Blog | L’omaggio di Hamilton a Senna con l’auto di Suzuka ’90 e l’ipocrisia che sale in cattedra tra i media british anti Max

Autore: Alessandro Secchi
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Pubblicato il 31 Ottobre 2024 - 21:30
Tempo di lettura: 6 minuti
Blog | L’omaggio di Hamilton a Senna con l’auto di Suzuka ’90 e l’ipocrisia che sale in cattedra tra i media british anti Max
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Le critiche all’hard racing di Verstappen nell’anno del ricordo di Senna sono il massimo del non sense

Il trentrennale della scomparsa di Magic vedrà il suo apice, in termini di cerimonie e ricordi, ad Interlagos quando Lewis Hamilton, sabato, dopo le qualifiche del GP di San Paolo (che fatica chiamarlo così), scenderà ancora in pista al volante della MP4/5B di Ayrton, per un emozionante giro davanti ai tifosi brasiliani.

Ora, io non ho niente contro le celebrazioni per Ayrton, non sia mai. Quella di Imola è stata molto toccante, per chi c’era e per chi ricorda, purtroppo personalmente, quel weekend. Il punto della mia critica è tutto tranne che questo, perché la storia esiste e di celebrazioni del genere ce ne vorrebbero anche di più per ricordare chi ha reso importante nel mondo la F1; una categoria con ormai 75 primavere sulle spalle e non sette.

È curioso, però, notare che il trentennale di quel tragico 1° maggio cada perfettamente nell’anno in cui la F1, inteso più come ambiente mediatico che come sport in questo caso, si sta rivelando falsamente politically correct ancora più del solito; con la macchinazione – di base prevalentemente inglese – contro Verstappen che ha raggiunto vette decisamente imbarazzanti a livello di parteggiamento.

Come ho scritto più e più volte in questi anni sono, sono sempre stato e sempre sarò a favore delle lotte dure in pista. Una volta lo era anche Hamilton (a parole e nei fatti), come da lui stesso ammesso poco meno di dieci anni fa, almeno fino a quando non ha trovato sulla sua strada qualcuno altrettanto valido.

Ecco, Senna era un ammirevole simbolo del correre duro. “If you no longer go for a gap that exists, you’re no longer a racing driver” è una delle frasi simbolo di Magic, un inno al provarci sempre e a non farsi scappare la minima occasione, di cui si faceva splendido attore per la gioia dei suoi tifosi; gioia decisamente inferiore, invece, per i tifosi avversari e per gli avversari diretti in pista, non sempre felici della condotta di Ayrton in pista.

La coincidenza che a guidare una vettura dell’allora “cagnaccio” Senna sia Hamilton, dichiarato fan di Ayrton da bambino, e che questa vettura sia incidentalmente quella del 1990, anno della vendetta nei confronti di Prost, apre un vero e proprio metaverso. Uno spazio immaginario (ma neanche troppo) nel quale una F1 prettamente a base inglese, nel celebrare ripetutamente le gesta di uno dei piloti più forti e duri della storia, spesso e volentieri oltre i limiti fino all’apice di Suzuka 1990, sta contemporaneamente contestando l’attuale campione in carica che risponde, in pista e fuori, agli stessi canoni di durezza ai limiti del regolamento per i quali, dopo 30 anni, si è ancora tutti in ginocchio a tirare giù il cappello di fronte al brasiliano.

Non so voi, ma in tutto questo io vedo un livello di ipocrisia che difficilmente si è raggiunto negli anni scorsi. Perché le due cose non possono essere messe in contrapposizione se si vuole fare un certo tipo di mestiere. È abbastanza chiaro che la F1 a trazione inglese abbia, in questi quasi vent’anni, appoggiato mediaticamente l’ascesa di Hamilton fino ai livelli attuali. Se la F1 fosse a trazione italiana e avessimo avuto un pilota nostrano di tale portata, probabilmente anche noi avremmo fatto lo stesso.

Soprattutto negli ultimi anni, questa tendenza è andata progressivamente a crescere. Se all’inizio, però, poteva passare un po’ sotto traccia, proprio il trentennale della scomparsa di Ayrton dimostra come si possano avere due atteggiamenti opposti per piloti simili nella cattiveria in pista. Quindi cosa dovremmo pensare? Quale dei due atteggiamenti è esagerato? L’amore incondizionato per Ayrton o il rigetto nei confronti di Verstappen? Perché, almeno per come la vedo io, le due cose non possono andare di pari passo.

Come detto, le celebrazioni per Ayrton sono cosa buona e giusta e anche per altri grandi si dovrebbe fare altrettanto; magari non solo quando i record vengono ritoccati (come succede con Schumacher, un altro che non era proprio amatissimo dai media). Che il brasiliano debba essere celebrato e tramandato è un obbligo per chi segue questo sport, da tanto o da poco. Sempre, però, ricordandone pregi e difetti, dipingendone il mito per quello che è stato nei suoi picchi, nelle sue debolezze e nei suoi errori, perché ricordare solo gli uni o gli altri non rende il senso globale del personaggio. Suzuka ’90 è una delle vicende peggiori accadute nella storia della F1, un incidente volontario a 250 all’ora frutto della voglia di vendetta per vicende di un anno prima. Un botto potenzialmente devastante, ma questo non cambia di una virgola quello che è stato il personaggio Senna.

Detto questo mi pare abbastanza chiaro che, tornando ai giorni nostri, l’astio verso Verstappen sia esagerato a prescindere. È ovvio che episodi come quelli di Città del Messico (sbagliati, l’abbiamo scritto) non facciano altro che supportare certe argomentazioni, ma se penso in generale al confronto con Ayrton in termini di giudizio morale mi viene da sorridere, ma ne capisco in parte (anche se non li condivido) i motivi. Dal 2021, sin da prima di Abu Dhabi, Verstappen è un nemico giurato dei media british perché si è messo tra Hamilton e il tanto agognato ottavo titolo, con il quale Lewis avrebbe scalzato Schumacher (ricordo, poco adorato ai tempi) dal penultimo record che gli mancava, quello degli otto titoli. L’ultimissimo, invece, è quello dei cinque titoli consecutivi, che sarebbero stati pareggiati proprio ad Abu Dhabi.

Da tre anni l’astio per tutto questo ben di dio mancato si vede e si legge in quasi tutti i contenuti di stampo inglese. Che non perdono tempo, tra articoli ed infografiche, a rimarcare la superiorità di Lewis e, in questa stagione, le cattiverie in pista dell’olandese. Cattiverie – o hard racing, dipende da come le si vuole dipingere – di cui lo stesso Hamilton è stato protagonista in più occasioni negli anni senza che, però, nessuno battesse ciglio.

Oggi, al posto di Lewis, c’è Lando Norris. Altrettanto british e altrettanto assecondato nella sua rincorsa al titolo contro il cattivo Verstappen dai media connazionali. Quando – almeno a parer mio – non ha la stessa stoffa di Hamilton, è difficile che ci possa arrivare e di marachelle in pista ne fa a sua volta senza che – stranamente – vengano notate. Episodi come stringere sull’erba la Red Bull in partenza a Barcellona sopra i 200 all’ora o muoversi in frenata (in diverse occasioni, ultima ad Austin) rischiando di farsi centrare sono anch’esse azioni facenti parte dell’hard racing. E vanno benissimo, per carità: il problema, semmai, è che il termine “hard racing” assume un significato diverso in base a chi fa cosa e quindi, certe azioni, vengono contestate sulla base di chi le fa.

In conclusione: santificare Senna ci sta. Ma sentire le stesse persone tessere le lodi di Ayrton e condannare le scorrettezze di Verstappen, per quanto mi riguarda, dipinge un chiaro molto quadro dell’attuale situazione. Un po’ come immaginare la nazionale olandese a Wembley contro l’Inghilterra per una finale di mondiale.

Immagine: WikiCommons

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