Per il secondo anno consecutivo siamo stati costretti ad assistere all’artifizio del pit obbligatorio in SBK. Era proprio necessario?
La gara di apertura di un campionato è sempre un momento particolarmente sentito dai suoi appassionati. Dopo mesi di pausa invernale che possono sembrare infiniti, tra la noia e la monotonia della vita quotidiana intervallata dalle festività natalizie, poter finalmente tornare a godersi il weekend assistendo alle proprie categorie motorsportive preferite è sicuramente un piacere da poter assaporare al 100%.
Eppure, i “registi” a capo del campionato SBK si stanno impegnando, anno dopo anno, a rendere sempre meno “sentito” ed intrigante l’avvio del mondiale. Come nel 2024, anche quest’anno sono riusciti in pieno in quest’intento, cercando di mescolare non poco le carte nel tentativo di dare più brio ed incertezza alla serie, col risultato finale che l’hanno resa soltanto più confusionaria di quanto già non fosse.
Tuttavia, il discorso legato all’aspetto regolamentare e le novità introdotte nel 2025 lo affronterò, eventualmente, in un secondo momento; la carne al fuoco in relazione a quanto implementato all’alba del nuovo campionato, come la scelta di regolare le prestazioni sfruttando i limiti imposti dai flussometri o le modifiche dettate dal nuovo sistema di Superconcessioni, è parecchia e non vorrei cuocerla malamente per la fretta di parlare di questi argomenti, magari in maniera incompleta e raffazzonata.
Ciò su cui invece vorrei soffermarmi quest’oggi è la scelta che ha funestato il fine settimana di Phillip Island, decisamente più immediata e a me indigesta. Come da tradizione, il tracciato del Victoria ha ospitato il Round Australia che ha aperto il campionato e, come sta diventando da tradizione nefasta, Dorna Sports e Pirelli hanno scelto in comune accordo di suddividere le manche lunghe della SBK (e della SSP) in due tronconi, per il timore che l’asfalto australiano potesse causare consumi anomali sulle gomme e provocare dei grattacapi lato sicurezza. Ciò ha provocato molta confusione ai box e in pista durante le gare, con le classifiche riscritte a tavolino per via delle tempistiche non rispettate per i cambi gomme (cosa che, ovviamente, va a falsare una gara e ciò non è mai positivo).
Una scelta, questa, che presenta una miriade paurosa di controsensi, a cominciare dalla tanto decantata sicurezza. Come si può parlare di sicurezza quando la sosta obbligata fa sì che una mole incredibile di persone, tra meccanici ed addetti, si trovi nella corsia box nel momento in cui i piloti devono fermarsi, con tanto di attraversamenti improvvisi?
Il fatto, poi, che improvvisamente ci si ponga come paladini a protezione dei piloti proprio al termine di una settimana come quella che abbiamo vissuto, con un numero di piloti spropositato infortunatosi malamente tra i test ed il fine settimana, lascia allibiti al pensiero che Dorna rigiri completamente la frittata quando si parla di gomme. Forse per evitare un danno d’immagine? Peccato, perché esso c’è stato comunque.
Difatti, molti degli infortuni a cui si è assistito durante i test (specie per la categoria Supersport, che ha patito ben quattro defezioni a weekend nemmeno iniziato) sono state causate da quanto accaduto in curva 12 (gli eventi sono stati raccontati molto bene da Michael Ruben Rinaldi in un post su Instagram), quando la perdita d’olio di un pilota non è stata segnalata attentamente dai commissari ed ha conseguentemente provocato le varie scivolate, che hanno messo fuori gioco, tra gli altri, Glenn van Straalen e Federico Caricasulo.
Cosa c’entra quest’avvenimento, legato probabilmente ad un semplice errore umano di un marshall, col discorso sicurezza nel suo complesso? Semplice: Phillip Island non è nuova a queste situazioni di sicurezza precaria in tempi recentissimi. Basti pensare a quanto accaduto in Moto2 nel 2022 con Jorge Navarro, investito dall’incolpevole Simone Corsi alla curva Siberia e lasciato nella via di fuga in erba per diversi giri, senza nemmeno degnarsi di esporre la bandiera rossa; o anche nel 2023, quando la miriade di cadute al tornantino 4 della Moto3 non ha fatto nemmeno passare dalla mente, agli addetti a bordo pista, di asciugare quel tratto bagnato con gli spazzoloni in vista della corsa successiva, col risultato finale di un altro copioso numero di cadute in uscita dalla Miller Corner.
Per quanto ciò che sto per dire possa sembrare una bestemmia alle orecchie degli appassionati più ferrei del motorsport, le ragioni per la Superbike (e magari addirittura per il Motomondiale) per non recarsi più a Phillip Island sono molteplici e, alla luce di ciò che si è visto soprattutto quest’anno, forse sarebbe il caso di valutare di toglierla completamente dai calendari. Non so voi, ma trovo ridicolo a dir poco che un tracciato di così vecchia data si ritrovi ad avere delle lacune così evidenti nell’istruire i commissari di percorso a fare ciò che serve al momento giusto.
A questo si aggiungono molte alte problematiche che, oggigiorno, rendono Phillip Island più tediosa che affascinante (specie per delle categorie mondiali di questa portata): la posizione insulare la rende più difficoltosa da raggiungere a livello logistico, il meteo pazzerello spesso rende difficoltoso o persino impossibile lo svolgimento del fine settimana, le forti folate di vento che spesso portano ad incidenti molto pericolosi (vedi Masiá con Debise questa mattina, o Bezzecchi e Viñales in MotoGP) e la sua vicinanza con l’omonimo parco naturale pone l’attraversamento della fauna locale ben più probabile, tanto da diventare comune; ben più comune di quanto una pista, con piloti che sfrecciano ad oltre 300 km/h, possa permettersi. Gabbiani, oche, serpenti, wallaby: non manca più nessuno, tranne il buon senso.
Le tante situazioni a cui si è assistito in questi anni, a cominciare dalla famigerata “testata” di Andrea Iannone al gabbiano del 2015 fino ad arrivare all’attraversamento delle oche nelle libere del 2024 o persino a quello che è successo a Jack Miller sempre lo scorso anno (il pilota australiano aveva centrato in pieno un gabbiano sul Gardner Straight ed ha concluso quella gara col cadavere dell’animale incastrato tra la carena ed il manubrio), dovrebbero essere considerate inaccettabili per chi decide di far correre il campionato qui e che, di conseguenza, dovrebbero convincere a trasferire il Circus in altri lidi, indipendentemente dall’indubbia bellezza di questa pista, tra le migliori in assoluto al mondo per le emozioni che regala nel correrci.
Infine, il problema più ostico (nonché il principale motivo che mi ha spinto a scrivere questa bloggata): il layout così particolare di Phillip Island manda spesso in crisi le gomme, la cui carcassa, sul lato sinistro, spesso non riesce a tenere botta per le temperature che lo pneumatico raggiunge. Anche se, in realtà, ciò non sempre ha costretto ad attuare situazioni d’emergenza come il (da me) tanto odiato flag-to-flag. E per chi pensa che sia una soluzione accettabile, non è così: è anacronistico vedere una categoria che svolge gare brevi con delle soste obbligatorie, stona fin troppo. Per chi ama vedere una corsa di motociclette con dei pit stop, c’è l’EWC.
Sia nel 2024 che nel 2025, però, la SBK ha dovuto far fronte a questo stratagemma posticcio, a fronte della riasfaltatura avvenuta nel 2023 che ha reso la pista sì più veloce, ma ancor più abrasiva del normale. Giorgio Barbier, nelle vesti di Moto Racing Director di Pirelli, ha giustificato l’obbligo del flag-to-flag con l’impossibilità di garantire la sicurezza dei corridori, data la scarsità dei dati a disposizione.
Ma il bello (o il brutto) arriva qui, perché questa è la stessa identica motivazione che è stata fornita nel 2024 per giustificare la solita piaga del pit obbligatorio, alla vigilia del Round. A fronte di questa notizia, sorgono un numero spropositato di domande: dato che le coperture non sono cambiate tra un anno e l’altro e dato che si sta comunque parlando di moto di derivazione stradale, com’è possibile che Pirelli sia dovuta ripartire da zero un’altra volta e che non abbia sfruttato i dati raccolti dodici mesi fa, o anche quelli raccolti durante il Gran Premio d’Australia della Moto2 dello scorso ottobre (categoria che, proprio dal 2024, ha cominciato ad usare le stesse coperture della SBK in sostituzione delle Dunlop), per evitare questa farsa?
Anche vedendo le coperture selezionate e portate da Pirelli per le squadre sorgono moltissimi dubbi: per lo pneumatico posteriore (quello che dà più problemi qui a Phillip Island) è stata portata la mescola SC0 (utilizzabile solo in Superpole) e due varianti della SC1, ma sono state completamente ignorate le gomme SC2 e SC3, le più dure della gamma messa a disposizione dal gommista italiano. Perché sul tracciato probabilmente più ostico del calendario in termini di consumi non sono state portate le gomme più resistenti?

E le domande continuano, ancora e ancora. Perché, vista la carenza dei dati a disposizione, non sono state pattuite con Dorna e con la Federazione Internazionale delle giornate di test ulteriori proprio per questa specifica occasione?
Perché, in suddette sessioni collettive, non è stato chiesto ai team (o addirittura non li si ha obbligati) di fare più long run proprio a vantaggio di Pirelli stessa, in modo da assicurare uno svolgimento più sensato del weekend di gare?
Perché, sapendo delle difficoltà riscontrate negli anni precedenti, non si è puntato alla preparazione di una mescola specifica per Phillip Island, col lato sinistro rinforzato?
Tutte domande a cui non avremo mai risposta o che, anzi, possono avere tutte una sola risposta: perché non si presta più la benché minima attenzione alle sorti della SBK.
L’attenzione che la DWO, rappresentata da Gregorio Lavilla, pone verso la categoria è sempre stata piuttosto scarsa, è una cosa che oramai abbiamo capito da almeno una decina d’anni, e per alcuni si è parlato persino di boicottaggio della serie. E’ difficile dare torto a queste tesi complottistiche quando il cambiamento dei regolamenti è oramai all’ordine dell’anno, ma in certe situazioni la sensazione è che non ci sia tanto un intento malevolo, quanto vera e propria incompetenza.
E’ poi un ulteriore schiaffo in faccia sentire, dalla bocca di Lavilla, che queste soluzioni vengano applicate per “garantire lo spettacolo e la qualità delle gare”, quando non si fa altro che svilire una categoria già martoriata. L’unica cosa davvero garantita è che, in questa settimana, tutte le parti ci hanno fatto una figura marrone: la Superbike, la FIM, Dorna, la Pirelli e Phillip Island. Non si salva nessuno.
Alla luce di questo, agli appassionati della SBK dei tempi andati, quello zoccolo duro che ingenuamente la segue ancora sperando di rivivere quella passione che non riavrà a queste condizioni, cosa può sperare? Forse l’ancora di salvezza la può gettare, inaspettatamente, Liberty Media: l’acquisizione delle quote di Dorna sta avendo dei ritardi per via delle indagini che l’Antitrust europea sta facendo e chissà che, in questa situazione, la società spagnola non sia costretta a dover cedere qualche fetta della propria torta ad altri promoter. Ed è chiaro che, tra ciò che può essere sacrificato, il Circus Superbike è al primo posto (magari col ben volere di Discovery, già al comando dell’EWC e di cui si è parlato per un’acquisizione).
Nel frattempo, però, concentriamoci sul presente e stendiamo un velo pietoso su questo inizio di mondiale SBK. Un avvio stridulo che chi fa parte di quello zoccolo duro di appassionati, come il sottoscritto, non si meritava.
Fonte immagini: worldsbk.com
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