Il mondiale di Formula 1 è finalmente arrivato al termine della stagione. Un 2019 che chiude un decennio piuttosto triste, sotto qualsiasi punto di vista: emozioni, spettacolo, regolamenti, seguito, polemiche e via dicendo.
Come archiviare il decennio se non nel luogo che più di tutti l’ha rappresentato? Abu Dhabi, appunto. Il tracciato più brutto dell’intero calendario – in coabitazione con Baku, direi – piazzato come sberla finale per dare il colpo di grazia di fine stagione. Fortunatamente solo in tre occasioni è stato decisivo per il titolo, una delle quali – 2014 – pompata dalla magnifica (!) trovata dei doppi punti finali. Per il resto, fortunatamente, i mondiali si sono decisi in luoghi decisamente migliori, esclusa la magnifica India del 2013: Interlagos, Suzuka, Austin, Città del Messico, poco importa che i titoli siano arrivati con delle gare di anticipo.
Perché ce l’ho così tanto con Abu Dhabi? Perché rappresenta tutto quello che non ha – non dovrebbe avere, pardon – a che fare con la Formula 1, almeno per quanto mi riguarda. Prima di tutto è un tracciato senza una curva degna di questo nome: quindi potrei anche non definirlo un tracciato… Pieghe a 90° pro-sponsor che spezzano rettilinei, angoli netti che manco il Cybertruck della Tesla. Ma questo non interessa a nessuno, evidentemente: ciò che viene esaltato è il grande Hotel che sovrasta la pista, i fuochi d’artificio, i riflettori per correre la sera ed il lusso che abbraccia tutto in quelle zone. Ovvero, tutto il contorno che non serve assolutamente a nulla dal punto di vista sportivo ma, da quello del ritorno d’immagine per la location, serve eccome per un GP che evidentemente investe somme importanti since 2009.
Per carità, tutto affascinante, non dico mica il contrario: ci sono stato qualche anno fa ed effettivamente l’Hotel illuminato (la foto è di quei giorni) non è niente male e dentro è ancora meglio. Ma resta, appunto, un di più, un plus, insomma la cornice del quadro: se poi il dipinto è fatto da Mr. Bean… Vogliamo parlare del tracciato? Abbiamo guidato in pista con delle Aston Martin e, se già i rettilinei sembrano lunghi con le Formula 1, immaginatevi con delle stradali che comunque i 230/240 li prendono. Qualcuno potrebbe dirmi che i rettilinei ci sono anche a Monza: vero, certo. Ma almeno dopo – esclusa l’orrenda prima variante, mannaggia a loro – ci sono la Roggia, l’Ascari e la Parabolica. Curve, appunto, non fermate da semaforo.
E quindi, se mi è permesso, chi se ne frega dei fuocherelli sparati in aria al traguardo, del lusso sfrenato, dei ricchi premi e cotillon, dei barchini e dei vip in mostra, mi vien da dire. Teoricamente si dovrebbe partecipare ad un evento per l’evento in sé, non per esaltare tutto il resto e fare i turisti affascinati da tutt’altro. Ma questa, appunto, è la perfetta rappresentazione di un decennio nel quale si è tentato di migliorare la Formula 1 lavorando sulla sua immagine più che al suo contenuto, con i risultati che abbiamo visto.
Non resta che aspettare il 2021, con la speranza che la rivoluzione aiuti a cambiare rotta. Magari Abu Dhabi a fine anno sarà più digeribile. Forse. Anzi, scherzavo. Mai nella vita.
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