Yamaha F1, la grande incompiuta

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Tempo di lettura: 5 minuti
di Andrea Ettori @AndreaEttori
9 Agosto 2016 - 10:00
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La Yamaha in F1 ha sempre fatto la figura della grande incompiuta, di quella che nonostante i mezzi importanti a disposizione non è mai riuscita ad arrivare al vertice. Soprattutto il confronto, così come accade nel motociclismo (ma in questo caso regna l’equilibrio) con Honda, che a fine anni 80 / inizio anni 90 spopolava come motorista, è sempre stato poco gratificante.

Andiamo a ripercorrere la storia della Yamaha in F1 dalle prime voci del suo ingresso in F1 fino al termine della sua avventura, nel 1997. Dieci anni di storia.

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Nel week-end del GP d’Italia del 1988, con un comunicato a sorpresa, la Yamaha annunciava un accordo di fornitura dei propri V8 alla scuderia tedesca Zakspeed. La squadra, diretta da Erich Zakowski, era intenzionata a costruirsi in “casa”, così come i motori turbo, anche l’aspirato che dal 1989 avrebbe sostituito i propulsori volumetrici nel regolamento della stagione.

Le difficoltà economiche e anche la poca esperienza costrinsero i tedeschi a cercare un motore e Yamaha, dopo un accordo saltato all’ultimo minuto con la March, si rivelò l’occasione migliore e anche più economica. Il nuovo motore chiamato OX88 era un V8 con una architettura inedita a 75° e una potenza di circa 600cv.

Dopo tante prove al banco la nuova Zakspeed 891 motorizzata Yamaha scese in pista a fine 1988 tra l’entusiasmo del team e degli stessi tecnici di Iwata.

La stagione 1989 in realtà si rivelò un vero disastro, con la 891 carente a livello aerodinamico e il nuovo Yamaha poco potente e non affidabile. Schneider si qualificò solamente 2 volte mentre Suzuki non riuscì mai a passare le prequalifiche. Questi risultati portarono alla chiusura del team Zakspeed F1, nonostante un contratto in esclusiva con Yamaha per 2 stagioni. I tecnici giapponesi decisero di progettare un nuovo motore e di prendersi un anno per presentarsi con una nuova unità nella stagione 1991.

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Durante il 1990, a Silverstone la Brabham provò il motore Yamaha dell’anno precedente, e dopo diverse trattative e garanzie tecniche venne firmato un accordo per il 1991. Il nuovo propulsore, completamente nuovo, venne chiamato OX99 ed era un V12  voluto fortemente dal capo del progetto F1 Takaaki Kimura.

L’evoluzione rispetto a 2 anni prima fu importante, con un discreto aumento di potenza ma soprattutto di affidabilità che fece addirittura entrare nelle classifiche dell’epoca il motore Yamaha come tra i più resistenti dell’intero campionato. In quella stagione arrivarono anche i primi punti iridati, con Blundell a Spa (6° posto) e Brundle a Suzuka (5° posto). Purtroppo come accadde anche con la Zakspeed, i problemi economici della Brabham non consentirono alla Yamaha di poter esprimere il massimo potenziale e soprattutto di cercare una nuova collaborazione.

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Fu così che il team che aveva maggiormente impressionato nel 1991, la Jordan, concluse un accordo di fornitura gratuita dei V12 per il 1992. Un binomio che sulla carta doveva permettere ad entrambi di inserirsi costantemente nella top 10 del campionato. In realtà la stagione fu una totale agonia. La splendida 192 era stata progettata per ospitare il compatto V8 della Ford e non il più ingombrante Yamaha. Stefano Modena e Mauricio Gugelmin patirono diversi ritiri, causati anche dal surriscaldamento del motore.

Durante la stagione la Yamaha portò diversi aggiornamenti senza successo e così si rivolse a John Judd per un aiuto tecnico. A Suzuka arrivò quello che doveva essere un evoluzione importante del V12 che si rivelò comunque molto deludente. La stagione si concluse con un misero punticino raccolto da Modena ad Adelaide, e con l’ennesima collaborazione finita tra team e motorista.

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Una nuova opportunità arrivò dalla Tyrrell, che dopo un anno con i motori Ilmor scelse la Yamaha. Questa sarà una partnership 
destinata a durare sino al 1996 e che porterà a diversi punti e al primo podio per il motorista giapponese conquistato da Mark Blundell in Spagna nel 1994.

Si passò da un V12 ad un V10 derivato da quello di John Judd. I risultati furono discreti, soprattutto in termini di potenza anche se non sufficienti per il definitivo salto di qualità. Nel corso degli anni arrivarono anche diverse versioni aggiornate del V10, ma dopo la conclusione del rapporto con Tyrrell nel 1996, si presentò un occasione molto interessante.

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Nel 1997 l’Arrows riuscì a convincere il neo campione del mondo Damon Hill a firmare un contratto con il team e la Yamaha, dopo aver trattato diversi mesi con l’allora proprietario della squadra, Tom Walkinshaw, decise di fornire il proprio V10 rivisto e potenziato. Già dai test pre-stagionali Hill si lamentò di una carenza di cv e le prime gare dell’anno furono piuttosto deludenti.

Con l’arrivo però del “mago” John Barnard, che migliorò anche l’aerodinamica della A18, i risultati arrivarono. A Silverstone Hill colse uno splendido 6° posto, ma è a Budapest che, dopo un ottimo 3° posto in qualifica grazie anche alle coperture della Bridgestone, il campione del mondo in carica sfiorò la vittoria.

La gara fu dominata, e solo un problema al cambio all’ultimo giro gli tolse la soddisfazione della vittoria, relegandolo al 2°posto finale. Per la Yamaha fu il miglior risultato della sua storia in F1, e nelle successive gare arriveranno altri 3 punti e buone prestazioni.

Nonostante questi risultati il programma F1 venne interrotto, e il bilancio per le possibilità dei tecnici giapponesi fu piuttosto scadente. In 7 anni la Yamaha ha raccolto solamente 22 punti, che se confrontati con gli 821 della Renault ma soprattutto con quelli della Peugeot (42) nell’anno dell’esordio in F1 (il 1994 con la Mclaren) sono davvero poca cosa.

La Yamaha e la F1, storia di una grande incompiuta.

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