Blog | Sono 30 anni, poi saranno 40 e 50. Ma Ayrton, in qualche modo, resta e resterà sempre qui

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Tempo di lettura: 5 minuti
di Alessandro Secchi @alexsecchi83
1 Maggio 2024 - 09:00
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Dopo 30 anni Imola ’94 è ogni volta un pugno nello stomaco. Il 1° maggio, con Ayrton, la morte della prima era della F1

Chi quel weekend c’era, chi lo ricorda con i propri occhi e non per sentito dire, per averlo letto o rivisto successivamente, sa cosa significhi Imola ’94 per il mondo della F1 e per chi l’ha vissuto.

Si dice che, alle 14:17 di domenica 1° maggio 1994, ognuno di noi ricordi con precisione dov’era e con chi fosse quando la Williams di Ayrton, inquadrata dalla Benetton di Michael, scartò verso destra per andare a schiantarsi contro il muro del Tamburello. Beh, è vero.

Ero sul letto con mio padre, in rigoroso silenzio. Dopo l’incidente della partenza e dopo la morte di Roland il giorno prima, vederla così insieme rappresentava un po’ la speranza che non succedesse ancora qualcosa.

Non fu tanto il botto a colpirci, ma il fatto che Ayrton non si muovesse. Ad un tratto notammo il movimento del casco visto dall’elicottero e, per un attimo, sperammo fosse un segno positivo. Ma capimmo in fretta che non era così. Corsi a chiamare mia madre, dall’altra parte di casa, che accese la TV in cucina; un piccolo Grundig da 14″, dal quale avevo assistito al botto di Rubens al venerdì e al dramma di Roland.

I soccorsi, l’elicottero in pista, quella chiazza di sangue a terra che ci fece capire la portata del dramma. Il resto lo conosciamo. Una gara che riparte, un altro rischio enorme in corsia box con la ruota di Alboreto che si stacca e una corsa inutile e folle che viene portata, cinicamente e maledettamente, a termine.

E poi, l’attesa. Il team della RAI che porta avanti in modo incredibilmente professionale, nonostante l’atmosfera drammatica, le ore successive tra commenti, critiche, opinioni di addetti ai lavori, piloti ed ex. Lo sgomento è il sentimento più comune. La paura è chiara negli occhi di tutti.

Alle 18:40 del 1° maggio finisce tutto. Ayrton non c’è più, la F1 non lo sa ancora ma ha smesso di vivere, a sua volta, nelle condizioni in cui era stata gestita fino a quel giorno.

Il ’94 avrebbe pagato dazio ancora, da subito, due settimane dopo con l’incidente tremendo di Karl Wendlinger a Monaco. Miracolato. Così come Andrea Montermini a Barcellona e Pedro Lamy in una sessione di test a Silverstone. Dopo il botto di Imola, un volo oltre le protezioni. Le foto che si trovano sul web lascerebbero pensare ad un’altra tragedia, ma è invece un altro miracolo.

Il punto di non ritorno è stato superato. Parzialmente da metà 1994, con più concretezza dal 1995, la F1 cambia pelle.

Sono passati 30 anni da quel giorno e, in generale, da quel weekend. E Ayrton è ancora qui che gira. È nei caschi di chi lo ricorda, nella Fondazione che porta il suo nome, nelle centinaia di iniziative in suo ricordo che sono state organizzate in questo tempo sì lunghissimo ma passato così rapidamente.

Per chi c’era quel giorno e ricorda la devastazione di quel weekend, ogni volta che si verifica un incidente particolarmente importante e vediamo i piloti scendere come se fosse niente dalle vetture, il pensiero finisce subito là. Imola ’94. Perché sappiamo che gli standard di oggi, o per meglio dire la F1 di oggi, non è solo figlia del 13 maggio 1950 ma anche e soprattutto di quel weekend, di quel 29, 30 aprile e quel 1° maggio 1994.

Come ho scritto ieri, non è detto che per un mondo cinico come quello della F1 la sola morte di Roland sarebbe bastata a capire. Con quella di Ayrton non ci fu più scampo. Nessuna attenuante, nessuna ricerca di aggirare l’ostacolo. Era morto il migliore sulla macchina del team che aveva dominato le ultime due stagioni. Oggi non è il momento di tornare sull’incidente del Tamburello e su tutto quello che è successo successivamente. Non è il momento di scindere responsabilità dell’evento in sé con quelle dei regolamenti tecnici introdotti per quella stagione. Ci sarà tempo.

Quello che è giusto ricordare, in questo anniversario triste, è che la F1 cambiò. Tanti, tantissimi degli incidenti che si sono verificati negli anni successivi, fino ad oggi, non hanno avuto conseguenze tragiche soprattutto grazie all’evoluzione della sicurezza partita il 2 maggio 1994. Monoposto, circuiti, equipaggiamento dei piloti: tutto è migliorato ed è ancora migliorabile. Solo una volta le cose sono andate male, a ricordarci che il rischio c’è sempre e non bisogna mai abbassare la guardia: Suzuka 2014, la gara degli orrori e del dramma di Jules.

L’esempio che racchiude questi 30 anni di lavoro sulla sicurezza si chiama Romain Grosjean, l’uomo del miracolo del Bahrain nel 2020. Se ne potrebbero citare anche altri ma i più importanti li ricordiamo tutti: da Burti a Spa, a Kubica a Montréal e fino ad Alonso a Melbourne, per citarne tre di momenti diversi.

È come se Ayrton, in qualche modo, avesse appoggiato una mano sulla F1, aiutandola a fare le scelte giuste in queste tre decadi. Come un’ombra invisibile e silenziosa a protezione del suo mondo. Ecco perché Magic è sempre qui. Lo è dopo 30 anni, lo sarà dopo 40 e 50, il che equivale a dire per sempre.

Chi lo ricorda lo piange ancora, chi l’ha conosciuto dopo lo stima. E non potrebbe essere altrimenti. È così che succede con le leggende andate via così, inaspettatamente. Con Ayrton è successo troppo presto: e, forse, è per questo che la sua presenza si annusa ancora nell’aria. Perché aveva ancora tanto da dare ed è finito tutto così, inesorabilmente. Con una statua malinconica a guardare quel muretto dove tutto è finito.

Maledettamente.

Immagine: P300.it

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