All’inizio erano dei fuorilegge, poi sono diventati dei piloti e infine degli idoli: in 20 anni tutto cambiò nel Sud-Est degli Stati Uniti d’America. L’unico punto in comune erano le auto, delle semplici berline modificate sotto il cofano, prima illegalmente e poi con lo scopo di andare più forte in pista. Settant’anni dopo la NASCAR è ancora la categoria più amata e seguita negli USA. La sua popolarità è uscita nel corso degli anni dai luoghi natali, ha conquistato tutta la nazione ed anche qualche appassionato non americano.
Le premesse
Il proibizionismo impediva sia la vendita, sia il commercio di alcolici, così dei semplici contadini e distillatori in proprio decisero di andare contro la legge e trafficare i loro prodotti artigianali. Per sfuggire alle retate della polizia mentre trasportavano il prezioso carico, i cosiddetti moonshiners modificarono le loro vetture, pur mantenendo l’aspetto esteriore di normali berline anni ’30. In breve tempo i contadini diventarono anche piloti e organizzarono le prime gare su circuiti improvvisati, specialmente in occasione delle fiere, ma l’attacco giapponese a Pearl Harbour costrinse una generazione di americani ad andare in guerra.
Nel 1946 la Seconda guerra mondiale era finita da poco ma il mondo delle corse si rimise in moto. La AAA (American Automobile Association) ricominciò ad organizzare, nonostante qualche patema, il campionato per le monoposto e la 500 Miglia di Indianapolis ritornò ad essere il fulcro della stagione. Nel frattempo, negli stati del Sud, i reduci della guerra ritornarono a casa e al loro amore per le corse.
Bill France, simbolo del sogno americano
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Le gare ripresero, ma il desiderio di rendere il tutto legale, e soprattutto organizzato, crebbe. A fare da promotore fu Bill France, giovane 38enne, figlio di un irlandese, emigrato da Washington a Daytona Beach durante la Grande Depressione per fare il meccanico. Nella sua officina passavano i grandi temerari che sulla spiaggia della Florida puntavano al record assoluto di velocità, ma quando Daytona perse il primato a favore del lago salato di Bonneville, la crisi arrivò per la piccola cittadina. Fu così che si decise di organizzare nel 1936 la prima gara sul circuito stradale che si divideva fra spiaggia e lungomare, ma fu un fiasco.Dall’edizione del 1938 France divenne l’organizzatore di questa gara, fin dall’esordio sotto l’egida della stessa AAA. Pian piano il numero di gare annuali aumentò e lo stesso France vinse la corsa del luglio 1940, ma poi la guerra fermò tutto. Dopo la ripresa delle attività nel 1946, France capì che era necessario riunire tutti i promotori dei vari circuiti sparsi nel Sud-Est per la creazione di una organizzazione comune riguardante le gare per auto di serie. Un proto-campionato fu organizzato per il 1947, ma fu solo una prova generale. Il successo di pubblico e piloti ottenuto convinse France ad andare avanti.
La fondazione
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Nonostante le sole 8 gare in calendario, la serie fu un successo. La prima gara si disputò il 19 giugno 1949 allo Charlotte Speedway, ovale sterrato da 0.75 miglia e solo lontanissimo parente del circuito attuale. Le gare clou della stagione furono però quella sul circuito stradale di Daytona Beach, il finale di stagione a North Wilkesboro, ma soprattutto a Martinsville, circuito che tutt’oggi è ancora in calendario, con l’unica differenza che non è più sterrato ma asfaltato.
I primi passi
Negli anni successivi ci furono i primi cambiamenti: nel 1950 il nome cambiò da “Strictly Stock” a “Grand National” e si tennero le prime gare su asfalto. Statisticamente l’esordio ufficiale fu a Dayton, ma la città dell’Ohio diventerà rinomata soltanto negli anni ’90 per i famosi accordi di pace sulla guerra nella ex-Jugoslavia. Il nome che ci interessa è quello dell’altro ovale, Darlington, il primo superspeedway d’America, completamente diverso da Indianapolis che presentava curve poco inclinate. Fu inoltre la prima gara lunga 500 miglia ed ebbe una durata da corsa endurance, ben 6 ore e mezza.
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Il numero di gare in calendario aumentò rapidamente e si arrivò in pochi anni ad oltre 50 gare in programma. I piloti divennero velocemente famosi in tutto il Sud-Est e la loro fama non era più ristretta alla loro contea. Anche il successo di pubblico fu enorme, tant’è che il circuito stradale di Daytona divenne inadatto per le corse. Fu così che nel 1957 Bill France decise di costruire il “Daytona International Speedway” che dal 1959 ospitò la “Daytona 500”, la gara che divenne da subito la regina della categoria.Da allora la NASCAR ha cambiato volto grazie all’impulso della famiglia France ed ha saputo restare legata alle sue origini pur adattandosi al terzo millennio. Venerdì scorso sono stati introdotti nella “Hall of Fame” cinque nuovi personaggi che hanno contribuito alla storia ormai settantenaria della categoria. Fra di essi c’era Red Byron, il primo campione di quella che oggi si chiama Cup Series. Presenti ad accettare l’onorificenza c’erano gli eredi di Red, ma soprattutto a fare il discorso introduttivo è stato Martin Truex Jr., il campione in carica, a simboleggiare l’alfa e l’omega di questi 70 anni. Per una serata gli occhi di tutti erano sul passato, ma rapidamente lo sguardo si è girato ed è già rivolto alla nuova stagione che assegnerà il 70° campionato della serie principale (ma anche in molte altre categorie propedeutiche quali la Xfinity e la Truck, la stessa Modified e i campionati che si svolgono in Europa, Canada e Messico) e che inizierà il 18 febbraio con un’altra ricorrenza, la 60esima Daytona500, “The Great American Race” come l’ha definita Ken Squier, commentatore TV anche lui da pochi giorni nella “Hall of Fame”.
Dunque, buon compleanno NASCAR, con l’augurio che i prossimi 70 anni siano altrettanto di successo come i primi.
Immagini: Getty Images per Nascar.com e altri (per segnalare copyright: info@passionea300allora.it)
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