Un ricordo di Andrea De Cesaris

F1
Tempo di lettura: 7 minuti
di Francesco Ferrandino
7 Ottobre 2014 - 15:00
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Erano gli anni in cui l’Italia dominava in F1. Se non dal punto di vista qualitativo, almeno quello della quantità: dieci, quindici piloti tricolori sullo schieramento dei Gran Premi, e Andrea De Cesaris si segnalò subito come uno dei più precoci. Una veloce trafila tra kart, F3, F2, e a 21 anni era già in F1.

Italiano, anzi romano fino al midollo (“un romano è quel che ci vuole in ogni gruppo, sa tener alto l’umore di tutti” diceva), soprannominato “Mandingo” per la sua particolare attenzione alla forma fisica (in questo fu uno dei primi) e per la sua simpatica aria da spaccone, ma immediatamente a suo agio anche nel Circus che, si sa, parla prevalentemente inglese: lo sponsor Marlboro, che lo accompagnò per tutta la carriera, favorì a fine ’80 il suo positivo debutto con l’Alfa Romeo dell’ingegner Chiti e poi subito dopo ecco un contratto con la McLaren ma, come Andrea precisava sempre, “non era certo la McLaren pigliatutto degli anni successivi”: una macchina non eccelsa e qualche incidente di troppo (che gli valsero in Inghilterra l’appellativo di “De Crasheris”) posero fine dopo una sola stagione all’esperienza col team inglese. Tornò all’Alfa dove si prese una platonica rivincita a Long Beach, nell’82, quando centrò la pole position proprio davanti alla McLaren del rientrante Niki Lauda, suo idolo di gioventù. Platonica perché in gara l’esperienza dell’austriaco ebbe la meglio, nonostante i primi giri condotti in testa.

Artigliò il suo primo podio nel rocambolesco GP di Monaco ’82, ma è l’anno successivo che ottenne i suoi migliori risultati: secondo in Germania e in Sudafrica, ottavo nel mondiale, ma col rimpianto di una mancata vittoria in Belgio, dove scattò al comando e vi rimase per metà gara, quando un pit stop troppo lento e poi un guasto al motore misero fine al sogno. Un sogno che non si concretizzò mai. 208 partenze e nessuna vittoria, anche se di nuovo a Spa, otto anni dopo, sembrava che Andrea potesse piazzare il colpaccio: è il 1991, De Cesaris corre con la Jordan, debuttante scuderia inglese, cogliendo diversi buoni risultati tra cui il quarto posto in Messico (mitico il finale con Andrea che spinge la vettura ammutolita sul traguardo e l’inviato RAI, l’onnipresente Zermiani, che cerca di intervistarlo lì, sulla pista, mentre il pilota, ancora col casco, si affanna dietro l’alettone della sua Jordan), e al GP del Belgio si ritrova come occasionale compagno un certo Michael Schumacher, giovane tedesco esordiente che già in prova dimostra subito tutto il suo talento. Ma in gara, ritiratosi immediatamente il futuro Kaiser, fioccano i colpi di scena che eliminano via via molti dei big, e nel finale la verde Jordan di De Cesaris sembra proprio in grado di raggiungere e superare la malmessa McLaren-Honda di Senna che arranca col cambio quasi a pezzi, ma a soli tre giri dal termine è ancora una volta il motore a spezzare i sogni di gloria del romano.

Dieci squadre diverse in poco più di quattordici stagioni: una bella collezione di casacche, qualche volta prestigiose, tante altre volte rimediate all’ultimo minuto, quando la stagione stava ormai per cominciare. Come quella volta nell’88, con la RIAL progettata da Brunner partendo dal nulla, anzi, dall’inferno delle prequalifiche: “Quell’anno abbiamo fatto cose incredibili, che pochi hanno capito. Eravamo pochissime persone, lavoravamo tutti e tanto. Quando Brunner a metà campionato litigò col boss Schmidt, mi ritrovai a prendere decisioni tecniche, come un ingegnere. Mancava solo che guidassi il camion quell’anno!”. Oltre a Brunner, un altro tecnico con cui De Cesaris si trovò molto bene fu Gerard Ducarouge, verso cui Andrea si sentì sempre particolarmente in debito perché riteneva che il “Duca” avesse contribuito in modo decisivo a lanciarlo, nel biennio all’Alfa, che terminò a fine ’83. Nei due anni successivi, De Cesaris guidò per Guy Ligier, il quale tuttavia non gli perdonò l’ennesimo incidente a Zeltweg nel GP d’Austria ’85 (quando il romano capotò più volte tra le colline di Spielberg) licenziandolo prima del termine della stagione. Eppure, quell’anno Andrea andò vicino a concretizzare il sogno di quasi tutti i piloti, vale a dire correre con la Ferrari: “Non sono in molti a saperlo, ma io alla Ferrari sono andato molto vicino nell’85, l’anno in cui licenziarono Arnoux. Dopo il primo gran premio, infatti proposero lo scambio con me a Maranello e René alla Ligier. Lui rifiutò, facendo saltare tutto, e poi lo appiedarono per il resto della stagione… Peccato, era una cosa fatta”.

Sfumato il miraggio ferrarista, cominciò così il periodo da “globetrotter”: nel 1986 un anno con Minardi, ma i soldi per sviluppare il turbo non c’erano. Sono anni in cui si consolida anche la fama di De Cesaris come doppiato particolarmente “ostruzionista”, che lui negava sempre, rivendicando “la fatica di chi sta facendo il suo lavoro, sputando sangue in pista, pur nelle retrovie, lontano dalle telecamere, magari combattendo per una posizione che potrebbe cambiare la vita sua e del suo team”. Nell’87 Andrea è alla Brabham che l’anno prima ha tragicamente perso Elio De Angelis, ma il proprietario, Bernie Ecclestone, è ormai sempre più “distratto” dalla gestione del management dell’intero Circus di F1 e il team è ormai in declino, alle prese con la poco competitiva BT56 a motore BMW. Tuttavia De Cesaris, che quell’anno fa coppia con Patrese (altro italiano dalla longeva carriera) riesce ad agguantare un buon terzo posto nel GP del Belgio a Spa (e dove sennò…). E’ il suo penultimo piazzamento sul podio: l’ultimo sarà nel 1989 a Montreal, quando arriva terzo a sorpresa con la Dallara della Scuderia Italia sotto il diluvio nel GP del Canada, in una buona stagione che però non si ripete nel ’90, anche per una certa mancanza di sintonia col patron Lucchini. La positiva esperienza con la Jordan gli permette nel 1992 di approdare alla corte di Ken Tyrrell orfano dei motori Honda e costretto a utilizzare gli ancora acerbi Ilmor, ma De Cesaris arriva diverse volte in zona punti che valgono al team del boscaiolo un buon sesto posto finale tra i Costruttori. Il passaggio di Ken ai motori Yamaha nel ’93 vanifica ogni sforzo, e per Andrea sembra ormai arrivato il capolinea della lunga avventura in F1. Ma nel travagliato 1994, a stagione già iniziata, eccolo di nuovo in pista richiamato da Eddie Jordan per sostituire lo squalificato Irvine: ottiene un ottimo quarto posto a Monaco, poi passa alla Sauber andando a punti anche con la vettura svizzera (nel GP di Francia) per l’ultima volta, prima del definitivo ritiro a fine stagione.

Da “pensionato” delle corse, si era dedicato alla finanza divenendo un esperto di cambi e valute. Amava da sempre praticare il wind-surf, e lo faceva a buon livello, ma insieme alla F1 smise anche di praticare il motocross, altra sua passione: “Dagli incidenti in macchina sono sempre uscito illeso, facendo cross invece mi sono rotto di tutto, quindi ho chiuso anche con le moto da strada. Tu mi conosci” diceva rivolgendosi a un giornalista amico, “Lo sai che se risalissi su una moto mi tornerebbe subito la voglia di ridare gas…”. Parole che, alla luce di ciò che è successo la mattina del 5 ottobre scorso, acquistano amari riflessi… Noi preferiamo ricordarlo con le parole di Nelson Piquet che a Monaco nel ’94, dopo che Andrea aveva ancora una volta dimostrato di essere al top sfiorando il podio con la Jordan, lo abbracciò gridandogli affettuosamente: “Sei forte, Mandingo!”.

Francesco Ferrandino

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