Un giorno di ottobre

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Tempo di lettura: 4 minuti
di Alessandro Secchi @alexsecchi83
18 Luglio 2018 - 02:36
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Ho un foglio bianco davanti, è passata la una di notte e sto scorrendo delle immagini di Jules per cercarne una adatta all’anteprima di questo pezzo. Non ne trovo una. Non vorrei sceglierne una classica ma al tempo stesso non so decidermi. Inevitabilmente mi trovo di fronte quelle che ne raccontano la carriera e, soprattutto, quei mesi trascorsi nel limbo tra quel pomeriggio di ottobre ed il comunicato di luglio che sanciva la fine delle speranze. Immagini di supporto, dolore, attesa di un miracolo. Settimane passate tra un hashtag ed un adesivo su monoposto, caschi, qualsiasi cosa. Mi trovo di fronte, più di tutte, quelle di un pomeriggio a Nizza in cui ho visto volti irriconoscibili. Erano loro, ma al tempo stesso non lo erano. I piloti, quelli che definiamo supereroi, quelli per i quali facciamo il tifo. Umani, straziati, devastati. Gli sguardi persi, in lacrime, increduli. Vulnerabili.

Sono portato a pensare che la vita di Jules in realtà abbia preso un’altra in quel giorno di ottobre e che i successivi mesi siano stati solo un lungo calvario per i suoi cari. Credo che la Formula 1 si sia resa conto davvero di cosa sia successo proprio osservando quei volti segnati dal dolore per un compagno di viaggio che li e ci aveva lasciati. Rivedendo quelle foto e pensando al cordoglio che ancora adesso viene riservato a Jules ed alla sua famiglia, mi chiedo se sia giusto criticare le scelte operate in ambito sicurezza in questi ultimi tempi.

Trovo sia, forse inconsapevolmente, poco coerente piangere un ragazzo che se n’è andato così presto per poi criticare l’Halo o qualsiasi cosa sia; questo indipendentemente dal fatto che non sarebbe servito a salvarlo perché i veri problemi sono stati altri. È il concetto di base quello che non riesco ad afferrare. Le corse sono pericolose e lo saranno sempre, perché il rischio non potrà mai essere eliminato. Si cantano le lodi dei cavalieri del rischio, ma dobbiamo ricordare che si correva con ciò che la tecnologia metteva a disposizione ai tempi e che gli stessi piloti sono stati promotori della sicurezza. Uno su tutti e tra i primi, parlando di tempi lontani, fu Sir Jackie Stewart.

Ecco, io rivedo i volti distrutti di un Hamilton, un Maldonado, un Massa, un Vettel oppure di un Vergne quel pomeriggio a Nizza e non ho il coraggio di sostenere che “c’è troppa sicurezza”. Anzi, non ce n’è mai abbastanza e, se ci pensiamo, senza il disastro di Imola molti degli incidenti venuti dopo avrebbero avuto ripercussioni sicuramente peggiori. Rivedo quei volti, quelle lacrime, quel sorreggersi, scorro l’elenco delle foto e rivedo quell’abbraccio di gruppo sul traguardo di Budapest e quel casco posato a terra in mezzo agli altri. E, sinceramente, non ho il coraggio di dire che sono disposto a rinunciare alla sicurezza per avere gare più intense. La Formula 1 non è snaturata dalla troppa sicurezza, ma da tutto il resto.

Se può esser fatto qualcosa per salvare la vita di un pilota io ne sono assolutamente a favore. Perché, sebbene possa sempre capitare l’imponderabile, voglio vedere ridotto il più possibile il rischio di vedere e vivere un altro giorno di aprile, maggio oppure ottobre come quelli che ricordo, purtroppo, in modo indelebile. Lo dobbiamo a chi come Jules ci ha lasciati contribuendo, indirettamente, allo sviluppo della sicurezza. Perché, altrimenti, piangere resta solo un esercizio del momento.

Alla fine una foto per l’anteprima l’ho trovata. Non è a fuoco: mi piace pensare che Jules stesse andando più veloce della macchina fotografica. Non mi stupirebbe se fosse così, ci stava abituando bene.

Ciao Jules.

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