emblematico è il titolo dell’Autosprint successivo a quella prima settimana nera, “Carne da macello”, per sottolineare quanto successo.

La gara vede il ritiro di metà dei partecipanti in quei primi giorni, compresi Jabouille e Laffite, costretti allo stop per il mancato arrivo in tempo utile dell’assistenza per la loro Porsche, e di Alliot, fermo a causa di un problema al motore della sua Nissan. L’assistenza diventa quindi il fattore decisivo per vincere la Dakar. La Peugeot, al comando con Vatanen seguito da Kankkunen, oltre al grande vantaggio accumulato sulla prima Mitsubishi in gara può disporre di un team in grado di dare un’assistenza senza eguali. 60 persone, con 25 meccanici avio-trasportati (costo del biglietto: 11 milioni di vecchie lire) in modo da essere presenti già al termine delle varie prove in caso di necessità urgente.

Lo stesso Jean Todt, gran capo della spedizione Peugeot alla Dakar, nonostante un’agitazione “cronica” si ritiene soddisfatto di quei primi giorni di gara. “Siamo in testa con Vatanen, senza alcune assistenze, ed il clima nella squadra è fantastico. Sono soddisfatto del lavoro che stiamo facendo ma ci sono ancora tanti km da percorrere e la Dakar è un’insidia continua”.

Nei giorni successivi la gara vede ancora il dominio delle Peugeot di Vatanen e Kankkunen. L’unica speranza di vedere una Dakar combattuta sino alla fine si spegne quando la Mitsubishi #213 di Lartigue si ritira dalla gara a causa del cedimento del motore. Un vero peccato perché la Pajero guidata dallo stesso Lartigue, con i suoi oltre 300cv, durante la tappa #11 da Tessalit a Lemjebir aveva accumulato un vantaggio di oltre due ore sulle Peugeot.

Nonostante le tappe dai possibili colpi di scena siano ancora diverse, l’organizzazione ma soprattutto l’affidabilità della 405 e successivamente della 205 non sembrano lasciare molto spazio agli avversari. Solo un grande Tambay in modalità “rimonta” rende ancora interessante la Dakar nonostante il francese ex-Ferrari abbia accumulato, a causa di diversi problemi elettrici alla sua vettura, un ritardo di oltre cinque ore dalle Peugeot.

In quei giorni, dopo i tragici fatti della prima settimana, l’Osservatore Romano muove attraverso le proprie pagine delle durissime accuse contro la Dakar e il motorsport di quel periodo. La risposta arriva direttamente da Jean-Marie Balestre, che con questa lettera si rivolge direttamente a Giovanni Paolo II.

“Vostra Santità, a nome dei nostri 72 milioni di associati e delle loro famiglie, io vi chiedo giustizia degli attacchi menzogneri pubblicati “Urbi et Orbi” dall’Osservatore Romano contro l’automobilismo mondiale dichiarando in particolare <<… che l’industria degli sponsor ha imposto un assoggettamento perverso all’interno del mondo sportivo>>. Questo anatema insulta le centinaia di migliaia di dirigenti volontari che hanno funzioni onorifiche nel mondo intero. Voi dovete sapere che la nostra comunità mondiale, grazie allo sport dell’automobilismo, realizza un’intesa fraterna tra tutti i popoli dei Paesi membri della FIA, quali che siano il loro sistema politico e religioso o il colore della loro pelle. Noi siamo fieri di non aver mai avuto fratture politiche nei nostri campionati mondiali come quelle conosciute a due riprese dai Giochi Olimpici che il giornale del Sacro Soglio sembra glorificare. Sotto alcuni punti di vista il rally Parigi-Dakar è certamente criticabile, ma io non ho atteso i consigli dell’Osservatore Romano per intraprendere una crociata e le necessarie riforme e qualche volta, come diceva Giovanni Battista nel Vangelo, <<Vox clamantis in deserto>>, si predica nel deserto. È evidente che le federazioni moderne utilizzano il marketing e le sponsorizzazioni, proprio come le associazioni religiose, e bisogna che voi siate informato che in Australia ho scoperto che per assistere alla visita di Vostra Santità, i posti in tribuna sono stati venduti a 40.000 lire, mentre numerosi commercianti si davano senza vergogna al commercio di immagini sacre. Io vi assicuro, Vostra Sanità, che siamo in molti nella nostra Federazione a batterci per scacciare i mercanti dal tempio. E in ogni caso questi non hanno alcuna influenza su nessuna decisione del potere sportivo. Come nell’insieme dello sport automobilistico, esattamente alla stessa maniera degli alpinisti e degli altri concorrenti dell’impossibile, i piloti della Parigi-Dakar rischiano la loro vita. È un rischio liberamente accettato e, in 90 anni, il martirologio dello sport automobilistico s’è appesantito ogni anno. Quelli che hanno sacrificato la loro vita non l’hanno fatto per interesse finanziario ma in primo luogo per appagare la loro passione e un certo ideale. Rispettiamo la loro memoria”.

Una lettera in vero “stile Balestre” nel difendere soprattutto l’operato della FIA in quel periodo particolarmente difficile e funestato da tragedie.

Nel frattempo la Dakar continua la sua corsa verso la fine, ma quello che sta per accadere ha dell’incredibile. A Bamako, nel Niger, alle 6:20 di lunedì 18 gennaio la Peugeot 405 T16 di Ari Vatanen, fino a quel momento in testa alla gara, sparisce. Tutto fa pensare ad un furto a scopo di estorsione, tanto che si diffonde la notizia di una telefonata ricevuta da Todt in cui gli sarebbero stati chiesti cinque milioni di franchi per la restituzione del mezzo. Alle 10 la vettura viene ritrovata a poca distanza dal luogo dove i partecipanti avevano trascorso la notte precedente. Pare infatti che il presunto ladro non sia riuscito ad aprire il serbatoio e che quindi la 405 di Vatanen si sia ammutolita appena consumata la scorta di benzina per l’avviamento.

Lo stesso Todt conferma attraverso un intervista la tesi del “rapimento”: “Un tipo, probabilmente europeo, ci ha chiesto cinque milioni di franchi per riavere la macchina. Nel momento in cui stavo organizzando come muovermi con la polizia locale mi è stato riferito che era stata ritrovata. L’abbiamo recuperata e controllata e non presentava nessun danno. Ho preteso che fosse ammessa alla partenza per evidente caso di forza maggiore. Vatanen ha preso il via alle 11:36”.

Da questo momento una serie di fatti decisivi segnano la gara. Vatanen, a causa del problema con la sua vettura, non riesce a partire entro la mezz’ora limite per la speciale Bamako-Kayes: scattato ben oltre il tempo, dopo pressioni da parte della Peugeot, il finnico inizia a rimontare posizioni su posizioni fino al raggiungimento del settimo posto. Gli viene conteggiato, alla fine della prova, il tempo dall’ora di partenza prevista. Nonostante questo i commissari sportivi decidono di escluderlo dalla gara.

L’esclusione viene comminata dai commissari sportivi per il ritardo alla partenza della vettura #204. Questi inoltre aggiungono che i controllori di gara, al momento della partenza del veicolo, non avevano nessuna autorità per poterla fermare. Todt fa subito ricorso per “cause di forza maggiore”, rimarcando il fatto che l’organizzazione era d’accordo nel non escludere Vatanen nel caso la partenza fosse avvenuta entro un tempo ragionevole. Il ricorso viene rigettato perché non sono state rilevate cause di forza maggiore come l’insormontabilità, l’irresistibilità e l’imprevidibilità”.

Peugeot ricorre in appello, ma due giorni dopo l’esclusione di Vatanen diviene ufficiale. Una decisione che il team francese commenta come “il non rispetto per le più elementari norme del codice sportivo”. La vittima di questa clamorosa vicenda, impotente, è Ari Vatanen che prima si vede togliere la leadership della corsa, poi corre sub-judice al massimo delle proprie possibilità ed infine viene escluso dalla gara. Una delusione che il finnico dapprima liquida con una battuta (“Mi avessero rubato la vettura a Napoli avrei capito, ma qui a Bamako proprio no”) e poi archivia con rammarico: “Avrei voluto vincere, essere premiato. La Dakar è una corsa davvero affascinante e non averla conclusa mi ha addolorato. Mi rassegno ma tornerò”.

A godere di tutto questo è Juha Kankkunen, che al primo tentativo porta a casa la Dakar con la meno evoluta ma pur sempre valida 205 T16. Una vittoria fortunata per stessa ammissione di “KKK”, che con grande sportività sostiene che il vero vincitore della gara sia il suo compagno di squadra. La sua gara però è stata condotta in maniera esemplare, da grande campione quale si è sempre dimostrato sia nei rally che nei raid africani.

La Mitsubishi gommata Bridgestone termina al secondo posto con la coppia Shinozuka-Magne, precedendo la Range Rover di un grintoso Tambay e del suo copilota Lemoyne. La Dakar 1988 mette comunque in mostra anche le caratteristiche della vera vincitrice morale della corsa, cioè la 405 T16. Una vettura che rispetto alla “sorellina” 205 ha una capienza del serbatoio più importante, con i suoi 450 litri contro 435; i 400cv dichiarati dalla Peugeot, uniti ad un’aerodinamica più strutturata e ricercata rispetto alle versioni precedenti, fanno della 405 una vera e propria arma da corsa che avrebbe, senza l’intoppo del rapimento lampo, vinto l’edizione della Dakar di 30 anni fa.

Un’odissea, quella del 1988, che potrebbe essere ripresa da qualsiasi sceneggiatore per farne un film.

 Immagini: internet (per segnalare copyright info@passionea300allora.it)

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