Intervista a Dan Dole: “Brian Hart, una storia che merita più considerazione”

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Tempo di lettura: 7 minuti
di Andrea Ettori @AndreaEttori
10 Ottobre 2021 - 12:15
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P300.it intervista Dan Dole, collaboratore di Brian Hart, il quale ci racconta l’uomo leggendario dietro motori capaci di lottare contro i grandi del Motorsport

Lo scorso 7 settembre Brian Hart avrebbe compiuto 85 anni e molto probabilmente avrebbe raccontato la sua vita, totalmente dedicata alle corse, entrata di diritto nella storia non solo della F1 ma anche del motorsport in generale.

Purtroppo la vita del costruttore inglese si è interrotta nel gennaio del 2014 privandoci di una testimonianza attiva e reale su cosa significasse costruire motori in modo artigianale e lottare quasi alla pari contro costruttori plurimiliardari.

Perché Hart è stato questo: un uomo capace di portare i propri motori, turbo o aspirati, nelle posizioni di vertice quando a punti andavano soltanto i primi sei classificati. La storia però non sta rendendo omaggio a un personaggio che ha contribuito attivamente alla crescita della F1, ricordando ad esempio come Ayrton Senna abbia conquistato il primo podio in F1 con un motore Hart alle spalle o Rubens Barrichello sia arrivato alla prima pole della carriera spinto proprio dal V10 artigianale inglese.

P300.it mette invece in risalto questa storia grazie a questa intervista che Dan Dole, grande ex collaboratore di Hart, ci ha gentilmente concesso. Un vera full immersion che ci permette di capire e conoscere ancora di più un uomo leggendario come Brian Hart.

Come hai iniziato a lavorare per Brian Hart?
“Avevo già un’esperienza lavorativa al fianco di un altro ingegnere, Russell Savory, e quando ho avuto bisogno di un posto di lavoro a tempo pieno nel 1989 Russell mi ha passato il contatto di Hart. Fortunatamente, quando ho scritto alla fabbrica per sapere se ci fosse qualche posto libero, Brian mi prese come apprendista costruttore di motori. Ho lavorato con grandi personalità alla Brian Hart Ltd. e lì ho imparato il mestiere”.

Che tipo di uomo era Brian Hart? Che tipo di sensazioni trasmetteva?
“Brian non si fidava di chi conosceva poco. Non credeva ad una determinata persona finché non la conosceva bene. Una volta guadagnata la sua fiducia, lui avrebbe svelato tutte le sue conoscenze riguardo i motori e l’ingegneria. Io mi sono guadagnato la sua stima in quanto persona molto appassionata e sempre propositiva. Di solito, quando proponevo le mie idee, lui mi diceva chi le aveva già pensate e perché non avevano funzionato. Questo dimostra quanto fosse ampio il suo livello di conoscenza”.

C’è un episodio che ricordi particolarmente e che puoi raccontare?
“Quando altri costruttori erano particolarmente lenti nello sviluppare una nuova idea, perché prima svolgevano diversi meeting per discuterne, Brian aveva la capacità di far svolgere tutto più velocemente. Se aveva un’idea o se aveva visto qualcosa di interessante, avremmo iniziato a svilupparla subito. E se qualcuno fosse stato troppo occupato, lui ci avrebbe pensato da solo.

Un esempio di questo riguarda l’albero motore a cinque pesi del V10. Brian ovviamente aveva sentito una teoria sul fatto che all’albero motore di un V10 fossero sufficienti cinque contropesi per restare bilanciato. Tutti in fabbrica erano occupati a costruire altri motori da corsa, quindi Brian prese un albero motore di scorta e lo preparò da solo per vedere se questa teoria funzionasse. Verificato che questa teoria fosse efficace, passarono due soli giorni dall’idea iniziale alla sua effettiva messa in pratica”.

Quanto era difficile lottare contro le grandi Case, che ovviamente avevano possibilità economiche maggiori?
“Era difficile perché non si potevano sprecare soldi su idee selvagge. Comunque i motori erano in costante evoluzione. Brian non cambiava mai particolari che funzionavano bene. Concentrava la sua attenzione sulle parti che potevano dare vantaggi maggiori.

Ad esempio, una volta gli ingegneri della Jordan ci dissero che avrebbero potuto fornirci delle trombe d’aspirazione in fibra di carbonio. Brian chiese quale sarebbe stato il peso di questo particolare e gli risposero che non sarebbe cambiato nulla rispetto all’alluminio. Per cui disse che non capiva il motivo di costruirle diversamente e continuammo ad utilizzare l’alluminio, che era anche più economico”.

Che tipo di lavoro era preparare i motori Cosworth e cosa significava “scontrarsi” con preparatori Cosworth come Heini Mader?
“Risultare più efficaci di Cosworth e di Mader ci ha resi davvero fieri. La versione finale dell’Hart DFR era molto ben sviluppato rispetto al Cosworth originale e non usava nemmeno tante componenti Cosworth, sostituite da pezzi Brian Hart Ltd. Vedere il nostro motore battere il Cosworth HB, la versione che aveva sostituito il DFR, fu molto soddisfacente”.

Come arrivò la decisione di tornare in F1 per supportare Jordan nel 1993?
“Avremmo dovuto correre anche nel 1992 ma a causa di altre situazioni rimanemmo senza team da supportare. Brian sapeva che il V8 non fosse più competitivo e aveva già iniziato a disegnare il 10-35 V10. Quella stagione di lontananza dalle corse ci permise di concentrarci appieno sullo sviluppo del nuovo motore per il 1993. Fortunatamente Jordan aveva appena lasciato Yamaha e aveva bisogno di un’unità sostitutiva. Il nostro fu un ottimo abbinamento perché le due parti lavorarono molto bene insieme”.

Ricordi la soddisfazione per la pole di Spa-Francorchamps 1994 e per il podio di Barrichello ad Aida?
“La Jordan motorizzata Hart mostrò spesso piccoli sprazzi di brillantezza, la pole di Spa fu semplicemente perfetta. Il meteo aiutò, perché iniziò a piovere verso la fine delle qualifiche, ma fu ottima la strategia di Jordan di segnare un tempo subito. La combinazione tra vettura, motore e pilota era molto azzeccata.

Rivedi la pole di Rubens a Spa-Francorchamps

Il podio di Barrichello mostrò come un piccolo team di F1 con un piccolo motorista alle spalle potesse ancora competere contro i grandi. Se non ricordo male concludemmo il mondiale costruttori 1994 al quinto posto ed è interessante rileggere tutti i grandi nomi che arrivarono dietro di noi”.

Quante evoluzione di motore avete approntato in quegli anni?
“Come ho detto prima, i motori venivano costantemente sviluppati anno dopo anno. Il primo V10 riprese qualche dettaglio dell’ultimo Hart DFR. Quando la cilindrata venne ridotta a 3000cc, il nuovo 8-30 V8 era sostanzialmente un V10 accorciato. Nel primo motore di sviluppo, infatti, le teste dei cilindri derivavano dal V10 con il retro accorciato.

L’8-30 fu costantemente sviluppato fino all’arrivo del 10-30 V10, che a sua volta portò con sé qualche particolare del motore precedente. Questo motore venne poi sviluppato fino alla versione della TWR Arrows.

Cosa ricordi degli anni in cui lavoraste con Minardi e Arrows?
“Dopo i successi con Jordan, quelli furono anni difficili. Entrambi i team avevano i loro problemi, quindi le vetture non mostrarono mai il vero potenziale dei nostri motori”.

Come arrivò la decisione di lasciare?
“La fabbrica chiuse perché nessun team si mostrò interessato ai nostri motori. Eravamo tutti speranzosi di trovare un nuovo accordo, quando chiudemmo fu un giorno molto triste”.

Secondo te, perché il motorsport non riesce a ricordare a dovere un personaggio come Brian Hart?
“La Gran Bretagna non celebra i suoi più grandi ingegneri come fanno altri Paesi. Qualche anno fa ho visitato i musei di Moto Guzzi e Ducati: entrambe menzionavano sempre i progettisti delle moto, anche più dei piloti che le guidarono. Ci sono stati tantissimi grandi ingegneri ed innovatori in Gran Bretagna, ma pochissimi di questi hanno ricevuto il dovuto riconoscimento.

Non penso che Brian volesse attirare attenzioni, comunque. Finché i suoi motori funzionavano bene, finché aveva un bicchiere di vino in mano e finché il suo braccio poteva circondare una bella ragazza, lui era felice”.

Immagini: WhenF1WasDifferent Twitter

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