Le reazioni opposte al rinnovo in Florida e alla possibile fine del tracciato italiano in calendario sono un segnale da non trascurare
Nelle ultime due settimane e mezza sono successe due cose che non avrei immaginato. La prima è stata la sollevazione popolare all’annuncio della F1 del rinnovo di Miami fino al 2041, oltretutto con un contratto già esistente che scadeva nel 2031. La seconda è stata l’altrettanto fragorosa manifestazione d’affetto per Imola che, dal 2026, rischia di non essere più in calendario.
L’annuncio di Miami è stato seguito da centinaia, migliaia di commenti negativi a riguardo sulle varie piattaforme social della F1, mentre da noi sono partiti gli hashtag “#KeepImola” e petizioni online per appoggiare le istituzioni nella loro lotta al mantenimento del tracciato in calendario. Entrambe le situazioni sono volti di una medaglia che pensavo quasi persa e che, forse, denota uno sorta di scollamento tra la narrazione impartita dal mondo della F1 e la realtà delle cose.
La domanda è molto semplice. C’è ancora voglia di mantenere la storia? Non me lo sto chiedendo riguardo Liberty Media, che dimostra ripetutamente di volerla archiviare con i fatti, contrariamente alle belle parole. Me lo chiedo riguardo fan, appassionati, chiamateli come volete. Insomma, le reazioni social è vero che rappresentano un piccolo campione di quello che è il seguito globale della F1, ma non si può neanche negare che la percentuale di reazioni negative per Miami e positive per Imola abbia raggiunto valori vicini al 100%.
È evidente che non può bastare una petizione o l’impegno delle istituzioni per mantenere Imola, così come gli altri tracciati storici del calendario. Qui si ragiona in termini di business e, per farla breve, di soldi. Chi più ne ha si porta a casa il Gran Premio: credo che questa dinamica ormai sia assodata quanto indigesta. Ed è assodato anche il fatto che, come ripetuto tra l’altro più volte da chi governa la F1, la storia non è sufficiente a restare in calendario.
Se, dal 2026, Imola avesse risorse a sufficienza per pagare 50 milioni all’anno di fee, il suo futuro non sarebbe in discussione. Lo stesso varrebbe per Monza, Spa (finita a rotazione, una bestemmia), Barcellona (destinata a lasciar posto a Madrid, vale quanto prima) e qualsiasi altro circuito europeo. Il problema è che non si può competere con arabi e USA, dove la F1 gli “eventi” (non chiamiamole gare, per favore) se li organizza praticamente da sola.
Tutto questo, incredibilmente, inizia a scontrarsi con il parere dei fan. Se fino ad ora il pubblico era stato in qualche modo passivo di fronte alle continue spallate date da LM alla tradizione della F1, adesso qualcosa sembra smuoversi. Non l’avrei mai detto, soprattutto dopo il riciclo generazionale degli ultimi anni in termini di pubblico.
La F1 dichiara orgogliosamente che “più di 4 milioni di bambini tra gli 8 e 12 anni” segue la F1 e che il 54% dei fan su TikTok e il 40% su Instagram ha meno di 25 anni. Percentuali che potrebbero essere buone per la Formula E, nata nel 2014. Invece parliamo della F1, che di anni ne ha 75 e finge di averne 20.
È anche per questo che sono stupito dalle reazioni degli ultimi due GP. E devo essere onesto: se in realtà potevo aspettarmi un appoggio a Imola, anche se non di queste proporzioni, quello che non mi aspettavo era la sommossa popolare contro Miami, che accentua ancora di più la differenza tra la narrazione di chi sta dentro al circoletto e chi sta fuori, mostrandolo (finalmente?!) come un evento autoreferenziale che tutti quelli che ne fanno parte vendono come meraviglioso, per far contenti gli sponsor, mentre chi sta fuori non sopporta.
Siamo forse ad un piccolo segnale, dopo otto anni, di risentimento verso chi governa il Circus? Si sta forse iniziando a capire che la storia non è un vecchio straccio sul quale non si può lucrare ma la base di questo sport? La speranza è sempre l’ultima a morire, si dice. E spero vivamente che sia così.
Immagine di copertina: Media Red Bull
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