Banzai! Team e motori giapponesi alla conquista della Formula 1

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Tempo di lettura: 9 minuti
di Stefano Costantino
23 Aprile 2020 - 14:20
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È il 1964 quando i giapponesi si ributtano nella mischia di un conflitto mondiale, anche se questa volta le armi sono affusolate monoposto a sigaro e il campo di battaglia è costituito dalle più celebri piste nel mondo. Questa guerra si chiama Formula 1 e la cilindrata di 1,5 litri, in vigore in quegli anni, sembra essere una sfida attraente per un costruttore giapponese che sta già rivoluzionato il mondo delle due ruote: la Honda, infatti, ha accumulato un’elevata esperienza nel design di piccoli motori a elevata potenza specifica.

La monoposto RA271, che viene schierata per la prima volta al Gran Premio di Germania del 1964 per il pilota Ronnie Bucknum, è addirittura sfacciata. Non solo i giapponesi si presentano con un’architettura ambiziosa come il motore 12 cilindri a V di 60°, ma hanno anche la presunzione di montarlo trasversalmente sulla monoposto.

La complessità nelle corse si paga sempre e per vedere la luce bisogna attendere il 1965, con l’arrivo di un pilota che ha grande fama di collaudatore: Richie Ginther. Però, quando arriva, la luce è di un bagliore folgorante: al Gran Premio del Messico, ultimo della stagione, Richie salta in testa dal terzo posto in griglia e conduce con autorità fino alla bandiera a scacchi. Peccato che questo sia anche l’ultimo Gran Premio della formula da un litro e mezzo.

Dal 1966, con i motori tre litri, si torna ad arrancare, anche se la nuova monoposto RA272 ha rinunciato alle sofisticazioni del precedente modello e ora motore e cambio sono montati in una più ortodossa posizione longitudinale. Ci vuole più di un anno di rodaggio, ma al Gran Premio d’Italia 1967 la Honda torna sul gradino più alto del podio con John Surtees. Il britannico ha rotto nel corso del ‘66 con la Ferrari, che lo ha portato alla vittoria del titolo mondiale nel 1964, e spera di trovare una nuova musa ispiratrice nella vettura giapponese.

La Honda cerca di dargli un mezzo all’altezza delle sue doti, ma finisce per andare troppo in là: nella stagione successiva, infatti, la squadra s’impegna nello sviluppo di una nuova monoposto rivoluzionaria, la RA302, con motore raffreddato ad aria e largo uso di magnesio, leggero ma maledettamente infiammabile.

Surtees rifiuta di salire su una macchina così pericolosa e la Honda ingaggia un quarantenne entusiasta pilota francese, Jo Schlesser, con una buona esperienza nei prototipi e nelle formule minori, ma che non ha mai corso in Formula 1. Al debutto con la RA302 nel GP di Francia, Jo si schianta contro il terrapieno a bordo pista e muore nel terrificante rogo che consuma la sua monoposto.

È un’atomica che piega la Honda: a fine stagione la squadra si ritira.

Di team giapponesi in Formula 1 non se ne parla più fino al 1974, quando ai box compare la Maki Engineering: in tre anni il fondatore della squadra ed ex designer di formule minori Kenji Mimura, insieme al suo aiuto Masao Ono, produce tre monoposto che si tagliano con il grissino: ne sa qualche cosa il pilota Howden Ganley, che sulla F101B chiude la sua carriera in Formula 1 con un bel botto al Nurburgring, per improvvisa rottura della sospensione. Otto mancate qualificazioni sono il bottino finale del team giapponese.

Più consistente la Kojima, fondata da Matsuhisa Kojima, ex pilota di moto per la Suzuki. Con una macchina interessante e pochi soldi, il team prende parte a due Gran Premi del Giappone nel 1976 e 1977. Al debutto, in mezzo al diluvio, Masahiro Hasemi segna il giro più veloce della corsa prima del ritiro. L’anno successivo un 11° posto chiude definitivamente l’avventura.

Gli anni ’80 sono il decennio in cui i giapponesi minacciano il mondo; fabbricano di tutto, lo fanno meglio degli altri e a costi inferiori. La Formula 1 si ritrova improvvisamente a subire il medesimo assedio: la Honda torna come motorista nel 1983 con la Spirit, ma il team su cui punta è la Williams. Già l’anno successivo Keke Rosberg porta al successo il V6 turbo giapponese a Dallas. Per la verità, sul cittadino americano, più dell’ancora acerbo motore Honda, a fare la differenza è soprattutto l’ottima resistenza fisica del coriaceo pilota finlandese, uno dei pochi a reggere il terrificante caldo texano e a gestire lucidamente le insidie di un circuito messo in piedi con eccessiva leggerezza.

Nel 1986 il binomio Honda-Williams conquista il primo titolo costruttori e per un soffio sfugge il titolo piloti, che l’anno successivo viene conquistato da Nelson Piquet dopo una dura battaglia con il compagno di squadra Nigel Mansell e con la Lotus di Ayrton Senna, anch’essa motorizzata Honda.

Ma il ciclo mitologico è quello che ha inizio a partire dal 1988, con la nuova partnership McLaren-Honda: questa Formula 1 con gli occhi a mandorla sarebbe un po’ monotona se in seno al team inglese non scoppiasse la grande rivalità tra Ayrton Senna e Alain Prost. Per il costruttore giapponese è comunque un’epopea felice che si chiude nel 1992 con altri quattro titoli costruttori: con il V6 turbo, con il V10 o il V12 aspirato, Honda ha dominato e lasciato un’impronta indelebile nella Formula 1.

Fino al 2000 il costruttore rimane comunque nel giro attraverso la Mugen Motorsport, creatura di Hirotoshi Honda, figlio del grande Soichiro. Mugen significa “senza limiti” e fanno bene questi giapponesi a non porsene, perché a volte i miracoli accadono per davvero: è il 19 maggio 1996 quando Olivier Panis vince a sorpresa il Gran Premio di Montecarlo, con una combinazione efficace di manico e strategia. È il primo successo per la Mugen e il nono e ultimo nella storia della Ligier, che dall’anno successivo diventerà Prost.

Ma per il piccolo costruttore giapponese è la partnership con la Jordan ad offrire le maggiori soddisfazioni: nel 1998 arriva una vittoria sotto la pioggia con Damon Hill a Spa. Due altri successi arrivano nel 1999, a Magny Cours e a Monza, con Heinz-Harald Frentzen che a un certo punto si trova perfino in lizza per il mondiale.

Tra il 1989 e il 1997 la voglia di emulare la Honda porta in Formula 1 anche la Yamaha, che si associa a Zakspeed, Brabham, Jordan, Tyrrell e Arrows, ma è una Cenerentola che non trova mai il giusto principe azzurro per arrivare sul gradino più alto del podio. Rimane nella memoria una mancata vittoria di Damon Hill all’Hungaroring, nel 1997, sfumata all’ultimo giro per un problema al cambio.

Sempre meglio della Subaru che ci prova nel 1990, anche se il suo V12 boxer è italianissimo, progettato dalla Motori Moderni di Carlo Chiti. Il propulsore finisce sulla Coloni, che non riesce mai a portarlo in corsa.

L’assenza di team giapponesi dura fino al primo decennio degli anni 2000, quando scatta una pesante offensiva: la Toyota debutta nel 2002 e nel 2006 torna la Honda.

Chi sulla carta fa più paura è il gigante Toyota, fondato negli anni ‘30 dalla famiglia Toyoda, che ne controlla ancora oggi il destino. Toyoda in giapponese significa “fertile risaia”, ma per i vertici dell’azienda la Formula 1 si rivelerà un costoso pantano: ne usciranno nel 2009, con un quarto posto nel mondiale del 2005 come miglior risultato.

La Honda parte meglio: tra il 2000 e il 2005 è tornata a fornire i motori a Jordan e Bar, finendo poi per rilevare quest’ultima dalla multinazionale del tabacco BAT nel 2006. Già nella prima stagione conquista una prima, incoraggiante vittoria in Ungheria con il sempre efficiente Jenson Button, ma nel 2007 è già incubo totale.

La fonte d’imbarazzo è la Super Aguri, la squadra fondata nel 2006 dall’ex pilota di Formula 1 Aguri Suzuki, che corre con un’evoluzione della vecchia Honda RA106 e qualche volta va meglio della nuovissima monoposto ufficiale, la RA107. Se non arrivasse un benedetto quinto posto di Jenson Button in Cina, penultimo appuntamento della stagione, la situazione nella classifica costruttori sarebbe ridicola: la corazzata Honda punti due; la scialuppa Super Aguri punti quattro. Il risultato ottenuto in Cina risistema le gerarchie, ma non giustifica la differenza di budget, tant’è che la Super Aguri chiude poi la sua breve avventura all’inizio della stagione successiva, senza soldi.

La vita del team Honda non dura tanto di più: qualche mese dopo, infatti, la squadra viene ceduta a Ross Brawn, appena chiamato a raddrizzare le sorti della scassata compagine giapponese. Con il materiale della Honda, eccetto il motore, sostituito con il Mercedes, la Brawn GP vince il mondiale nel 2009 con Jenson Button. L’harakiri è una pratica sorpassata, ma è da scommettere che qualche capocciata al muro, magari di spigolo, qualcuno in Giappone l’abbia data.

Alla luce di queste esperienze, il dubbio è lecito: la katana, temibile spada giapponese, è forse diventata un tagliacarte?

La Honda ci riprova comunque, tornando nel 2015 come motorista, in piena era Hybrid. La rinnovata partnership con McLaren è una terribile trappola mentale per tutti i protagonisti, perché riporta automaticamente alla mente i leggendari successi di fine anni ’80, inizio anni ’90. Tutti fanno professione di umiltà, ma la mente è inchiodata là e inevitabilmente le aspettative sono alte.

I guai arrivano fin dai primi test stagionali, sul circuito di Barcellona, quando il neoacquisto Fernando Alonso ha un anomalo incidente in cui la vettura va a muro, senza apparente reazione del pilota. Tra le prime ipotesi, oltre ad un malore, anche la possibilità che sulla monoposto si sia verificato un corto circuito elettrico sull’unità ibrida, folgorando il povero Fernando. Il team parlerà poi di forte vento laterale, sollevando qualche perplessità. Il pilota, al suo rientro a Sepang dopo aver saltato il primo GP stagionale, parlerà di un problema allo sterzo.

Seguono tre stagioni deliranti in cui il motore giapponese stenta a trovare affidabilità e potenza. A peggiorare la situazione ci si mettono anche gli snervanti team radio di Fernando, che certificano una situazione ormai sotto gli occhi di tutti: l’apprendistato del colosso giapponese si sta rivelando più lungo e meno fruttuoso del previsto.

Al termine della stagione 2017 McLaren si separa da Honda, che passa a fornire i suoi motori alla Toro Rosso. L’operazione ha una sua logica: la squadra satellite della Red Bull non ha ambizioni di primo piano e questo aspetto toglie pressione ai giapponesi, che possono lavorare in santa pace.

Già nel 2019 la motorizzazione viene estesa alla Red Bull: nonostante Mercedes e Ferrari siano ancora là davanti il motore giapponese, accoppiato ad un telaio ed un’aerodinamica di qualità, inizia a raccogliere risultati. Le vittorie di Max Verstappen in Austria, Germania e Brasile sono un fatto recente. Forse questa Katana postmoderna a lama elettrica sta finalmente cominciando a funzionare!

Immagine di copertina: Alessandro Secchi


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