La terza corona Supercross del pilota Yamaha si distingue nettamente dalle prime due, per tanti motivi
C’è qualcosa di profondamente affascinante nel vedere un campione tornare in cima, non solo per la gloria ma anche per chiudere un conto aperto, soprattutto con sé stesso. Cooper Webb ha appena conquistato il suo terzo titolo nel Supercross americano, ma ridurre la sua stagione a una semplice vittoria sarebbe come descrivere un uragano come “un po’ di vento”.
Questa stagione l’ho vissuta anche con un po’ di distacco. Non sono mai stato un fan sfegatato di Webb, naturale per uno che segue Ken Roczen. Lo rispettavo, certo. Due titoli non si vincono per caso e soprattutto nel modo in cui lui è riuscito a vincerli. Ma non c’era quella connessione emotiva che si crea con alcuni atleti, quelli che ti fanno esultare da solo davanti alla TV o stringere i pugni quando cadono.
Eppure, quest’anno, qualcosa è cambiato. Ho cominciato a vederlo diverso. Più silenzioso, forse. Più affamato, sicuramente. Ma soprattutto più umano. Non era il favorito. Non c’era quella luce abbagliante attorno al suo nome come in passato. Anzi, sembrava quasi che tutti lo stessero guardando aspettando il suo errore. Ma lui no. Lui ha guardato avanti. Sempre avanti. Come chi ha imparato a non fidarsi del rumore attorno a sé.
Ogni manche sembrava un piccolo atto di resistenza. Non contro gli avversari, ma contro l’idea che fosse “già stato”, che il suo tempo fosse passato. E invece ha risposto nel modo più potente che esista: rimanendo lì, solido, costante, intelligente. Non ha dominato con la forza bruta, ma con il tempismo e la testa. Ha vinto come vincono quelli che sanno cosa vuol dire cadere e rialzarsi con la faccia impolverata e lo sguardo duro.
Alla fine, quando ha alzato quel trofeo, non ho visto solo un vincitore. Ho visto un uomo che si è ricostruito. Che ha trovato un’altra versione di sé stesso. Che ha trasformato i dubbi in benzina e la pressione in lucidità. E forse è proprio questo che rende il terzo titolo di Cooper Webb così speciale per me: non è solo un numero in più. È la prova che la fame vera non si spegne. Cambia forma, certo. Si fa più silenziosa, più matura. Ma resta lì, sotto la pelle. E brucia.
Immagine copertina: Cooper Webb on X
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