Bump Day 2010: miracolo in pista

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Tempo di lettura: 20 minuti
di Gabriele Dri @NascarLiveITA
19 Maggio 2019 - 09:30
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(Nota per il lettore: questo articolo è stato scritto nel marzo 2019, appena dopo la vittoria di classe di Sebastian Saavedra alla 24 ore di Daytona e pensato per essere pubblicato in questa giornata. Visto quanto successo nel Day 1 delle qualifiche della Indy500, l’introduzione potrebbe risultare anacronistica, date le emozioni che abbiamo vissuto. Emozioni molto simili al Bump Day del 2010. Purtroppo, a causa della concomitanza con la All-Star Race, non sono riuscito a modificare in tempo la parte iniziale ed ora preferisco scrivere queste brevi note chiarificatrici. Resta però il fatto che né il Day 1, né il Day 2 del 2019 saranno mai come un vero Bump Day. Primo perché il fatto di essere “on the bubble” era per la 30esima posizione e non per la 33esima e ultima, secondo per la regola della Fast e Slow Lane che snatura tutto e ultimo per il fatto di avere disposizione tutti i tentativi che si vogliono e non i storici tre. Per chiudere, il 18 maggio 2019 resterà comunque una giornata indimenticabile nella storia di Indianapolis, degna di essere rivissuta magari in un altro articolo in futuro)

Da tanti – forse troppi – anni alla 500 miglia di Indianapolis manca un Bump Day degno di questo nome. Ok, quello dell’anno scorso ha regalato fin troppe emozioni, ma solo perché la vettura di Hinchcliffe è stata afflitta da sfortuna, problemi di assetto e problemi meccanici, altrimenti a far compagnia a Pippa Mann ci sarebbe stato James Davison. In ogni caso quello del 2018 non è stato un vero Bump Day, date le regole riguardanti Fast Lane e Slow Lane e vari paracadute che hanno snaturato uno dei momenti più intensi di una gara storica.

Neanche quello di quest’anno sarà un vero Bump Day, perché l’unico tentativo a disposizione per decidere il proprio destino fra dentro e fuori solo per regalare tempi certi e brevi alla TV fa gridare vendetta ai veri appassionati. E per dimostrare che anche (anzi, soprattutto) il format tradizionale può regalare uno spettacolo lungo diverse ore e in grado di mantenere gli spettatori incollati allo schermo, sono voluto ritornare indietro ad uno dei momenti più intensi e incredibili della storia recente di Indianapolis. Non è l’ultimo, dato che quello del 2011 fu altrettanto drammatico, con ben sette vetture non qualificatesi, il team Andretti con ben due auto su cinque fuori dai 33 e con Michael costretto addirittura a comprare il posto in griglia per Ryan Hunter-Reay.

Torniamo dunque al penultimo vero Bump Day: domenica 23 maggio 2010. A Indianapolis fa caldo, molto caldo. Ci sono ben 31° nel primo pomeriggio e questo sarà un particolare fondamentale in seguito. Il giorno precedente, in un format cambiato a vantaggio delle TV e dello spettacolo, è andata in scena la prima edizione dello Shootout, ovvero i primi 9 della prima fase scendono di nuovo in pista per contendersi la pole, ma si seguono ancora le regole tradizionali e quindi i piloti hanno a disposizione più tentativi. Alla fine a prendersi il posto migliore in griglia è Helio Castroneves, che l’anno prima ha vinto per la terza volta la 500 miglia e quindi inizierà la prima (di dieci, inclusa quella di quest’anno) caccia alla quarta vittoria da record nel migliore dei modi. Nel sabato di Indy sono stati assegnati i primi 24 posti: nelle parti meno nobili, come succederà anche l’anno successivo, ci sono molti piloti del team Andretti: Marco è 16°, Hunter-Reay 17°, Danica Patrick 23esima (e polemica con la squadra). Ancora fuori ci sono John Andretti ed un Tony Kanaan in crisi nerissima.

Kanaan infatti è andato a muro due volte in due giorni, distruggendo altrettante vetture. E la dinamica è identica, con il posteriore della vettura che va per i fatti suoi in curva 1. Il primo incidente avviene alle 13:12 del sabato e gli impedisce di qualificarsi tra i primi 24, quello delle 9:20 della domenica mattina, appena cinque minuti dopo l’inizio della sessione di prove libere, mette a serio rischio addirittura la sua partecipazione alla Indy500.

La prima notizia della mattina, anzi la seconda dopo l’incidente di Kanaan, è che AJ Foyt IV ha litigato con l’omonimo nonno e titolare del team riguardo l’assetto della vettura e se ne è andato sbattendo la porta. Così AJ Foyt ha chiamato al suo posto Jaques Lazier. A mezzogiorno inizia ufficialmente il Bump Day. Ci sono in corsa 13 piloti per 9 posti, dunque in quattro andranno a casa dopo il tradizionale colpo di pistola delle ore 18.

Appena partita la sessione c’è la fila per mettere giù nero su bianco uno dei tre tentativi che si hanno a disposizione. E i primi quattro (John Andretti, Sarah Fisher, Vitor Meira e Alex Lloyd) ottengono subito velocità superiori alle 224 mi/h che li lasciano tranquilli fin da subito.

Il quinto a scendere in pista è Sebastian Saavedra. Non ha nemmeno 20 anni (li compirà un paio di settimane dopo) e dopo la gavetta in Formula BMW tra USA e Germania è al secondo anno in IndyLights; in questa categoria l’anno precedente ha conquistato due vittorie e il terzo posto in campionato. Nel 2010 viene scelto da Bryan Herta per il team che ha fondato nel 2009 dopo essersi ritirato. La squadra è ancora giovane, non ha molto materiale a disposizione, ma ugualmente decide di tentare l’avventura alla Indy500 proprio con Saavedra. E l’avvicinamento al momento clou non è dei migliori, dato che Sebastian non ha esperienza a Indy e fuori dal box #29 viene visto il veterano Oriol Servia nel caso in cui serva un pilota più veloce.

Ma Bryan coraggiosamente decide di credere in Sebastian. Il primo tentativo a 223.634 mi/h, nonostante una macchina loose, è buono ma non a sufficienza. Per ora è l’ultimo dei cinque scesi in pista e virtualmente 29° in griglia.

Tralasciando il primo tentativo (waved off) di Milka Duno, la terza notizia sono le difficoltà di Takuma Sato, allora rookie del KV Racing, finito a muro nei giorni precedenti ed ora ultimo a sole 221.622 mi/h. Chi invece impressiona è Bruno Junqueira che, dopo soli 6 giri completati in tutto il mese di maggio, ed effettuati proprio in quella mattinata, conclude in 225.662 ed è il migliore della sessione. Seguono poi Paul Tracy (223.892) e Mario Romancini (223.805) che mette in classifica il nono tentativo della sessione e dunque può risuonare per tutto l’ovale il tradizionale “Let the bumping begin!”

Il primo ad aprire le danze è Jay Howard (compagno di squadra di Sarah Fisher) che con un 223.824 spedisce fuori Sato e mette on the bubble Saavedra. 11 piloti sono scesi in pista per un tentativo di qualifica e all’appello mancano ancora Jaques Lazier, che è praticamente appena arrivato a Indy, e Tony Kanaan, i cui meccanici stanno ricostruendo la vettura usando parti provenienti da tutte le auto del team Andretti. In assenza di altri piloti in fondo alla pit lane, dato che è il momento più caldo della giornata e il peggiore per segnare un giro veloce, si chiude la prima parte del Bump Day e la pista viene riaperta per le prove libere alle 13:00.

Intermezzo

Tutta l’attenzione si sposta dunque sul dramma che sta vivendo Tony Kanaan. Alle 13:40 scende in pista per l’installation lap, poi inizia a fare qualche giro di verifica, ma quando torna ai box, i cenni col casco e i gesti che fa con le mani non sono dei migliori. Segue una processione avanti e indietro fra Gasoline Alley e pit lane. Anche al secondo run attorno alle 15:00 Tony non si sente sicuro, la macchina ha lo sterzo troppo leggero e non viaggia sulle rotaie. Seguono ulteriori modifiche all’assetto chiusi nel garage con la serranda abbassata.

Poco dopo le 16:00 Jaques Lazier porta la sua vettura in fondo alla pit lane ed è pronto per il suo primo tentativo di qualifica. Non è veloce, e viene waved off, ma come prima chance non è da buttare via tant’è che il suo team è ottimista in vista di una possibile qualificazione. E Saavedra dunque rimane ancora aggrappato alla 33esima posizione.

Dunque, ritorna la bandiera verde per le libere e si fanno notare sia Takuma Sato, che in scia viaggia a oltre 225 mi/h e Alex Lloyd, che fa uno shakedown alla vettura della compagna di squadra Milka Duno e la reputa (la macchina, ovviamente non Milka) con una velocità sufficiente per qualificarsi.

Verso le 16:30 cominciano ad abbassarsi le temperature e arriva un venticello che soffia a favore sul rettilineo opposto. Ed è quindi qui che si trasferiscono i pericoli: Lazier sfiora il muretto in curva 3, John Andretti in curva 2 e per Kanaan continuano gli in&out e le modifiche d’assetto.

Colpo di scena

Alle 16:54 (dunque a poco più di un’ora dalla chiusura) arriva la caution ed è (purtroppo) per Sebastian Saavedra. La dinamica alla fine è la stessa di Kanaan: vettura decisamente sovrasterzante, il posteriore scivola via in curva 1 e impatto contro il muro verso curva 2. Sebastian scende sconsolato dalla macchina #29, saluta il pubblico e sale sull’ambulanza che lo porterà al centro medico per i controlli di rito. Ai box Bryan Herta è più che altro dispiaciuto, non hanno un’altra vettura, né tempo per riparare quella incidentata, e con Saavedra on the bubble, e soprattutto con Kanaan e Sato ancora fuori, il sogno della Indy500 è quasi certamente finito qua.

La cosiddetta “Happy hour”, quella decisiva e più prolifica per la ricerca della massima velocità, inizia così mentre si recupera la vettura #29, ma alle 17:06 riprendono le libere. Sulla vettura di Kanaan sono state effettuate ancora delle modifiche finché, alle 17:10 circa, Tony tira fuori dal cilindro due giri a 223.8 e 223.9 mi/h: finalmente è stata trovata la quadra e la fiducia risale, tant’è che torna ai box e 10 minuti dopo si porta in fondo alla pit lane e può ricominciare il Bump Day.

La sfida decisiva

La temperatura sta calando, ma non troppo tant’è che rimane il giorno più caldo del mese, non l’ideale per delle prestazioni da record, ma alle 17:29 Tony conclude (ed è già qualcosa) il suo primo tentativo di qualifica a 224.072, sufficiente per la 30esima posizione provvisoria. E gli applausi dalle tribune sono numerosi perché non sarebbe stata una vera Indy500 senza Kanaan. Saavedra viene bumpato dal gruppo e on the bubble ci finisce Romancini.

Alle 17:30, dunque a 30 minuti dalla fine, scende in pista Jaques Lazier per il suo secondo tentativo. È il primo ad effettuarlo e – da regolamento storico di Indy – il suo precedente tempo viene stracciato, ma nel suo caso era già un waved off e dunque conta poco, ma su questo ci ritorneremo dopo. Il suo tentativo non è sufficiente (223.360) e Romancini si salva, ma lo stesso brasiliano decide di risolvere la faccenda da solo scendendo in pista anch’egli per un secondo tentativo. E Mario stupisce tutti concludendo a 224.641 ed è 27°! E Saavedra, che era di nuovo 33° per il primo tempo ritirato da Romancini, viene rispedito fuori e on the bubble ora c’è Jay Howard.

Mancano 20 minuti quando Milka Duno fallisce un’altra volta (secondo waved off, stavolta al terzo giro) e quindi arriva il turno di Sato. Il giapponese mantiene le promesse delle libere e si qualifica con un discreto 224.178 che fa scivolare Kanaan indietro.

In pit lane ci sono sensazioni opposte: vedendo i tempi si capisce che si può fare un buon tentativo come Sato e Romancini, ma anche soffrire molto, come Lazier e pure lo stesso Kanaan e tutto dipende dalla sensibilità della vettura alla minima differenza di temperatura. Jay Howard, appena bumpato, ritira il suo 223.824 e inizia il suo giro a circa 15 minuti dal colpo di pistola. Il primo crono è un drammatico 223.920 che non fa presagire nulla di buono e infatti al muretto la pilota-titolare Sarah Fisher si dispera. Alla fine, la media è 223.610, peggiore dunque di quella precedente, e Paul Tracy rimane on the bubble.

Confusione, disperazione e “Bump Day Miracle”

10 minuti alla fine e l’universo subisce una biforcazione, in uno c’è la cabina di commento della Versus (ora NBCSN), composta da Bob Jenkins, Robbie Buhl e – un di solito impeccabile – Jon Beekhuis, che parte per la tangente, messa fuori strada dalla grafica errata, e uno in cui la vera ricostruzione dei fatti ha un sapore quasi tragicomico. Questi due universi si riuniranno soltanto 13 minuti dopo, alla bandiera a scacchi dell’ultimo tentativo del pilota che completerà il Bump Day, e solo allora i numeri corretti verranno a galla.

L’ultima cosa su cui tutti concordano è che Paul Tracy è on the bubble a 223.892 e sta per scendere in pista, visto che Tony Kanaan – il primo della fila – si è rimesso in coda e si mette sulla riva del fiume ad aspettare gli altri. Questa scelta dello stratega di Tracy si rivelerà decisiva. Appena Paul mette le ruote in pista il suo tempo precedente viene stracciato e dunque viene rimesso nel gruppo… chi? Secondo i commentatori in 33esima posizione c’è Jay Howard, ma non è così. Infatti, il suo 223.610 è più lento del 223.634 fatto registrare da… Sebastian Saavedra! E la grafica va nel pallone: nel ticker che scorre in sovraimpressione Saavedra è 34° ma davanti ad Howard 33° e qualificato.

Con la convinzione che Jay sia di nuovo qualificato, Tracy sfiora il muro in curva 3 già nel giro di lancio e poi si ripete anche al giro successivo nello stesso punto. Il 223.704 che ne esce al primo giro è peggiore anche del 223.920 di Howard e infatti al terzo giro viene waved off e – come Jay aveva fatto poco prima – si rimette subito in coda in fondo alla pit lane.

5 minuti alla fine. Sembrano pochi ma sono tantissimi. Nell’uni-Versus c’è Howard dentro, nella realtà c’è Saavedra, ma si prosegue ugualmente. Lazier scende in pista per quello che sarebbe il suo terzo e ultimo tentativo ma – come con Tracy poco prima – la vettura ondeggia paurosamente nel giro di lancio in curva 3 e abortisce la run ancora prima della bandiera verde; tecnicamente non ha sfruttato la terza chance e potrebbe ancora riprovarci, ma in pit lane ha davanti tre vetture e quindi gli manca il tempo a disposizione ed è ufficiale la sua DNQ.

4 minuti al colpo di pistola: Milka Duno ci ri-riprova come la contessa Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare in Fantozzi. Ancora waved off dopo un patetico 219.429 al primo giro. Questo fallimento annunciato è la salvezza però di chi è in coda, ovvero Howard e Tracy.

Sono attimi concitati e lo stratega di Howard decide di buttare via il 223.610 che hanno in tasca e giocarsi il tutto e per tutto. Secondo la cabina di commento è una decisione sbagliata (e al muretto Sarah Fisher si dispera una seconda volta) perché così Howard lascia un posto in griglia con il solo obiettivo di impedire a Tracy di effettuare lui l’ultimo tentativo disponibile prima delle 18:00. Ma sbagliando fanno la cosa giusta perché in realtà – come ormai sapete bene – Jay è fuori a vantaggio di Saavedra e deve per forza fare un tentativo per rientrare nei 33.

A due minuti dalla fine Howard lascia la pit lane e, secondo i commentatori, Paul Tracy è di nuovo nel gruppo e dicendo così aggiungono errori su errori. Mentre Jay esce da curva 4, a 1’05” dalla fine, e inizia l’ultimo warm up-lap finalmente la grafica ritorna sulla retta via e mostra come stanno i fatti: “Bubble: #29 Saavedra (R)”. Ma nessuno ha il tempo di accorgersene, tutti guardano la telemetria della #66.

Bandiera verde, ore 17:59:46 di Indianapolis.

Alle ore 18:00, mentre Howard è in curva 2 per il suo primo giro cronometrato, dalla pagoda parte il colpo di pistola che segna la fine della contesa. Paul Tracy non avrà più chance e tutto è nelle mani e nei piedi di Jay. Il colpo di pistola però è anche la causa del rinsavimento di Jon Beekhuis, il quale realizza che i tempi di Tracy e Howard sono nulli dopo che sono scesi di nuovo in pista e dunque Paul non è on the bubble, ma out senza tempo e definitivamente DNQ e dunque è una sfida diretta fra Howard e Saavedra. Jay deve fare meglio di 223.634, un tempo realizzato quasi sei ore prima. Il primo giro è un 223.812, peggiore addirittura del 223.920 del tentativo precedente. Sarah Fisher ha capito tutto e, come in una moderna via crucis, si dispera per la terza e ultima volta. Il secondo giro è 223.270, la media è 223.541, già ora inferiore a quella di Saavedra.

C’è tempo di un ultimo svarione in cabina quando dicono “They pulled him out. He was in!” quando invece Howard non era mai stato dentro perché il suo 223.610 registrato in precedenza era già più lento del 223.634 di Saavedra, ma ormai i due percorsi si stanno per riunificare. Mancano solo due giri alla fine e Howard registra un 222.813 e un 222.591. La media finale è 223.120 e così finisce anche dietro a Jaques Lazier. E finalmente i due universi si riuniscono con la certezza che Sebastian Saavedra è incredibilmente il 33° e ultimo qualificato per la Indy500.

Un team appena nato, alla prima gara in IndyCar, una vettura a disposizione finita a muro un’ora prima, un pilota colombiano di nemmeno 20 anni alla prima gara a Indianapolis e che mentre sta accadendo tutto questo è al Methodist Hospital a fare una risonanza magnetica per dei dolori alla schiena. A dargli la notizia via telefono è lo stesso Bryan Herta, ancora incredulo per quanto accaduto ma con la coscienza a posto. Aveva Oriol Servia a disposizione, ma ha deciso di credere nel giovane talento che, seppur in maniera rocambolesca, vedrà il via nel “Greatest Spectacle in Racing”. La domenica successiva Saavedra si ritirerà per un incidente al 161° giro, provocando la caution che deciderà la gara. Franchitti fa un pieno che dura 36 giri e resiste fino alla bandiera a scacchi andando a vincere la sua seconda (di tre) Indy500. Per Saavedra invece c’è il 23° posto finale.

Altre storie, altri miracoli

Quello che viene definito il “Bump Day Miracle” non si ripeterà l’anno successivo e Sebastian non si qualificherà per l’edizione del 2011, stavolta con il Conquest Racing. Bryan Herta e il suo team ritornano anche loro a Indy e al volante c’è un pilota decisamente più esperto, Dan Wheldon, rimasto a piedi dopo una contesa contrattuale con il Panther Racing. Sappiamo tutti come andò a finire: all’ultima curva Dan è secondo e davanti c’è il rookie JR Hildebrand, proprio colui che l’ha sostituito al Panther Racing. JR sbaglia l’ultimo doppiaggio e finisce a muro a pochi metri dalla bandiera a scacchi che invece premia Wheldon e il team di Bryan Herta, appena alla seconda gara in IndyCar. Stavolta possiamo definirlo “Memorial Day Miracle” (no, non quello di Sean Elliott in San Antonio Spurs vs Portland Trailblazers nei playoff NBA 1999, anche se pure questo merita), ma voglio pensare più ad un intervento “esterno” sapendo il tragico destino che metterà fine alla vita di Dan al termine di quello stesso 2011.

Le strade di Saavedra e di Herta si sono già separate, ma per entrambi in futuro ci saranno altri piccoli miracoli. In ordine di tempo, Sebastian disputerà sette Indy500 (includendo anche il DNQ del 2011) con sette team diversi, a detta di molti un record, e il punto più alto della carriera in IndyCar, dopo quel 23/5/2010, lo toccherà sempre a Indy nel 2014, quando – sotto la pioggia – conquisterà la pole position nel primo Indy GP della storia. Il giorno successivo, purtroppo, lascerà spegnere la vettura al via e verrà travolto dalle vetture di Muñoz e Aleshin. Dalle stelle alle stalle in appena 24 ore. Bryan Herta invece dal 2012 in poi disputa la stagione completa con la squadra che dal 2016 viene assorbita dal team Andretti. Il pilota al volante in questa occasione è un altro giovane, Alexander Rossi. E si compie un altro “Memorial Day Miracle”, però ben più noto a tutti. Il numero – il 98 – è lo stesso di Wheldon del 2011 e l’ultima sosta viene effettuata a 36 giri dalla fine, tanti quanti quelli di Franchitti nel 2010, e Rossi conquista la 100esima edizione della Indy500 tagliando il traguardo a passo d’uomo.

Saavedra invece ha lasciato la IndyCar dopo il 2017, incapace di trovare un sedile nonostante l’appoggio del suo storico (piccolo) sponsor AFS. Per il 2018 trova un posto in IMSA al Mathiasen Motorsports al fianco del connazionale Gustavo Yacaman. I risultati sono discreti e alla fine arriva un 13° posto in campionato dietro ai big di Cadillac, Acura, Nissan e Mazda, ma poi è di nuovo a piedi. A Natale è seduto sul divano a giocare a “Call of Duty” con Conor Daly e quasi per scherzo dicono di andare ai test per la 24 ore di Daytona giusto per vedere un po’ la situazione. Sebastian ci va e ne esce con un posto sulla vettura #18 del DragonSpeed. L’equipaggio è di tutto rilievo dato che ci sono Pastor Maldonado, Roberto Gonzales e Ryan Cullen.

Nella categoria LMP2 ci sono solo quattro vetture e quindi l’occasione è ghiotta per portarsi a casa un Rolex. La vettura #52, proprio del Mathiasen Motorsports, è fuori gioco quasi da subito, la #38 ha quattro giri di ritardo e dunque a contendersi la vittoria rimangono le due vetture del DragonSpeed che si alternano in prima posizione. A due ore e mezza dalla fine, quando è già in corso il diluvio, la vettura #81, in quel momento in testa, rimane a secco all’uscita della bus stop e non riesce a raggiungere i box. E al comando si porta la vettura #18, guidata proprio da Sebastian Saavedra, il quale prosegue quanto aveva fatto quel giorno, quello bagnato, a Indianapolis mantenendo i quattro giri di vantaggio sul secondo classificato. Ma anche per Sebastian la pioggia è troppa e a due ore dalla fine va lungo nella pista di pattinaggio chiamata curva 1 provocando l’ennesima caution della gara. Per sua fortuna ha danneggiato solo il muso e riesce a ripartire subito; arrivato ai box c’è il cambio della parte frontale (pare che fosse la quarta della gara e quella che gli montano sia riparata con lo scotch dopo vari lievi incidenti precedenti) e riparte dopo una sosta veloce, tant’è che non ha perso neanche un giro sull’inseguitore. Ma non c’è più motivo per soffrire: pochi minuti arriva la seconda bandiera rossa e la gara non verrà più ripresa. Sebastian Saavedra e il suo team hanno vinto la 24 ore di Daytona nella classe LMP2.

Due mesi più tardi, un’altra piccola bella storia di motorsport. Protagonista è un piccolo team, così come lo era quello di Bryan Herta nel 2010, lo Harding Steinbrenner Racing, nato alla fine dello scorso anno dalla fusione del team Harding, che già aveva disputato le stagioni 2017-18, e quello di George Steinbrenner IV, erede della famiglia proprietaria dei New York Yankees e già attivo in IndyLights. Alla seconda gara insieme ad Austin – grazie ad un’ottima prestazione ma anche ad una caution nel momento giusto – sono in victory lane. Il pilota alla guida non ha nemmeno 19 anni e diventa così il più giovane vincitore nella storia della massima categoria per monoposto negli USA. Il suo nome è Colton e il cognome è Herta ed è ovviamente il figlio di Bryan.

Piccole o grandi che siano, il motorsport ci regala tante storie e qualcuna di queste viene pure definita un miracolo. All’inizio del 2019 in quel di Daytona due ex piloti di F1 (uno più, ovviamente Fernando, e uno meno, Pastor) dopo tante ironie sono stati riammessi tra i piloti degni di essere chiamati campioni. Io invece ho voluto parlare di un altro, meno famoso e magari con meno talento, ma non per questo da disprezzare. E dunque complimenti a te Sebastian, con la speranza di rivederti prima o poi a Indianapolis. In questi giorni il tuo “compagno di videogiochi” Conor Daly ha l’occasione della vita con una vettura del team Andretti e dunque ora tocca a lui dimostrare il talento che ha.

Buon Bump Day a tutti, con la speranza che regali storie ed emozioni degne della storia di questa giornata.

Qui potete rivivere integralmente il Bump Day del 2010.

Immagini: trackforum.com; imsa.com

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