Il 17 luglio 2015 ci lasciava Jules Bianchi, il cui ricordo è sempre dovuto in un mondo che corre troppo in fretta
Quando mi giunse la notizia della scomparsa di Jules, dieci anni fa, provai sensazioni contrastanti. Ero ancora stordito dalla sorte di Michael, di cui non sapevamo nulla da oltre un anno e mezzo. Nessuno può sapere cosa provi una famiglia colpita da un dramma del genere e, allo stesso tempo, chi non ha vissuto una situazione così straziante non ha alcun diritto di giudicare cosa sarebbe stato meglio fare o non fare, dire o non dire.
Ricordo, però, che in quei nove mesi dall’incidente di Suzuka mi chiesi più volte se fosse giusto, in così poco tempo, avere una seconda famiglia dilaniata da una situazione terribile, con un ragazzo oltretutto giovanissimo, appena venticinquenne. Lo ripeto, non so cosa sia giusto o meno in termini assoluti: non so cosa voglia dire convivere ogni singolo giorno con un caro in una determinata situazione e non so, al posto di chi tiene a quel caro, quale sarebbe la mia riflessione.
Posso solo avere un parere personale sulla sensatezza di vivere così a lungo una situazione così estenuante, da semplice esterno, senza alcuna complicazione sentimentale, diciamo così. Mi chiedo spesso quale sia la differenza tra una presenza mista ad un’assenza prolungata ed un distacco immediato.
Per me, da tifoso quale sono stato e che non conta numericamente nulla, vivere da quasi 13 anni un idolo sapendo che non può più essere quello di prima è un dolore che ogni giorno logora un pochino di più. E non so, sempre parlando da esterno, se sarebbe lo stesso se tutto fosse finito in quella maledetta giornata sulla neve.
Per questo dico che, quando ho saputo di Jules e del suo andarsene silenziosamente, ho provato sentimenti opposti. Da un lato l’immensa tristezza per un ragazzo che avrebbe dovuto compiere 26 anni e che, nove mesi prima, era stato vittima non solo per colpa sua. Un aspetto sul quale non ho intenzione di ritornare, non oggi. Dall’altro lato, e pensando a Michael, ricordo di essermi detto “non so se, a questo punto, sia stato meglio così”. Può sembrare brutale e forse lo è ma, lo ripeto ancora una volta, da qui fuori è sempre tutto facile.
Abbiamo tutti il dovere di ricordare Jules, in questa giornata e non solo. Pensavamo di essere al sicuro dopo vent’anni dalla tragedia di Imola. Credevamo che ormai fosse stato fatto tutto eppure, come succede proprio quando la convinzione è estrema, il fato ci ricorda che c’è sempre qualcosa in più che si può fare. E come non ricordare il primo pilota salvato dal tanto odiato Halo, almeno all’inizio. Charles Leclerc, colui che da Jules era stato adottato come un fratellino minore. Segni del destino, per chi ci crede.
Di Jules rimane quel sorriso malinconico, un talento da nono posto con la Marussia a Monaco, un futuro chi lo sa se a tinte rosse o meno. Tanto è stato detto anche quando, ormai, non contava più. La sua scomparsa resta un monito e non solo.
La F1 è sempre stata, è e sempre sarà uno sport pericoloso, nel quale gli incidenti vanno più evitati che esaltati, più demonizzati che resi parte dello spettacolo. Di F1 si può morire ed è questo che deve far affezionare a questi venti ragazzi, più o meno giovani, che salgono 24 weekend in macchina; è questo iò che conta, più della loro vita mondana al servizio dello script.
Anch’io mi ero un po’ abituato all’idea che ormai fossimo sicuri dopo anni di incidenti folli, rischi grossi scampati e vetture sempre più robuste. Mi sbagliavo, come tanti: ed è brutto doverlo capire nel modo più crudo possibile.
Jules manca. Come Ayrton, Roland, Elio, Riccardo, Gilles e tutti quelli che hanno smesso di vivere, ma non di essere vivi nei ricordi, correndo sulla strada che portava al loro personale sogno.
Immagine di copertina: Media Ansa
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