Venti secondi per la gloria

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di Alessandro Secchi @alexsecchi83
28 Novembre 2016 - 12:00
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Ti chiami Nico Rosberg, e sei un onesto pilota che bazzica nel Circus da 11 stagioni. Figlio di Keke, uomo dai tratti duri che nel 1982 ha conquistato il mondiale con il poco considerato record di una sola gara vinta, tu sei molto più bello: tanto da sentirti accostare ad inizio carriera in F1 il nomignolo “Britney”, in riferimento all’allora reginetta del pop Spears, per il tuo capellame biondo. Alcuni, più avanti, vireranno su un più maschio e convenevole “Di Caprio”.

Arrivi in F1 nel 2006, e fai il tuo esordio a bordo di una Williams lontana parente di quella che, pochi anni prima, si giocava il titolo con il mastino Montoya al volante. Il primo anno te lo ricordi per i primi punti ma soprattutto per la mina che tiri in Brasile all’ultima gara, dopo appena un giro. La militanza a casa di Frank dura quattro stagioni, nelle quali becchi il jolly con due podi nel 2008: a Melbourne con dodicimila ritiri davanti, a Singapore nella più grande messa in scena della F1. I cambi di regolamento del 2009 ti permettono di metterti in mostra un po’ di più. Tanti arrivi a punti e forse l’inaspettata chiamata del team Mercedes, che ha rilevato la BrawnGP campione con Button (uno che ha avuto la tua stessa considerazione, forse peggio ancora). Che hai fatto per meritare tanta considerazione? Eh, sì sa, il cognome fa tanto.

Ti mettono a fianco, per renderti la vita facile, un tale Michael Schumacher, al rientro dopo tre anni di assenza. Ti danno tutti per spacciato in partenza, anche se l’altro potrebbe essere anagraficamente tuo padre. In tre anni non solo reggi il confronto, ma soprattutto all’inizio della convivenza quello che porta a casa i risultati sei tu. “Schumi però è vecchio”, “Schumi ormai non è più quello di un tempo”, insomma il fatto che te lo metti dietro passa un po’ in secondo piano. Anche quando, all’ultimo anno del tuo compagno, il suo migliore in Mercedes, il primo pilota a riportare alla vittoria la Mercedes in Formula 1 in Cina sei ancora tu, quello col casco giallo.

Schumi si ritira e il Team Mercedes, per lasciarti tranquillo, decide di metterti a fianco Lewis Hamilton, amico di vecchissima conoscenza che non hai mai battuto in una stagione intera. Insomma, te lo fanno apposta: passi dal vecchio pluricampione al giovane fenomeno. Anche qui, l’opinione pubblica si aspetta randellate peggiori di quelle che avresti dovuto prendere da Michelone. Macché. Al primo anno vinci due gare contro una di Lewis, ma gli arrivi dietro di 18 punti. Nel 2014 la Mercedes, sbeffeggiata per quattro stagioni, approfitta della nuova era ibrida per sfornare un missile, nome in codice W05. Nessuno se lo aspetta, ma il titolo si gioca all’ultima gara, anche grazie all’oscenità del doppio punteggio che viene inserito tra i fuochi d’artificio di Abu Dhabi. La spunta Lewis, ovviamente, ma la stagione ha visto i primi screzi tra voi. Quando ci si gioca l’obiettivo grande, l’amicizia resta fuori.

Nel 2015 la partita è a senso unico. Lewis comanda senza grossi problemi durante la stagione e te fai il possibile per limitare i danni. Sei segnato: hai resistito un anno con il bersaglio grosso, ora per molti sei il paggetto del tuo compagno. Vinci le ultime tre dell’anno ma lo sanno tutti che in realtà te le ha lasciate lui per cavalleria, compassione, o pena. Almeno, si sentono certe voci. Per il 2016 ci si aspetta il ritorno in grande stile di Lewis, visto lo status di campione e il conclamato talento superiore in pista. Invece, incredibilmente, ti ritrovi a 100 punti dopo 4 gare. Bottino pieno. Lewis canna un paio di partenze mettendosi da solo nei guai e rimane vittima di problemi alla sua monoposto. Soprattutto, quello che succede a Barcellona è inaspettato anche per te. Perché non hai mai chiuso la porta al tuo compagno, anzi ti hanno sempre dipinto come l’arrendevole di turno: invece in Catalunya, dove Lewis parte ancora male, fai per la prima volta in carriera lo stronzo e piuttosto che farti ripassare dal fenomeno finite fuori entrambi.

È qui che scatta definitivamente la guerra. La stagione prosegue a ondate. Lewis ritorna prepotentemente in estate. In Canada ti manda per prati, tu gliela prometti ma in Austria ci rimetti ancora, perché fare gli stronzi è roba da DNA, mica ti riesce sempre. E via che ti danno ancora per spacciato sotto l’ombrellone. Torni dalle vacanze e, per lo stupore di tutti, ne infili altre tre come a dire “oh, ci sono ancora”. La Malesia ti dà una mano, ma una te la dai anche da solo dopo che, alla fine del primo giro, sei ultimo grazie a Vettel. In Giappone, dopo Monza, Lewis sbaglia ancora partenza e porti a casa la nona vittoria della stagione. Hai 33 punti di vantaggio a quattro gare dal termine, puoi viaggiare di conserva per i restanti appuntamenti. Sai che in condizioni normali Lewis può vincerle tutte: non ti rimane che giocare d’intelligenza. Austin e Messico se ne vanno tranquille per lui. Hai ancora 19 punti. Le ultime due sono esami durissimi. In Brasile diluvia: il trappolone per eccellenza. Gente che sbatte, gente che si salva, gente che si gira. Perdi anche te la macchina ma resti in corsa. Lasci andare Verstappen e la fortuna ti premia alla fine, perché comunque nella condizione per te peggiore arrivi ancora dietro Lewis.

Abu Dhabi è tutto o niente. Gloria o inferno. Dieci anni dopo il tuo arrivo in F1 sei il pilota che ha vinto più Gran Premi senza aver vinto il mondiale. Ti hanno dato della femminuccia, hai corso all’ombra, sei sempre stato considerato meno degli altri: sei meno veloce dei più forti, ma non conta solo la velocità. Hai 12 punti di vantaggio: il titolo potresti vincerlo, come perderlo, con nove gare vinte quando tuo padre un titolo se l’è portato a casa con una sola vittoria. Sarebbe un tragico scherzo del destino. Lewis si giocherà tutti gli assi a suo favore: quelli politici per mettere sotto pressione la squadra li getta sul tavolo in conferenza stampa, quelli in pista per mettere sotto pressione te li userà in gara.

L’azione che vale davvero il titolo, però, non te la devi giocare contro Lewis, ma contro un ragazzino di 19 anni che si chiama Max Verstappen. Lo chiamano predestinato, quello che ha fatto ammattire mezza griglia e che ti trovi davanti dopo la prima sosta. Uno per il quale hanno cambiato il regolamento perché troppo sfrontato. In Canada ti sei già scottato: hai provato a superarlo e ti ha spedito in via di fuga. In Giappone anche Lewis ha dovuto cedere all’arroganza dell’olandese. In Messico Vettel è impazzito. Vorresti restargli dietro per non rischiare ma non puoi permettertelo, perché dai box ti dicono che se non rischi adesso i guai li troverai alla fine. Non c’è soluzione alternativa. Come Grosso davanti a Barthez a Berlino, come la Vinci all’ultimo punto contro Serena Williams agli US Open, sei l’underdog che deve dimostrare di meritare un titolo che in pochi ti vedono cucito addosso.

Tutto in venti secondi: ti passano davanti la vita, la carriera, la gloria passa da qui. E allora ci provi, o la va o la spacca. Lo avvicini, lo affianchi in fondo al primo lungo rettilineo, Max resiste all’esterno, quasi vi toccate. Non hai alternativa se non quella di incrociare la traiettoria e sfruttare la trazione in uscita. Come Schumi su Hakkinen all’uscita della Roggia, anno di grazia 1998. Sei davanti, allunghi, ma il cagnaccio ti si rimette subito alle spalle, perché non ha mica paura di riprovarci. Lo fa alla fine del secondo rettilineo ma qui sei tu ancora, per la seconda volta nell’anno, a chiudere forte, da stronzo, da campione che ancora non sei. Ecco la chicane: sei passato, sei davanti, puoi respirare e scappare. Solo tu sai che razza di peso ti sei levato dalle spalle. I venti secondi che valgono una carriera li hai superati.

Ma non è ancora finita: negli ultimi 15 giri Lewis si affida all’ultimo tentativo disperato: rallentarti nella speranza che Verstappen, ancora lui, ma soprattutto Vettel in rimonta furiosa con le Supersoft, tornino a prenderti. Se ne sbatte dei dettami via radio e lo fa, perché il trenino degli ultimi cinque giri è da infarto. A posteriori potresti pensare che, per rompere il giochino a Lewis, avresti potuto farti passare da Sebastian e lanciarlo a seguirlo: avrebbe dovuto per forza accelerare. Ma poi, una volta terzo, saresti stato ad un passo dal disastro. Meglio resistere al secondo posto, fino all’ultimo, fino a quando Lewis rallenta di due secondi e mezzo nell’ultimo settore dell’ultimo giro.

Ce l’hai fatta. 34 anni dopo papà sei Campione. Burnout sul traguardo, team radio con la moglie. 20 anni dopo Damon Hill, sei il secondo figlio di Campione del mondo ad aggiudicarsi a sua volta il titolo. Non sarai veloce quanto il tuo compagno, non sarai ricordato come il Campione più forte della storia. Ma hai dato il 120% delle tue possibilità e il tuo nome, sull’Albo d’oro, non te lo può levare nessuno. Sbattitene di quello che dicono e diranno: tutti i titoli sono meritati, fortune e sfortune servono solo a riscrivere storie a convenienza.

Ma soprattutto, fai a tutti un favore: dopo una vittoria del genere, riporta il numero 1 in Formula 1. Dopo aver lavorato tanto, sudato tanto, sofferto tanto, non ci penserei due volte.

Alla fine, comunque, avevano ragione a chiamarti Di Caprio. Il tanto atteso Oscar, quest’anno, l’ha vinto pure lui.

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