Blog | SBK, Australia: le Phillip Island del me bambino tra copertina, latte caldo e dormiveglia

BlogParola di Corsaro
Tempo di lettura: 7 minuti
di Alyoska Costantino @AlyxF1
21 Febbraio 2024 - 09:00

L’apertura di Phillip Island della SBK per me corrispondeva, da piccolo, al vero inizio della stagione motoristica più importante.


Quella in corso è la settimana di avvicinamento finale all’inizio della stagione 2024 della SBK. La off-season delle derivate di serie ha proposto parecchi temi su cui riflettere prima di poter osservare l’azione in pista, che inizierà tra giovedì e venerdì notte con le prime libere della massima categoria e della Supersport.

Le tante novità che ci attendono per quest’annata e il mio personale hype mi hanno fatto andare a ritroso con la mente di un po’ di tempo, sul viale di quella “Nostalgia Canaglia” che Al Bano e Romina Power cantavano al Sanremo di trentacinque anni fa.

Più passano gli anni, più si ha la sensazione che il motorsport stia spostando il proprio ago della bilancia sul fattore business, allontanandosi sempre più da quello sportivo. La volontà d’introdurre sempre più gare durante una stagione, aumentare anche quelle all’interno di un weekend e ridurre i “tempi morti” a disposizione di piloti e squadre per prepararsi al meglio (puntando così sull’incertezza) sono tutte scelte legate al voler rendere i contratti televisivi più proficui e a catturare un pubblico maggiore, anche a costo di uscire dal seminato per andare incontro ai tifosi più casual e meno ferrati su quella che è la storia di una disciplina.

E’ difficile, oggigiorno, trovare una serie che non abbia imboccato questo percorso di monetizzazione. La F1 è il primo esempio che viene in mente, ma anche le due ruote sono incappate in questo nuovo modo di pensare il motorsport, non senza qualche scelta discutibile tipo la Tissot Sprint della MotoGP per quanto concerne il Motomondiale. Quattro anni prima c’era già arrivata la SBK, con la Superpole Race.

Tutte scelte che, indipendentemente che possano piacere o meno allo spettatore finale, vanno a togliere ogni qualvolta un briciolo di “magia” in più a quella categoria, almeno ai miei occhi. È una ricerca spasmodica del soldo che, un po’ come nella nostra vita di tutti i giorni, ci fa capire che non si può tirare avanti solo di sogni, ricordi ed ingenuità, ma si deve guardare la realtà negli occhi ed affrontarla in maniera pragmatica, perdendo un po’ di quell’innocenza che finiamo per inevitabilmente rimpiangere.

E’ così che si finisce per ripensare al passato, un po’ come sto facendo io adesso. Il mio rapporto con la SBK è iniziato abbastanza tardi rispetto a F1 e MotoGP, da quando avevo dieci anni all’inizio di quella che, secondo me, è stata l’ultima era davvero splendente delle derivate di serie sul palcoscenico mondiale. Piloti del calibro di Max Biaggi, Troy Bayliss, James Toseland, Noriyuki Haga, Ben Spies, Tom Sykes ed altri ancora che, tra il 2007 ed il 2012, hanno infiammato i miei pomeriggi domenicali (e non solo) sulle piste più belle del mondo.

Proprio da quel momento in poi ho scioccamente cominciato ad associare l’avvio del mondiale SBK, in quegli anni, all’inizio della stagione motoristica più proficua. L’appuntamento di fine febbraio a Phillip Island era una sorta di “semaforo verde” per il motorsport che seguivo con più attenzione, uno spartiacque tra la off-season invernale e l’inizio delle danze a due ruote primaverili. Oggi chiaramente so che le cose sono diverse: quest’anno si sono già svolte, giusto per citarne alcune, gare importantissime quali la Dakar, il Rally di Montecarlo e la 24 Ore di Daytona.

Comunque, questo strano effetto di “prima assoluta” rendeva l’appuntamento australiano unico ed imperdibile, ma difficile anche da seguire per via degli orari proibitivi causati dal fuso orario. L’obbligo, per quelle domeniche di fine febbraio, era di mettere la sveglia al massimo volume accanto al cuscino, farsi prendere un mezzo infarto e distruggere i timpani dalla suddetta nel cuore della notte ed accendere la TV su La7, in compagnia delle voci di Luigi Vignando, Frankie Chili e Mauro Sanchini.

A quel punto, erano i “supereroi alla TV”, i piloti protagonisti, a fare la loro parte per rendere le gare stupende, aiutati anche da una pista che, tutt’oggi, continua a regalare alcune delle manche più incredibili dell’intera stagione, salvo rare eccezioni. Io non facevo altro che stare lì ipnotizzato, seduto sul divano o sulla sedia a dondolo di mia mamma a vedere quella ventina di moto tutte diverse salire e scendere tra le curve storiche di Phillip Island.

Ricordo il latte caldo ed i biscotti che mi preparavo per fare una colazione ad orari inusuali, la copertina di lana per il freddo di fine febbraio ed anche il tempo passato con mio nonno, che aveva (e ha tutt’ora qualche volta) la pazienza di svegliarsi con me per godersi le due manche lunghe domenicali (altra grande tradizione persa nel tempo), facendomi compagnia nel buio intervallato dalla luce quasi religiosa del televisore. Tutto questo più per mio gaudio che per suo interesse. Rammento anche la rabbia verso me stesso in quelle occasioni in cui non riuscivo a restare sveglio e finivo così per perdermi una manche; ero piuttosto critico di me stesso già da ragazzino.

Ricordo con particolare affetto Gara 1 del Round 2009, la gara che segnò un po’ l’inizio di una nuova era della Superbike con l’addio di Troy Bayliss, il passaggio di Noriyuki Haga al team Ducati Xerox ufficiale ed il debutto di Ben Spies sulla Yamaha, per quella che sarebbe stata la sua unica, trionfale stagione in SBK. Il texano non ebbe fortuna al primo avvio per via di un fuoripista alla Southern Loop, perciò a giocarsi la vittoria furono “NitroNori” e Max Neukirchner su Suzuki.

Il loro duello, durato tutta la gara, mi fece scalpitare come un ossesso fino all’ultimo giro, quando il tedesco prese un’imbarcata alla Lukey Heights e consegnò la vittoria al giapponese, non però senza lottare fino all’ultimo centimetro visto l’arrivo in volata finale. E’ difficile descrivere quelle sensazioni in un testo, ma certamente in quella notte non mi pentii affatto delle ore di sonno perse.

Spesso succedeva che la prima di Phillip Island, per quanto entusiasmante, non desse un quadro veritiero dei valori in campo del mondiale. Basti pensare alla pole di Carlos Checa nel 2013 con la Ducati Panigale (ai tempi ancora bicilindrica) al debutto, che sembrava far presagire un ritorno da protagonista dello spagnolo dopo il titolo 2011 ed invece si rivelò un fuoco di paglia.

L’anno dopo fu Eugene Laverty a lasciare di stucco tutti, vincendo con la vetusta Suzuki GSX-R1000 la prima assoluta. Tutti elementi che, sommati, andavano a rendere il Round d’Australia realmente magico: durante di esso poteva accadere di tutto, l’evento più inaspettato o la statistica più improbabile. Non c’erano limiti su ciò che poteva succedere, non c’erano pronostici che potevano essere certi oppure impossibili.

Tuttavia, una volta solcato il viale dei ricordi, sarebbe saggio tornare coi piedi per terra e, ahimé, con la SBK attuale non si può che fare altrimenti. Inutile soprassedere sulla confusione regolamentare patita dal campionato negli ultimi anni, sui sistemi di Balance of Performance o delle Superconcessioni ideati per rendere più compatto il gruppo o anche sulla presenza mai da me totalmente gradita della SP Race, che sostituirei volentieri con una terza gara vera e propria a questo punto. La Superbike è cambiata molto rispetto a dieci-quindici anni fa e continuerà a farlo, probabilmente non sempre per il meglio.

Rimango comunque positivo su ciò che ci aspetta per il 2024: i tanti cambi di casacca, gli arrivi di rilievo e la revisione sul peso minimo potrebbero aver mescolato oltremodo le carte, ridando percepibile incertezza al mondiale. Chissà che tra meno di due giorni, mentre starò a scrivere dei risultati su P300 sotto la mia fida coperta, io non riviva queste piacevoli sensazioni quasi mistiche come da ragazzino.

Fonte immagine: mediahouse.ducati.com

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